domenica 28 aprile 2013

Il gioco a nascondino dell'astuzia e la rissa verbale. Povero Aristotele e povero Schopenhauer!

L'astuzia è ancora più timida e vergognosa dell'invidia, ma solo perché, per essere efficace, non deve farsi scoprire. Ed è forse per questo motivo che non si riescono a trovare molti argomenti e autori sulla materia, persino tra gli aforisti.

Nel dizionario troviamo la seguente definizione: ASTUTO, dal latino astutum, da "astu" 'con astuzia', da accorgimento, strattagemma. Esempio: l'astuzia di Ulisse.

Aggiungiamo anche FURBIZIA: da furbo, da fourbir = nettare (le tasche) e anche "furberia", sinonimo "astuto": chi sa mettere in pratica accorgimenti sottili ed abili, atti a procurargli vantaggi e utilità.

Come si vede, l'unica differenza tra astuzia e furbizia è una questione di forma: la prima sembra essere più nobile, elitaria; la seconda sembra appartenere soprattutto ai furfantelli. Ma, come vedremo, i due termini spesso sono confusi tra loro.  Andiamo alla ricerca...

sabato 27 aprile 2013

2b) La statistica nella scienza dell'Ottocento

(Continuazione) III) Il logico formale A. De Morgan ripropone la distinzione tra conoscenza certa e conoscenza probabile: "All'ambito della conoscenza certa appartengono le verità evidenti della tradizione cartesiana, all'ambito della conoscenza probabile tutti i casi nei quali non si può arrivare a una conoscenza certa". (Dessì)

Per De Morgan, la probabilità è il grado di credenza razionale, non l'atteggiamento psicologico soggettivo di fronte a qualsiasi assunzione. Insomma, ed è sempre Dessì che riassume: "La credenza nei confronti di una proposizione contingente potrà assumere tutti i valori compresi tra gli estremi, dati dalla necessità che si traduce in certezza a favore e dell'impossibilità che si traduce in certezza contro. I gradi di credenza sono sempre suscettibili di misura...". La credenza è come il calore o la febbre, "si tratta di costruire una sorta di termometro per la credenza avendo a disposizione il punto di ebollizione costituito dalla certezza a favore e il punto di congelamento costituito dalla certezza contro".

Per questa via si arriva alla "definizione classica di probabilità come rapporto tra casi favorevoli e casi possibili, quando tutti i casi sono ugualmente possibili". Definizione dalla quale scompare ogni riferimento al caso, perché la probabilità diventa effettiva conoscenza, persino quantificabile come misura del grado di credenza. E questa probabilità assumerebbe un ruolo importante nella scienza, quello di guidare lo scienziato nella scelta delle ipotesi. Strumento principale, in questo senso, è per De Morgan, il teorema della probabilità inversa di Bayes, che egli riassume nella seguente formulazione: "vi siano due eventi successivi; la probabilità del secondo sia b/N e la probabilità di entrambi insieme sia p/N; se dall'essersi appreso che il secondo evento è accaduto io ipotizzo che il primo evento è anch'esso accaduto, la probabilità che io sia nel giusto è p/b".

martedì 23 aprile 2013

Pietro Greco: altro che "battito d'ali di una farfalla"!

Questo viene da esclamare leggendo la storia breve di Pietro Greco su Scienzainrete (24/4/13), riguardo alla complessità e al caos. Per chi, come l'autore di questo blog, ha dedicato quasi un trentennio al rapporto caso-necessità che risolve concettualmente rapporti matematici come probabilità-statistica, sistemi non lineari, sistemi complessi, ecc., è penoso sentire per l'ennesima volta la storiella del battito d'ali di una farfalla, come metafora esplicativa, in relazione alla imprevedibilità di questo o quel fenomeno naturale o artificiale.

Per la seconda volta suggerisco di leggere uno scritto di Greco, per confrontarlo con le tesi sostenute in questo blog.* Qui mi limito solo a citarne le conclusioni. Dopo un lungo excursus storico, egli scrive: "Quello che, dunque, i sistemi dinamici caotici mettono in discussione non è il determinismo, ma la predicibilità del mondo. Il caos sancisce la nostra incapacità di fare previsioni esatte sulla evoluzione dell'universo macroscopico e delle sue singole parti, che sia valida o no la causalità rigorosa. Constatata questa nostra incapacità, scegliamo di analizzare il mondo con una razionalità probabilistica. Proprio come suggeriva Laplace".

lunedì 22 aprile 2013

1b) La statistica nella scienza dell'Ottocento

L'incomprensione dei concetti di probabilità e di frequenza da parte del determinismo ottocentesco

Nel suo saggio "L'ORDINE E IL CASO" (1989), che abbiamo già considerato, l'autrice, Paola Dessì, scrive: "Nel 1830 la British Association For The Advancement Of Science aveva costituito un comitato, sotto la presidenza di Malthus, allo scopo di stabilire se la statistica potesse essere considerata una scienza e perciò fosse opportuno accogliere la proposta di formare una sezione di Statistica all'interno dell'associazione. La risposta del comitato, fatta propria nel 1834 dalla Statistica Society of London (la futura Royal Statistical Society), fu che la statistica poteva essere considerata una scienza soltanto in quanto si limitava a raccogliere e ordinare dati; ogni interpretazione di questi dati non poteva essere considerata opera scientifica".

Questa sottovalutazione della statistica da parte della scienza, manifestata ufficialmente nel 1830, testimonia l'incomprensione della comunità scientifica, dominata dal determinismo, nei confronti del principale strumento d'indagine empirica della conoscenza. In quegli stessi anni, diverse furono le posizioni che si confrontarono sui concetti di probabilità e di frequenza, tutte però rimanendo entro l'ambito dell'impostazione deterministica dominante. Per questo motivo, nessuna di esse poté chiarire il rapporto tra il calcolo delle probabilità e la statistica, e se qualcuna lo intuì e qualcun altra lo sfiorò, la maggior parte lo complicò rendendolo inestricabile. Lo scopo di questo paragrafo è esaminare le diverse posizioni, e, per fare questo, utilizzeremo ancora il saggio di Dessì.

I] Esaminiamo la posizione di Herschel sul calcolo delle probabilità. L'autrice la sintetizza nei seguenti termini: "Come per Laplace anche per Herschel la probabilità ha significato in rapporto alla nostra ignoranza del vero succedersi dei fenomeni e delle loro cause e costituisce ancora il miglior modo di avvicinarsi da parte dell'uomo a una realtà supposta completamente determinata nella sua struttura". Herschel, riferendosi a Laplace, scrive infatti: "ciò che si chiama caso è ammesso nei suoi ragionamenti come espressione dell'ignoranza in cui ci troviamo relativamente agli agenti, alle disposizioni e ai motivi, ma con l'intento espresso di escluderlo dai risultati".

Egli coglie, quindi, perfettamente la motivazione di fondo del calcolo delle probabilità: l'esclusione del caso; ma non precisa, e neppure Dessì precisa, che esistono due livelli distinti di determinazione: quello che riguarda il singolo evento, per il quale è sorto il calcolo delle probabilità, e quello che riguarda un gran numero di eventi, che è sempre stato oggetto della frequenza statistica. Ora, il fatto che Dessì ci assicuri che per Herschel, così come per Laplace, il valore vero è la frequenza non contribuisce a chiarire il rapporto probabilità-frequenza.

Scrive l'autrice che per Herschel "Il calcolo probabilistico deve essere guardato principalmente come ausiliario pratico della filosofia induttiva. Esso permette di fare previsioni laddove la concomitanza di un numero molto alto di cause dà luogo ad avvenimenti che presi singolarmente appaiono irregolari e incerti." Infatti, egli afferma: "Non vi è nessuno che, nei casi in cui ciò che chiamiamo contingenza entra largamente, non sia sorpreso di trovare non solamente che i risultati medi di differenti serie di prove si accordano tra loro in maniera veramente straordinaria, ma che gli stessi errori di prove individuali si raggruppano intorno alla media con una regolarità che si direbbe l'effetto di una intenzione deliberata".

In parole povere, per un determinista come Herschel è sorprendente e straordinario che là dove domina il caso si possa trovare una regolarità, una necessità, che sembra l'effetto di una intenzione deliberata. Insomma, ciò che sorprende il determinista è il rovesciamento del caso in necessità. La sorpresa è però accompagnata dal rifiuto: infatti, egli pone come centrale il concetto di frequenza in quanto determinato, ma solo in quanto esso permette di ipotizzare connessioni su possibili cause che sono ignote. Insomma, poiché la frequenza è un dato regolare, costante, determinato, si può affermare, in senso deterministico, che essa è un effetto della causalità.

Scrive Dessì: "Herschel si chiede: "perché alla lunga gli avvenimenti si conformano alle leggi di probabilità (sic!)? Qual è la causa di questo fenomeno considerato come un fatto?" Sotto al fatto degli avvenimenti che si conformano alla legge della frequenza ci deve essere una causa, e questa è la solita pretesa deterministica, che soltanto la necessità possa determinare un'altra necessità, che soltanto una causa necessaria possa determinare un effetto necessario.

Ma Herschel compie un altro errore di un tipo nuovo, non strettamente deterministico, errore che deriva dalla confusione tra un concetto "deterministico" come la frequenza e un concetto "indeterministico" come la probabilità, errore reso possibile però soltanto dal fatto di non voler riconoscere il caso come base del calcolo delle probabilità. E così egli non si rende conto che soltanto il singolo avvenimento si conforma alle leggi di probabilità, le quali stabiliscono, per ogni singolo evento, il suo ambito di casualità, ma non possono determinarlo in alcun modo. Mentre "alla lunga", (ossia, ogni serie di numerosi eventi nelle stesse condizioni) si conforma a una legge statistica, quella della frequenza.

Già, esaminando questa prima posizione sul rapporto probabilità-frequenza, possiamo giungere alla conclusione che il rifiuto del caso precluderà al determinismo ogni comprensione del concetto di probabilità, come concetto che, per così dire, non può far altro che inquadrare l'ambito della casualità singolare. Ma, non essendo in grado di comprendere la relazione esistente tra il concetto logico di caso e il concetto matematico di probabilità, il determinismo non avrebbe potuto comprendere la relazione esistente tra il concetto logico di necessità e il concetto statistico di frequenza.

La probabilità e la frequenza si sarebbero, perciò, confuse, scambiandosi le parti, esattamente come è sempre avvenuto tra il caso e la necessità, per cui il determinismo ha finito sempre con l'elevare il caso a necessità e l'indeterminismo con l'abbassare la necessità a casualità. Così la frequenza viene abbassata a probabilità e la probabilità viene elevata a frequenza. L'indagine delle prossime posizioni espresse da vari autori ce ne darà una precisa conferma.

II] Prendiamo in esame la posizione espressa da Mill nel "Sistem of logic" del 1843. "Nel lancio di un dado -scrive Mill- la probabilità dell'uscita di un asso è 1/6 non, come direbbe Laplace, perché vi sono sei tiri possibili di cui l'asso è uno, e noi non conosciamo alcuna ragione per la quale dovrebbe uscire l'uno piuttosto che l'altro, ma piuttosto perché sappiamo che in un centinaio o in un milione di lanci, l'asso uscirà circa 1/6 di quel numero o una volta su sei".

Come si vede, Mill eleva la probabilità a livello della frequenza, sbarazzandosi così del concetto aprioristico, matematico, di probabilità e di ogni connessione con il caso. Il suo errore è duplice: in primo luogo, perché nega che possa essere concepito un rapporto P=1/n, ossia una possibilità su n possibilità, definito probabilità; in secondo luogo, perché afferma che la probabilità può essere definita soltanto mediante il valore che l'esperienza determina come valore certo: la frequenza. Ma se noi sappiamo che in un gran numero di lanci di un dado un numero uscirà una volta su sei, il dato 1/6 rappresenta una certezza e non più una probabilità. Dunque che cosa può significare il concetto di probabilità se non un concetto matematico a priori? E a che cosa può servire determinare sperimentalmente una frequenza per poi considerarla alla stregua di una probabilità?

Secondo Mill, se noi sappiamo che in una foresta la metà degli alberi sono querce, la probabilità che un albero preso a caso sia una quercia è 1/2. Ma che bisogno abbiamo di utilizzare un dato determinato per rovesciarlo in un dato indeterminato? Che senso ha negare a qualcuno una conoscenza certa: ad esempio che la metà degli alberi di una determinata foresta sono querce, e costringerlo a prendere un albero a caso? La conoscenza serve all'uomo come guida all'azione, e quindi per eliminare il caso, non per trastullarsi con esso in senso probabilistico.

Dice Dessì che Mill cambiò parere dopo le critiche rivoltegli da Herschel, quindi fornì un'altra definizione di probabilità che l'autrice così riassume: "La probabilità non è una proprietà dell'evento, ma semplicemente la misura del grado di fondamento che abbiamo per aspettarci che l'evento si verifichi; è una grandezza soggettiva che può mutare da individuo a individuo e da momento a momento a seconda delle informazioni a disposizione di chi giudica, ed è suscettibile di misura anche nel caso di totale assenza di informazioni".

Questa nuova definizione di tipo soggettivistico è utilizzata da Mill per mettere in ombra la probabilità e lasciare campo libero alla sola frequenza. Secondo Dessì: "Mill si rende conto che ammettere la frequenza come unico fondamento del calcolo significa dare alla probabilità una valenza oggettiva che egli non è disposto a riconoscere", perché anche per lui in natura vige il più completo determinismo. infatti scrive: "Ogni evento è in se stesso certo, non probabile, se noi fossimo a conoscenza di tutto sapremmo positivamente che si verificherà o sapremmo positivamente che non si verificherà".

Si potrebbe dire che, con Mill, il determinismo oscilla tra il riconoscimento oggettivo della probabilità, identificata con la frequenza, per poter eliminare ogni considerazione sul caso, e il riconoscimento della oggettiva frequenza come il dato fondamentale collegabile deterministicamente ad una causalità ammessa, anche se sconosciuta, nel qual caso la probabilità viene messa in ombra, e considerata come terzo incomodo.

Mill cambierà parere sulla probabilità, nel senso che non la identificherà più con la frequenza, e imiterà Herschel, collegando la frequenza alla causalità. La connessione tra frequenza e causalità è però soltanto una questione di ragionamento formale di nessun valore teorico, come si può vedere dall'esempio da lui prodotto: l'assicuratore fa affidamento sulle tavole della mortalità dalle quali risulta ad esempio che il 5% degli individui raggiunge il settantesimo anno di età. Per Mill questo rapporto indica "la proporzione relativa a quel luogo e a quel tempo, che esiste tra le cause che prolungano la vita sino a settanta anni e quelle che tendono a farla finire prima". Ma questa è soltanto una semplice dichiarazione di fede determinista che si commenta da sola. (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002)

sabato 20 aprile 2013

Che tristezza! Non se lo meritava! Chi? L'uomo o il partito?

Questa mattina su Repubblica.it si poteva leggere: "Poco prima, nella riunione con lo stato maggiore, (Bersani) era stato tranchant: "Mi sono rotto i coglioni". Sulle ceneri della candidatura bruciata di Romano Prodi, si chiude la parabola dell'uomo di Bettola alla guida del Partito democratico dall'ottobre del 2009. Anche Rosy Bindi si è dimessa dalla carica di presidente, battendolo sul tempo di pochi minuti. Finisce la corsa di un gruppo dirigente mentre rimane in altissimo mare la scelta sul nuovo capo dello Stato. "È l'esplosione del Pd", commenta impietrito Ricky Levi, il braccio destro di Romano Prodi che ha presidiato ieri il Transatlantico. Muove appena le labbra. "Che tristezza per Romano. Non se lo meritava". "

Perché riportiamo questo brano? Perché vi è sintetizzato un metodo della politica che non vuole rinunciare a cedere le armi, nonostante i tempi nuovi. E' il metodo del primato dell'individuo sul collettivo politico, sul partito, metodo sopra espresso con un'ingenuità che fa cadere le braccia. Pensate un pò, di fronte all'esplosione di un intero partito, Levi si preoccupa della tristezza del proprio capo: "Non se lo meritava": che cosa non si meritava? Di aver perso il  partito (collettivo)? O di aver perso la sua occasione (individuale): diventare Presidente della Repubblica, coronando una lunga carriera istituzionale a livello italiano ed europeo?

Il parlamento italiano non comprende Grillo ma neppure Francesco, figurarsi Renzi!

Ciò che sta accadendo in parlamento ha più del drammatico o del tragicomico? Del resto, questa è o non è la tanta decantata (in passato) società dello spettacolo?  Si potrebbe anche dire: era ora che a gestire un pò di società dello spettacolo ci fosse un capo comico, dopo che a fallire è stato un "padrone delle ferriere" del momento, ossia un padrone delle televisioni, produttrici di spettacoli, alias spot, alias Truman show, alias shopper da avviare ai grandi magazzini, alias credito (usurario) al consumo, ecc. ecc. Ma oggi tutto questo sta franando, a cominciare dalla fine: dal credito al consumo nei grandi magazzini, per continuare con i Truman, orfani della società del benessere.

La frana della società dello spettacolo o del "truman show per lo shopping" si porta via tutta la ricchezza del passato. Ciò che simbolicamente è stato ben rappresentato e rapidamente risolto dalla più antica (e più rapida ad adeguarsi) istituzione umana: la Chiesa cattolica, che ha subito trovato non solo la soluzione ma anche la sua più precisa e sintetica rappresentazione in un piccolo nome: Francesco. C'era un modo più chiaro e più semplice  per dire che si stavano avvicinando tempi grami?

venerdì 19 aprile 2013

2a) Caso probabilistico e necessità statistica

(Continuazione) Il fatto "sconvolgente", nel senso che "sconvolse" la probabilistica rovesciandola in statistica, si verificò quando si prese in considerazione non più il singolo lancio della moneta, non più la singola possibilità sul totale delle possibilità, ma un gran numero di lanci della stessa moneta nelle stesse condizioni. Se consideriamo con T il numero di uscite Testa, con C il numero di uscite Croce e con n il numero di lanci, si verifica sperimentalmente che T/n e C/n tendono, in un gran numero di lanci, ad un unico valore costante: la frequenza relativa f. Questo valore coincide con la misura della probabilità p: 1/2.

In altre parole, la sorte del singolo lancio, originaria preoccupazione deterministica dei matematici che impostarono il calcolo delle probabilità, rimane indeterminata, ossia soggetta al caso, nonostante si affermi che esso può avere una probabilità su due di dare testa o croce. Al contrario, per un gran numero di lanci, ossia per un insieme di casi, che sono un tipico oggetto di studio statistico, si perviene ad un dato certo e necessario: la frequenza 1/2. E la circostanza per cui lo stesso indice vale per la frequenza e per la probabilità, non modifica l'incertezza e l'indeterminazione del concetto di probabilità, il quale non fa che esprimere l'ambito della casualità inerente al singolo evento.

giovedì 18 aprile 2013

Pietro Greco: "Alla ricerca della complessità"

Pietro Greco:  "Alla ricerca della complessità"

Ciò che viene chiamata complessità è la via confusa e multiforme che molti studiosi e scienziati hanno intrapreso da molti decenni per cercare di risolvere le annose contrapposizioni tra riduzionisti e olisti, tra deterministi e indeterministi, ecc. Tutto poi si è ridotto alla concezione dei livelli di complessità che troviamo nei processi naturali o di tipo naturale, che vengono chiamati livelli di organizzazione diversi. Un esempio facile per tutti: la specie (complesso) è costituito di molteplici organismi (individui singoli). Poi a salire: le specie sono molteplici singoli appartenenti al genere... ecc. ecc. Poi a scendere: l'individuo singolo è costituito di organi e tessuti, a loro volta costituiti di molteplici singole cellule, ecc. ecc.

Volendo semplificare al massimo, come fa Pietro Greco in "Scienzainrete" nella sua conclusione alla presentazione di un progetto italiano su questo tema, che ha come oggetto i "processi decisionali e le dinamiche socio-economiche" alla ricerca della complessità, si tratta, usando le sue parole di "districare i rapporti tra comportamenti individuali e comportamenti collettivi nelle decisioni economiche".

mercoledì 17 aprile 2013

1a) Caso probabilistico e necessità statistica

La statistica, in senso lato, come quantificazione di capi di bestiame, di nascite, di popolazione, ecc., è molto antica e risale ad alcuni millenni prima della nostra era. Basti pensare alla divisione per classi di censo dell'antica Atene o dell'antica Roma. Dopo la fase di stagnazione feudale, la statistica risorse, come ogni altro ramo della scienza moderna, nel secolo XVI, e si sviluppò in due direzioni che presero il nome di indirizzo investigativo (in Inghilterra) e descrittivo (in Germania). Essa rappresentò, in entrambi i casi, uno strumento di indagine empirica che ebbe come oggetto di studio i fenomeni collettivi -composti di numerose unità- propri delle cosiddette scienze sociali.

Nello stesso periodo sorgeva, nell'ambito delle scienze naturali, per opera di scienziati matematici, il calcolo delle probabilità il cui oggetto di studio era costituito dai singoli eventi. Punto di partenza del calcolo probabilistico fu l'analisi matematica dei giochi d'azzardo e precisamente il tentativo di determinare i singoli eventi casuali, come ad esempio il lancio di un dado. Si trattò, quindi, più di un gioco matematico che di una seria operazione scientifica.

lunedì 15 aprile 2013

La questione del rapporto probabilità-frequenza statistica

E' già capitato, in questo blog, di trattare l'argomento statistica, sottolineando la confusione dei teorici di questa disciplina riguardo ai concetti di probabilità e frequenza. Abbiamo anche osservato che, certe volte, sembra che si facciano le indagini statistiche avendo per obiettivo l'incertezza probabilistica piuttosto che la certezza della frequenza statistica. La prossima serie di post ha lo scopo di approfondire la questione e mostrare la soluzione nella maniera più ampia.

domenica 14 aprile 2013

L'incoscienza di Truman (Seconda parte)

(Continuazione) Scrive Rifkin: "Lo psicologo Robert J. Lipton ha definito questa nuova generazione "proteiforme": uomini e donne cresciuti nei common-interest development, la cui salute è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing, acquistano online, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia di attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi più come a giocatori che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi più che industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazioni Just-in-time e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più "terapeutici" che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di frasi, ma superiori nella elaborazione dei dati elettronici. Sono più emotivi che analitici".

sabato 13 aprile 2013

L'incoscienza di "Truman" (Prima parte)

Indagando la società del Truman show ci imbattiamo in una contraddizione paradossale: mentre ogni individuo parte da se stesso pretendendo di vivere un'esistenza personalizzata -piena di beni materiali e immateriali fatti su misura, dominato da un immediatistico individualismo egogentrico, orientato verso i più diversi stili di vita che lo distinguano dagli altri-, tutti gli individui si trovano accomunati dalla medesima esigenza dello shopping senza limiti, che li trasforma in un unico shopper collettivo, rinchiuso dal marketing spettacolarizzato in un mondo fittizio e immaginario, dal quale nessuno può sfuggire.*

Così, il reale "comunismo dello shopping", funzionale alla sopravvivenza del capitalismo senescente, si concretizza contraddittoriamente nella esistenza di centinaia di milioni di individui che, pur vivendo nella finzione del Truman show, vengono accuditi dal marketing come da una madre che cerca di andare incontro alle diverse esigenze dei propri figli, ognuno differente dall'altro.

Truman show: la società dello spettacolo senza limiti

Il creatore della fortunata formula "Società dello spettacolo", che è anche il titolo di un suo breve saggio zeppo di aforismi, è un intellettuale francese, regista cinematografico. Guy Debord, questo il suo nome, era giunto alla paradossale conclusione che "Lo spettacolo è la principale produzione della società attuale", e che di conseguenza: "Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'enorme accumulazione di spettacoli". In questo modo, scimmiottando Marx, egli ha sostituìto gli "spettacoli" alle merci, anticipando di un trentennio l'attuale rilevanza della produzione immateriale, denominata "industria culturale".

In particolare, Debord sottolineò la rilevanza dell'apparire nella società dello spettacolo: "La prima fase del dominio dell'economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana una evidente degradazione dell'essere in avere. La fase presente dell'occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dall'economia conduce a uno slittamento generalizzato dell'avere nell'apparire, da cui ogni "avere" effettivo deve trovare il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima".

venerdì 12 aprile 2013

La società del Truman show per lo shopping

Il valore d'uso della merce e la funzione del marketing

La logica che guida la nostra indagine parte dalla teoria scientifica di Marx che concepisce il modo capitalistico di produzione come processo naturale indipendente dalla volontà e dalla coscienza umana. Questo processo, che domina gli uomini mediante cieche leggi statistiche, è concepito come anarchia del capitalismo. Riguardo a questa concezione, abbiamo apportato una modifica introducendo un concetto polare dialettico che nella logica di Marx era implicito o talvolta espresso ma non generalizzato. Si tratta del concetto polare caso-necessità.
   
Poiché la dialettica caso-necessità è ampiamente sviluppata nel primo volume di Teoria della conoscenza, qui ci limitiamo a ricordare che il processo naturale capitalistico, come qualsiasi altro processo naturale, è guidato da questa dialettica che si manifesta in maniera ciecamente necessaria, mediante leggi statistiche che valgono soltanto per i complessi. La cieca necessità che ne deriva è completamente indipendente dagli uomini e li domina, appunto come, cieca necessità naturale.

Lo scopo reale della scienza

La conoscenza della cieca necessità dei processi naturali e sociali

Affermando che la cieca necessità è la necessità non conosciuta, Hegel ha identificato due concetti affatto distinti: infatti, la "necessità non conosciuta" è la non conoscenza della necessità dei processi naturali e sociali, mentre la "cieca necessità" è proprio la necessità dei processi naturali e sociali che la scienza deve conoscere. Pertanto la "necessità non conosciuta" è la cecità che riguarda l'uomo, mentre la "cieca necessità" riguarda la natura e quei processi sociali che si svolgono in maniera naturale.

La "cieca necessità" appartiene quindi al mondo oggettivo, esterno alla coscienza umana, mentre la "necessità non conosciuta" appartiene all'uomo come soggetto cosciente. La conoscenza della "cieca necessità" significa, perciò, eliminare la "necessità non conosciuta", o non conoscenza della reale necessità che si manifesta nei fenomeni e nei processi naturali e sociali.

In relazione al mondo esterno naturale, conoscere la "cieca necessità", significa conoscere come la dialettica caso-necessità si manifesta nei fenomeni e nei processi naturali; ma la conoscenza umana non muta l'oggettiva cecità del modo di operare della natura, non ha il potere di dare la vista alla natura, la quale procede in maniera del tutto cieca senza alcuna "visione" deterministica e finalistica. Così la conoscenza della gravità non muta la cieca necessità della reciproca attrazione dei corpi cosmici e della conseguente evoluzione dell'universo.

giovedì 11 aprile 2013

La difficile questione caso-necessità nella storia

Come vedremo, Marx ed Engels avevano compreso il ruolo del caso, opposto dialettico della necessità; ma, come abbiamo appurato nel primo volume sulla teoria della conoscenza, essi non arrivarono a definire e risolvere una volta per tutte la dialettica caso-necessità. I tempi non erano ancora maturi: la loro opera teorica appartiene al centro dell'Ottocento, secolo dominato totalmente dal determinismo riduzionistico.

Come ha giustamente osservato Lenin, Marx non ci ha lasciato una logica che chiarisse il suo metodo. La ragione, a nostro avviso, va cercata nel mancato riconoscimento definitivo del rovesciamento dialettico del caso (relativo alle singole cose) nella necessità (relativa ai loro complessi). Anche per questo motivo Marx non si è mai deciso a scrivere il capitolo sulle classi sociali, non avendo del tutto chiarito, dal punto di vista della necessità, il rapporto esistente tra i singoli individui e la loro classe di appartenenza. L'ostacolo principale a una nuova logica è sempre stato in Marx il suo punto di partenza riduzionistico, imposto dal determinismo ottocentesco. E' ciò che possiamo appurare riprendendo il primo capitolo dell'Ideologia tedesca.

mercoledì 10 aprile 2013

VII] La libertà della specie umana e la libertà dell'individuo

La soluzione scoperta da Marx

A conclusione del primo libro del Capitale, Marx scrive il famoso passo sul "regno della libertà": "L'effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del processo di riproduzione dipende quindi non dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività, e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito. Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si ritrova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria".

Marx afferma chiaramente che il regno della libertà comincia dove finisce il regno della necessità. Il regno della libertà si ritrova per sua natura oltre la sfera della necessità. Ma, subito dopo, aggiunge: "Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, cosi deve fare anche l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni; ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni".

martedì 9 aprile 2013

VI] Delle due, l'una: o un'elevata origine per un'umile esistenza o un'umile origine per un'elevata esistenza

Come conseguenza dei risultati del nostro studio, si può ricavare che soltanto due grandi concezioni possono contendersi, nella reciproca opposizione, la supremazia nella teoria della conoscenza, senza possibilità di alternativa: o è vera l'una o è vera l'altra. Profondamente asimmetriche dal punto di vista della loro affermazione storica, l'una riguarda il passato e il presente di una specie umana divisa, dipendente e sottomessa, l'altra riguarda il futuro di una specie umana finalmente indivisa, libera e padrona di se stessa.

Se non consideriamo rilevanti le molteplici concezioni di piccolo cabotaggio che sono sorte sul terreno economico, politico, sociale e culturale dell'epoca capitalistica, quindi anche le recenti concezioni scientifiche, denominate paradigmi, è solo perché queste riflettono semplicemente quel pluralismo relativistico senza fine che il modo capitalistico di produzione ha creato per le proprie esigenze particolari e contingenti.

Le due grandi concezioni della natura e della società sono I) la concezione teologica metafisica, II) la concezione  materialistica dialettica. 

lunedì 8 aprile 2013

V] La religione un prodotto storico

La condizioni di dipendenza della specie umana è il fondamento del successo della prima grande concezione della natura: quella religiosa, che dura da millenni e che continuerà a durare fino a quando dureranno le condizioni naturali e sociali della specie umana divisa. La prima conseguenza è che nessuna critica puramente ideologica dei dogmi religiosi e nessuna pretesa abolizione della religione possono essere avanzate senza finire nel ridicolo o nel risultato opposto a quello voluto. Come la storia insegna, chi ha perseguitato una religione ha ottenuto come risultato di creare martiri e con essi la crescita dei suoi adepti.

Le religioni sono un prodotto storico, e dunque hanno una origine, uno sviluppo, una involuzione e una inevitabile fine. Ma per comprendere come possa avere termine la religione in generale, e come sia inutile pretendere di affrettarne la fine, ad esempio con leggi persecutorie o per decreto, non dobbiamo fare altro che prendere in mano l'Antiduhring di Engels.

domenica 7 aprile 2013

IV] Ateismo e comunismo: due forme di negazione della negazione

La creazione è non solo il principale fondamento della religione, ma è anche il suo punto di forza perché la coscienza umana non riesce a concepire che l'uomo possa esistere per opera propria. La ragione di questa difficoltà è espressa chiaramente da Marx in un'opera giovanile. Nei "Manoscritti" egli compie la seguente ammirevole riflessione: "Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone di sé soltanto se è debitore verso sé stesso della propria esistenza. Un uomo, che vive della grazia altrui, si considera come un essere dipendente. Ma io vivo completamente della grazia altrui quando sono debitore verso l'altro non soltanto del sostentamento della mia vita, ma anche quando questi ha oltre a ciò creato la mia vita, è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé, quando non è la mia creazione. La creazione è quindi una rappresentazione assai difficile da sradicare dalla coscienza del popolo; questi infatti non riesce a concepire che la natura e l'uomo possano esistere per opera propria, posto che ciò contraddice a tutti i dati evidenti della vita pratica".

Alla coscienza umana riesce inconcepibile l'autocreazione della natura e dell'uomo, perché i "dati evidenti della vita pratica" mostrano che l'uomo esiste per opera altrui, e perciò non è padrone di se stesso. "Ma siccome per l'uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire della natura per l'uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine".

sabato 6 aprile 2013

III] La missione storica della specie umana

Il passaggio dal dominio della cieca necessità fondata sul caso alla libertà fondata sulla necessità conosciuta

Nell'Antiduhring Engels scrive: "Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa"."

Abbiamo già considerato questa affermazione nel volume sulla teoria della conoscenza.* Qui ci limitiamo a ribadire che la "cieca necessità" è intrinseca alla natura e alla società umana fino ad oggi, e quindi è indipendente dalla "necessità non conosciuta". Occorre sottolinearlo: la "necessità non conosciuta"  significa semplicemente che l'uomo non conosce la necessità naturale e sociale, mentre la "cieca necessità" significa che i processi naturali e sociali sono ciecamente necessari.

Dunque, se questi processi fossero guidati dalla connessione deterministica di causa ed effetto, allora sì che la conoscenza della loro necessità equivarrebbe per l'uomo alla libertà, perché egli saprebbe dove mettere le mani, ma essi sono guidati dalla dialettica caso-necessità, ossia dalla cieca necessità fondata sul caso. La conoscenza di questa cieca necessità non è quindi, di per sé, sufficiente per la libertà.

venerdì 5 aprile 2013

II] Ancora sulla valutazione dell'azione umana e il ruolo della coscienza

Nel paragrafo precedente* abbiamo definito il criterio scientifico che permette di valutare l'azione umana come azione complessiva nella forma di organizzazione che moltiplica i risultati, a differenza della somma algebrica dei risultati delle azioni dei singoli individui. L'analisi della necessità è dunque possibile per l'organizzazione. Riguardo al singolo individuo la necessità complessiva si rovescia in casualità. A sua volta il caso, relativo alle azioni dei singoli individui, si rovescia nella necessità complessiva. Com'è possibile che l'uomo cosciente non sia in grado di fare altro che ricalcare le orme del solito processo di tipo naturale soggetto alla dialettica caso-necessità?

I singoli individui partono da se stessi, ma nell'ambito della propria specie, divisa in classi, popoli, nazioni, religioni, etnie, ecc. Anche le azioni collettive dipendono da queste divisioni; così anche il concetto di organizzazione è un'astrazione che concretamente si configura in molteplici forme dipendenti dalle divisioni della specie umana: ad esempio le Chiese rappresentano organizzazioni delle più diverse religioni; gli Eserciti sono organizzazioni militari dei più diversi Stati; gli Stati, a loro volta, sono organizzazioni sorte per guidare le più diverse Nazioni, ecc. ecc.

giovedì 4 aprile 2013

I] Analisi del rapporto caso-necessità per la valutazione dell'azione umana nella storia

Ogni volta che consideriamo la nostra storia millenaria, affrontandone anche solo un piccolo segmento, ci accorgiamo che, per quanto l'operare umano porti a risultati necessari, questi non erano, se non raramente, risultati attesi o voluti; ci accorgiamo con rammarico che il caso è molto più influente di quanto siamo disposti ad ammettere; e parliamo del caso nella sua accezione più generale, escludendo soltanto ciò che la scienza è ancora incapace di determinare come necessità.

Studiando la storia e i suoi risultati, non possiamo dire che essa non avrebbe potuto manifestarsi altrimenti da come si è manifestata. La storia non si fa con il senno di poi; ma, come l'evoluzione di una specie animale quando prende una via si preclude tutte le altre e non sempre in un modo che rappresenta un progresso, così la storia della specie umana ha preso delle strade che nessuno poteva dire fossero le uniche possibili e tanto meno necessarie. La necessità ineluttabile porta al fatalismo. La dialettica del rapporto caso-necessità svela l'arcano della fatalità e propizia l'idea della possibilità per l'uomo di superare questo rapporto naturale con la riduzione del caso, con l'aumento dei risultati voluti e, di conseguenza, con il raggiungimento della libertà.

mercoledì 3 aprile 2013

Prossima pubblicazione: una dozzina di post fondamentali per la storia umana

Si tratta di post impegnativi, nel senso della loro importanza storica generale, riguardante l'intera specie umana. Saranno divisi in due serie, la prima relativa al passato remoto, la seconda relativa al passato prossimo

I) In riferimento alla prima serie, affronteremo il discorso della missione storica della specie umana, intendendo per missione non qualcosa di mistico o religioso, ma nel senso dello sviluppo concreto della mente e della coscienza umana complessiva che il periodo storico dello sviluppo capitalistico della scienza teorica e della tecnologia avrebbe potuto permettere.

II) In riferimento alla seconda serie, ci occuperemo delle deludenti prestazioni della scienza teorica e della coscienza umana nella fase senescente del capitalismo giunto al suo stadio finale, fase che si trascina da decenni sulle stampelle della "società dello spettacolo" o del "Truman show".

martedì 2 aprile 2013

Un equivoco storico plurimillenario nel rapporto tra scienza e religione

L'autore di questo blog deve ammetterlo: ignorava che Ratzinger, nel 1987, avesse scritto: "Molto in generale si può dire che se l'inizio del mondo è dovuto a uno scoppio primordiale, allora non è più la ragione il criterio e il fondamento della realtà, bensì l'irrazionale; anche la ragione è, in questo caso, un prodotto collaterale dell'irrazionale verificatosi solo per caso e per necessità, anzi per errore ed in quanto tale da ultimo è essa stessa irrazionale".

Apprendo questo da un recente articolo pubblicato in "scienzainrete" a firma di Cristian Fuschetto, il quale allude anche alla "insofferenza per la teoria del Big Bang e per quella evoluzionistica, divulgatrice di una visione "irrazionalistica" della Natura in cui ogni apparente ordine altro non sarebbe se non il frutto di uno "scoppio primordiale" e di "caso e necessità"": insofferenza che non poteva mancare alla teologia ratzingeriana e, più in generale, alla religione.

Il fondamento reale della inconciliabilità tra la scienza umana e la scienza divina e veneranda

Occorre partire dalle seguenti due premesse.

 1) Sia i credenti che i non credenti sono sempre stati accomunati dal medesimo interesse verso lo studio filosofico, matematico, scientifico, economico e storico. Anzi, nella relativamente breve esistenza dell'uomo cosciente, sono stati i credenti ad essere i primi depositari della conoscenza: originariamente, i funzionari di qualsiasi religione, i suoi sacerdoti, si sono elevati al di sopra dei loro popoli coltivando la conoscenza. E anche la scienza moderna è sorta dalla scienza di Dio, dalla teologia.

2) Ma la scienza moderna, a partire da Copernico, Galileo, Keplero, ecc. (scienziati pur sempre credenti) ha introdotto un elemento oggettivo di contraddizione tra la scienza di Dio e la scienza dell'uomo. Questa contraddizione riguarda il principale presupposto: come accostarsi alla conoscenza, come fare scienza? La risposta a questa domanda ha prodotto l'oggettiva inconciliabilità tra la (libera) scienza e la religione.

lunedì 1 aprile 2013

Giù il cappello e più rispetto per l'intelligenza umana!

Per usare un linguaggio chiaro e immediato, le grandi forze della natura, della società e della storia non possono essere giudicate secondo i criteri delle piccole cose, tanto cari agli individui egocentrici. Così, quando si tratta di processi ciclopici che sconquassano natura, società e storia, occorrerebbe dimenticare il proprio ego e quelle piccolezze individuali che si trovano, oggi, tanto a loro agio nei cinguettii dei twitter e nei commenti sui blog.

Di fronte ai grandiosi movimenti economici, politici e religiosi dei continenti, giù il cappello e più rispetto per l'intelligenza umana! Se è vero che nessuno può prevedere le singole mosse, nel grande scacchiere del mondo della specie umana, è anche vero che tutti possono comprendere quanto si è andati e si continua ad andare oltre l'incoscienza.

Possibilità e realtà: Ferraris e Veca

Su "la Repubblica" del 21 marzo 2013, i due filosofi, Ferraris e Veca, "dibattono" astrattamente su "realtà" e "possibilità", senza chiarire né l'uno né l'altro concetto e neppure il loro reciproco rapporto: ad esempio, che mentre la sfera del possibile è ampia, la sfera del reale è ristretta

I filosofi che si dilettano a parlare genericamente di possibilità e di realtà compiono delle astrazioni pure, vuote, le quali, poi, devono essere reincarnate in qualche modo: ad esempio, per Ferraris, può essere il detto di Bismark: la politica è "l'arte del possibile", mentre subito dopo Veca può pretendere da Musil "una risposta alla faccenda complicata della contrapposizione o della semplice distinzione fra realtà e possibilità".

Chi ha scritto il titolo dell'articolo, del resto, ha dimostrato di non aver affatto compreso su che cosa i due filosofi discutessero. Infatti, il titolo recita "Dialogo filosofico sui migliori dei mondi impossibili", rovesciamento in negativo del "migliore dei mondi possibili" di Leibniz. Ma tra Ferraris e Veca poco si parla di mondi, e neppure di dialogo si tratta. Assistiamo, invece, a due monologhi che s'incrociano, senza chiarire nulla, attorno all'astratta "possibilità" e all'astratta "realtà".
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