mercoledì 14 maggio 2014

II] Caratteristiche e funzioni delle genoteche di cDNA

(dal Trattato di "Biologia molecolare della cellula" di Bruce Alberts e altri, 2011)

(Continuazione) Nel Trattato leggiamo: "Le genoteche di cDNA contengono copie di cDNA clonate di tutti gli mRNA presenti in un particolare tipo di cellula o di tessuto. A differenza dei cloni di DNA genomico, i cloni di cDNA contengono prevalentemente sequenze che codificano proteine; non ci sono introni, sequenze regolatrici e promotori. Per questo motivo sono particolarmente adatti quando si vuol fare esprimere il gene clonato per produrre la proteina codificata".

Comodo nella pratica, questo metodo smentisce però completamente il dogma centrale DNA-RNA-proteine, sostituito da una tecnica (particolare) mRNA-cDNA-proteine. Insomma, nella pratica attuale, la doppia elica di DNA non è neppure più considerata, e quello che oggi chiamiamo gene è soltanto il cDNA con il quale lavorano gli sperimentatori, ricostruito a ritroso utilizzando l'mRNA maturo.

Questo comodo metodo è semplicemente una nuova tecnologia, che abitua i biologi molecolari a considerare fondamentale solo il cDNA (i cosiddetti esoni), ossia quella parte codificante di DNA concepita come vero gene: gene "tecnologico", non naturale. In questo modo scompare, come inutile vestigia di un passato sepolto, il vecchio concetto di genoma, identificato a suo tempo nella doppia elica di DNA e ricostruito, più nelle intenzioni che nella realtà, nel vecchio "Progetto genoma".

E, infatti, quello che una volta era concepito come genoma-informazione è ormai diventato un grande serbatoio contenente pochissimi esoni codificanti e moltissimi introni non codificanti: è diventato come un grande magazzino contenente poche merci commerciabili tra montagne di rifiuti. Questa rara merce utile viene riprodotta (clonata) e riempie intere genoteche. Tutto il resto non conta più nulla. In conclusione, nel dispendioso processo della vita col cDNA è uscito fuori qualcosa di raro, statisticamente, che l'uomo pretende assoggettare al suo metodo di lavoro economico. Il futuro ci dirà con quali conseguenze teoriche e pratiche. 

Nel frattempo ci limitiamo a ricordare che due sono stati gli approcci per studiare i geni. Allo scopo di rivelarne la funzione, si cominciò, agli inizi del Novecento, con l'approccio genetico divenuto classico: lo studio degli organismi mutanti. Anche allora il modo di procedere era a ritroso: si partiva da organismi mutanti che avevano aspetti interessanti, ad esempio moscerini della frutta con occhi bianchi; si partiva, cioè, dal loro fenotipo, dall'aspetto esteriore o dal comportamento, per risalire al genotipo dell'organismo, ovvero alle varianti del gene responsabile di quelle caratteristiche. Questo approccio della genetica classica fu favorito da organismi a rapida riproduzione e a facile induzione di mutazioni in laboratorio, come moscerini, vermi, lieviti  batteri.

Sono trascorsi molti decenni, prima che, grazie alla recente tecnologia del DNA complementare, fosse  possibile un secondo approccio genetico di tipo completamente diverso: si ottiene il mutante con un gene clonato che prima viene indotto a mutare in vitro e poi viene reintrodotto nell'organismo, anche qui procedendo a ritroso, e cioè non partendo direttamente dal genoma intero, ma dall'mRNA che fornisce il cDNA, ossia i cosiddetti esoni.

La conseguenza è che con la tecnologia del DNA complementare si  facilita la ricerca di laboratorio, ma non la conoscenza reale dei processi dispendiosi della vita, giacché li si economizza troppo in modo artificiale, e quel che è peggio senza consapevolezza, all'interno di ristretti limiti scientifici e, persino, etici. Perciò sorgono continuamente problemi, soprattutto di reale efficacia biologica quando, ad esempio, si pretende che la natura si lasci razionalizzare al fine di realizzare i nostri esperimenti economici di laboratorio: ma la natura non può farlo, è dispendiosa. Questa è la tesi realistica che occorre mettersi bene in testa!  (Continua)

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