venerdì 9 maggio 2014

Un omaggio anticipato a Italo Calvino per i trent'anni dalla sua scomparsa - Prima parte

E in occasione del novantesimo anno del suo amico e compagno di liceo Eugenio Scalfari


Prenderemo in considerazione l'opera di Calvino: Perché leggere i classici (scritta nel 1981 e pubblicata postuma nel 1991), cercando di dimostrare che egli ha tratto dai principali classici di filosofia e letteratura, dell'inizio dell'era moderna, interessanti spunti di riflessione in relazione al caso e alla necessità, sfiorando spesso la soluzione, ma, forse, preferendo non trovarla in ossequio alla propria arte letteraia.

Cominciamo dal confronto tra Jacques le fataliste di Diderot e il Tristan Shandy di Sterne: "La parentela tra le due opere -scrive Calvino- va cercata a livello più profondo: il vero dell'una e dell'altra è la concatenazione delle cause, l'inestricabile insieme di circostanze che determinano ogni accadimento anche minimo e che tiene per i moderni il ruolo di Fato". Come si vede, Calvino parte dalla concatenazione delle cause che riguardarebbero anche i minimi accadimenti, ossia egli pone il riduzionismo deterministico in luogo del caso singolare; ma, facendo intervenire il fato, è come se restituisse al caso il suo ruolo nei minimi accadimenti: caso che, invece, in senso epicureo, diventa erroneamente fondamento di libertà.

"Diderot aveva intuìto che è proprio dalla concezione più rigidamente deterministica che si può trarre una carica propulsiva per la libertà individuale, come se volontà o libera scelta possano essere efficaci solo se aprono i loro varchi nella dura pietra della necessità". Il fascino di questa soluzione è, però, puramente letterario. La realtà è, invece, molto più prosaica: è la cieca necessità che s'impone come conseguenza di numerosi, singoli casi.

Per Calvino, "I casi della vita nella loro singolarità sono irriducibili a norme e classificazioni, anche se ognuno risponde a una sua logica". Affermazione questa che implica necessariamente il determinismo riduzionistico. Così, la soluzione che crede di trovare nel confronto tra Diderot e Sterne è la logica della dura necessità nella quale la volontà individuale e la libera scelta individuale possono soltanto aprire dei varchi. I casi della vita, pur irriducibili a norme, pur indeterminabili, risponderebbero, quindi, a una logica. Ma quale? Calvino si richiama a Democrito ed Epicuro: per lui è grazie alla necessità democritea che è possibile la libertà epicurea. I casi della vita, ossia i casi della vita individuale sarebbero così, nel contempo, deterministi e indeterministi, democritei ed epicurei.

Questa conclusione contraddittoria riflette, in realtà, la mancata soluzione della opposizione diametrale caso-necessità, espressa dai due grandi filosofi dell'antichità, che Calvino a torto attribuisce a Diderot, il quale, invece, scrisse Lettera di un cieco ad uso dei vedenti, dove il caso individuale rappresentava l'opposto dialettico della necessità complessiva, necessità, quindi, non più deterministica, non più fondata sulla causa, ma sul caso e perciò dispendiosa come risulta dall'ipotesi dei "molti mondi nati storpi".

Interessante, a questo punto, è la citazione della concezione espressa nel Cirano di Bergerac, opera teatrale di Edmond Rostand, il quale fa dire al protagonista: "Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa in balia del caso, può aver costruito un uomo, visto che c'erano tante cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si era fermata a formare ora una pietra, ora un piombo, ora un cavallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano per progettare un uomo". Questa, pur ingenua descrizione, ha il grande merito d'aver illustrato, nella sostanza, la dispendiosa dialettica di caso e necessità della natura: insomma, per Rostand, la creazione dell'uomo ha richiesto un grande dispendio naturale.

E passiamo a Gianmaria Ortes, un prete secco e scorbutico del '700, come lo definisce Calvino, il quale "combatteva il disordine dell'esistenza e l'indeterminatezza del pensiero con l'arma della "esattezza geometrica". "Dall'uomo macchina di La Mettrie al trionfo della crudele voluttà della Natura in Sade, lo spirito del secolo non conosce mezze misure nello smentire ogni visione provvidenziale dell'uomo e del mondo". E questa idea non rappresenta altro che la protesta dell'illuminismo nei confronti dell'oscurantismo religioso.

"Ma -aggiunge Calvino- nelle conclusioni del Calcolo sopra la verità dell'Istoria, Ortes rivela un desiderio di conoscenza cosmica puntata sul dettaglio infinitesimale e irripetibile: lui che sempre tende ad esaurire l'umano in un'algebra d'elementi astratti, qui condanna ogni pretesa conoscenza generale che non sia basata su una irraggiungibile somma di tutte le esperienze particolari". Esempio estremo di riduzionismo deterministico che ancora oggi domina la scienza contemporanea!

E' questa la tragedia della conoscenza umana fondata sulla pretesa deterministica-riduzionistica: l'inevitabile naufragio nell'oceano degli infiniti "dettagli" particolari. Da qui sorge lo scetticismo e persino una scissione del pensiero, che Calvino rappresenterà con la metafora del Visconte dimezzato: è la scissione millenaria tra la causa di Democrito e il caso di Epicuro, tra l'ordine deterministico e il disordine indeterministico. A motivo di questa scissione la scienza diventa impossibile. Così Ortes, finisce nel completo scetticismo: "posso aggiungere che tutti i raziocini umani non son che follìe. Quando poi dico tutti, non eccettuo i miei calcoli". Questo "relativismo melanconico" altro non rappresenta che la conseguenza inevitabile della dissociazione tra il caso e la necessità e del fallimento del determinismo riduzionistico.

Calvino non poteva certo dimenticare il Candido di Voltaire, nel quale vide "l'accumularsi di disastri a grande velocità": ciò che, per chi scrive, rappresenta la protesta sarcastica contro "il migliore dei mondi possibili" di Leibniz: "Un mondo che va a catafascio, in cui nessuno si salva in nessun posto, se si eccettua l'unico paese saggio e felice, El Dorado". Riassumendo in breve, i tre protagonisti del romanzo rappresentano tre forme diverse di concezione e di pensiero. Pangloss è il pedagogo leibneziano che Voltaire si diverte un mondo a torturare, ma sembra fatto di gomma perché, pur malconcio, sopravvive sempre a tutti i traumi, a tutte le malattie e persino all'impiccagione. Martin è invece il manicheo che vede nel mondo solo la vittoria del diavolo. Infine, Pococurante o Noncurante, senatore veneziano, che avrebbe tutto per vivere bene, eppure trova difetti dove non dovrebbe trovare altro che motivi di soddisfazione e di gratificazione.

Per Calvino: "Il vero personaggio negativo del libro è lui, l'annoiato Noncurante, in fondo Pangloss e Martin, pur dando a domande vane risposte insensate, si dibattono negli strazi e nei rischi che sono in sostanza la vita". La morale della storia è che "Il faut cultivar notre Jardin", espressione che più ha avuto fortuna del Candide, diventando proverbiale nel significato di rappresentazione di attività banale, mediocre, come dire: "limitiamoci a coltivare il nostro orto". Ma, secondo Calvino, Voltaire intendeva piuttosto dire che, per quante avventure singole ci capitino, "è necessario coltivare il nostro orto" per poter vivere, ossia è necessario tener conto della fonte del nostro sostentamento. (Continua)

Scritto nell'ultimo decennio del Novecento.

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