lunedì 26 maggio 2014

De Rerum Natura: le intuizioni di Lucrezio sul caso e la necessità

Nell'antichità troviamo un allievo di Epicuro, in genere sottovalutato perché la sua opera, "De rerum natura", è pur sempre un poema, non un trattato filosofico: si tratta di Lucrezio, la cui importanza, riguardo alla dialettica, assume un rilievo maggiore di quella del suo stesso maestro, perché, diversamente da lui, non si limitò a considerare il caso separato dalla necessità, ma, collegando insieme i due concetti, intuì molti aspetti della dialettica caso-necessità.

Lucrezio fu anche molto avversato perché il suo poema filosofico inizia con un forte attacco alla religione: "Spesso proprio la religione ha dato vita ad azioni delittuose ed empie". Ed anche perché egli nega il finalismo provvidenziale di origine divina: la natura è "matrigna", non ha per fine il benessere dell'uomo. L'uomo è abbandonato a se stesso. La natura materiale del mondo ha per fondamento originario il caso e i suoi risultati, le cose, rappresentano una cieca necessità naturale.

"Nessun oggetto nasce mai, per origine divina, dal nulla"; "nulla può essere creato dal nulla"; "nulla ritorna nel nulla"; "ogni cosa nei suoi elementi di nuovo risolve Natura, ma fino al nulla non disfa le cose". Quindi la natura è eterna, e la materia si conserva: ciò che si annulla sono le forme materiali, le cose, e ognuna "per dissolvimento ritorna ai corpi della materia": gli atomi. "E dunque non completamente periscono tutte le cose che vediamo, perché da cosa alimenta Natura, né alcun oggetto permette che nasca, se non aiutato da morte d'un altro".

Ma vediamo subito come Lucrezio concepisce la materia, lo spazio e il tempo. La base materiale delle cose sono, per lui, gli atomi che non possono essere veduti. Le cose si muovono nel vuoto, concepito come esistente in sè: "Il vuoto è dunque luogo intangibile, privo di cose". Quindi esistono "i corpi e il vuoto". Lo spazio comprende entrambi. Riguardo al tempo, "non esiste per sé, ma dalle stesse cose deriva l'avvertimento di ciò che è trascorso nel passato, di ciò che è prossimo, di ciò che poi seguirà: non si può dire che alcuno avverta il tempo separato dal movimenti delle cose e da quiete tranquilla". Come appureremo nel volume dedicato alla Fisica, queste intuizioni sulla materia, sullo spazio e sul tempo rappresentano un risultato del pensiero antico che non può essere messo da parte, pena lo scadimento del pensiero in concezioni puramente convenzionali e fittizie, com'è accaduto alla fisica del Novecento.

La considerazione dello spazio e del tempo permette a Lucrezio di distinguere concettualmente le "proprietà" (necessarie) dagli "accidenti" (casuali) della natura: le prime sono qualità costanti, i secondi sono qualità effimere. Gli "accidenti" sono cose portate via dal tempo, il cui sparire non procura alcun danno alla natura. Due sono le sue idee fondamentali che permettono la comprensione della natura: da un lato occorre concepire l'esistenza di qualcosa che resiste senza mutarsi, perché le cose non siano ridotte infine al nulla; dall'altro, occorre concepire questo qualcosa come capace di varietà di combinazione, così che tutte le cose si mutino in tutte le cose e che ogni cosa derivi da un'altra. Quindi conservazione della materia nella evoluzione delle forme materiali.

Ma come si manifesta questa duplice realtà? E' qui che Lucrezio intuisce il nesso dialettico caso-necessità nella contraddizione esistente tra il movimento degli atomi e la quiete apparente del tutto, ossia del corpo da essi costituito: "non c'è da stupirsi del motivo per cui, benché tutti i princìpi delle cose (gli atomi) siano in movimento, la totalità, tuttavia, appaia stabile, in quiete totale, eccetto che qualcosa inizi un moto con il proprio corpo". In altre parole, il movimento degli atomi non si manifesta nel corpo da essi costituito: il casuale movimento dei singoli atomi non si manifesta nel complesso degli atomi, il quale è invece necessariamete in quiete. E' questa una geniale anticipazione della dialettica caso-necessità. E per illustrare questo concetto Lucrezio utilizza due esempi che, nei lontani anni '80, aprirono gli occhi all'autore di questo blog.

Il primo: "Un esempio comune, su un colle, brucando su ricchi pascoli, le pecore portatrici di lana quiete s'avanzano, ognuna là dove l'erba l'invita, coperta di fresca rugiada, e soddisfatti giocano gli agnelli e giocano a scontrarsi: ma tutto ciò, di lontano ci appare confuso e come se, sul verde colle, stesse, ferma, una macchia di bianco". Ecco la quiete del complesso, rovesciamento dialettico dell'agitarsi dei numerosi singoli elementi.

Il secondo: "Altro esempio: quando grandi legioni della loro corsa riempiono la spianata del Campo, risvegliando fantasie di guerra, il fragore là verso il cielo si leva, e tutta, d'intorno, di bronzo risplende la terra, e, di sotto, la forza dei soldati suscita, con il batter dei piedi, rimbombi, percossi dal suono, i monti rilanciano le voci alle stelle dell'universo, e in trono volano i cavalieri, che d'improvviso attraversano il Campo a metà, scuotendolo con decisa energia. Tuttavia, c'è un qualche luogo, su alte montagne, donde tutto sembra fermo, e nel Campo ci sia solo, immota, una luce".

E così, con due esempi mirabili Lucrezio rivela l'essenza della dialettica caso-necessità: se i movimenti delle singole pecore o dei singoli combattenti sono, al pari del movimento degli atomi, spontanei e casuali, il gregge al pascolo o  l'esercito in campo di battaglia si manifesta, al pari del corpo materiale, come complesso stabile e necessario. Ma l'intuizione dialettica non si ferma qui, perché Lucrezio sembra arrivare molto vicino a intuire il dispendio naturale, quando mette in rapporto la vita con la morte: "i moti di morte" che non prevalgono per sempre, e "i moti che generano" che non possono conservare per sempre "quel che hanno creato". "Così, con una lotta che resta non vinta, viene condotta, dichiarata da tempo infinito, la guerra tra i princìpi: ora qui, ora là, ecco vincono i moti che portano vita alle cose e ancora son vinti". La vita appare rara ed effimera, sempre in lotta con la morte.

In un passo molto efficace, che non va letto solo in riferimento alla vita umana ma alla evoluzione della materia vivente e non vivente, Lucrezio intuisce la dispendiosa dialettica creazione-distruzione, vita-morte: "Il lamento del lutto s'unisce al vagito che i neonati gettano, quando vedono le spiagge di luce: né notte a giorno, né aurora a una notte mai tenne dietro, che non sentisse, misti a disperati vagiti, pianti compagni di morte e di lutto senza luce".

Per Lucrezio la natura non è il risultato della previdente, teleologica creazione divina. E' il caos il punto di partenza: gli atomi si scontrano a caso, e soltanto una parte di essi si combina per originare "grandi cose: di terra mare e cielo e della stirpe degli esseri vivi". "E se tieni bene presenti queste scoperte, natura ti appare libera, d'improvviso priva di padroni superbi, mentre realizza ogni cosa essa stessa, spontaneamente, senzi gli dèi". In conclusione: le cose nascono e crescono fino a raggiungere "la vetta più alta dell'accrescimento"; quindi segue una involuzione: "la vita si dissolve giù verso il disastro".

Nella sua polemica contro la teleologia, ossia contro l'idea finalistica che la natura operi previdentemente secondo le esigenze dell'uomo, Lucrezio anticipa idee che occorrerà attendere Darwin per vederle sviluppate. Egli nega, ad esempio, "che la chiara luce degli occhi sia stata creata perché noi possiamo vedere avanti"; "o ancora, che le braccia si appoggino ai robusti avanbracci, e che le mani ci siano date come ancelle dalle due parti, perché possiamo fare ciò che serve alla vita". E qui anticipa di quasi due millenni l'idea che il finalismo rovescia il processo reale con l'attribuire all'uso il sorgere di qualcosa, mentre in realtà prima nasce qualcosa, poi si crea l'uso. Così scrive: "Tutte le cose di questo genere, quando vengono così spiegate, tutte si basano su un ragionamento errato che rovescia il processo, perché nulla è nato nel corpo perché noi possiamo farne uso, ma ciò che è nato, poi, crea l'uso".

Ma la sua intuizione più felice, che persino oggi fatica a imporsi sulla coscienza umana, è la distinzione tra gli oggetti creati dall'uomo secondo un fine, per un determinato uso, e gli oggetti creati dalla natura senza alcun fine. I primi, dice, "furono ritrovati in seguito alle necessità della vita", i secondi, invece, "prima nacquero, e fornirono poi il concetto del loro utilizzo". Questa è l'idea forte che permette di distinguere correttamente l'operato dell'uomo da quello della natura: l'uomo può, sulla base della necessità conosciuta, creare oggetti per un fine determinato. La natura, invece, crea in maniera casuale oggetti che diventano in seguito, nel loro complesso, una cieca necessità non predeterminata e da nessuno voluta.

Ora, se, come affermò Lucrezio, gli dèi non c'entrano per niente nella creazione del mondo, se il mondo ha avuto un inizio e avrà una fine, se la natura non è stata creata da divinità per il nostro vantaggio, se tutto nasce, cresce, si consuma e muore, se, infine, tutto è mortale, qual è il fondamento del mondo naturale? Per Lucrezio era il caos primordiale, unitamente alla dialettica repulsione-attrazione degli atomi. Il movimento casuale degli innumerevoli atomi si rovescia nella cieca necessità delle combinazione degli atomi che si attraggono dando vita alle più diverse forme materiali. Queste le intuizione geniali di un poeta e filosofo dell'antica Roma (del primo secolo avanti Cristo), sulla base di una modestissima quantità di dati empirici e di osservazioni naturalistiche.

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato  Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

2 commenti:

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    1. ho cancellato per errore il suo commento, se lo vuole riproporre lo pubblico volentieri

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