giovedì 12 giugno 2014

3) Hegel sulla polarità infinito-finito

Nella "Enciclopedia", Hegel concepisce l'essere determinato, risultato del divenire, sintesi di "essere" e "nulla" e, in quanto tale, finito; ma, a sua volta, l'essere determinato è mutevole, è qualcosa che diventa altro: "L'alcunché diventa un altro; ma l'altro è anche un alcunché; dunque diventa parimenti un altro: e così all'infinito". Questo progresso all'infinito è per Hegel la "cattiva infinità": "Questa infinità è l'infinità falsa e negativa, giacché essa non è se non la negazione del finito, il quale però nasce di nuovo, e per conseguenza non è ancora superato: -vale a dire, questa infinità rappresenta solo il dover essere del superamento del finito. Il progresso all'infinito si arresta alla dichiarazione della contraddizione, contenuta nel finito, che questo, cioè, è tanto l'alcunché quanto l'altro; è il perpetuo cangiamento di queste determinazioni, che s'ingenerano l'un l'altra".

Se riusciamo a superare la difficoltà di questo linguaggio hegeliano e della sua traduzione negli anni '50 del Novecento, dalla quale abbiamo attinto, possiamo procedere. Innanzi tutto, Hegel critica l'applicazione della cattiva infinità alla concezione riduzionistica della divisibilità della materia: "Il progresso all'infinito, che concerne la divisibilità della materia" si serve del seguente procedimento: "Una cosa una volta è presa come un tutto, poi si passa alla determinazione delle parti; questa determinazione viene quindi dimenticata, e ciò che era parte viene considerata un tutto; poi si ha di nuovo la determinazioni delle parti, ecc. all'infinito".

Detto per inciso, è proprio questo procedimento che rende falsa la fisica delle particelle, impedendole, per così dire, di raggiungere il suo termine ultimo finito: la particella ultima indivisibile [che non può essere, ad esempio, il bosone di Higgs].

Hegel, poi, critica la concezione metafisica che fà del finito e dell'infinito un'antitesi insuperabile, un dualismo. Per il pensiero metafisico da un lato sta il finito, dall'altro l'infinito: "L'essere del finito è un fatto assoluto: esso, in codesto dualismo, sta saldo per sé. Se, per così dire, fosse toccato dall'infinito, sarebbe annientato; ma non può essere toccato dall'infinito: un abisso, un baratro invalicabile deve aprirsi fra i due, l'infinito persiste di là, il finito di qua".

"Quel che importa è di non prendere per un infinito ciò che per sua determinazione stessa è stato reso un particolare e un finito". Dunque, tutto ciò che ha una determinazione è finito. L'infinito allora che cosa è? E' l'indeterminato. In senso materialistico ciò è esatto: la materia indeterminata è infinita ed eterna. Ma poi egli afferma: "Il finito è passeggero e temporale". "Perciò solo le cose naturali sono soggette al tempo, essendo finite: il vero, per contrario, l'idea, lo spirito, è eterno". In questa conclusione prevale l'idealismo hegeliano, perciò occorre rovesciare: ciò che noi possiamo osservare e conoscere è la materia finita, ossia i processi delle forme materiali finite.

Nella "Logica", sotto la voce "Finità", Hegel definisce le cose finite: "Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non già che è soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro esser dentro di sé il germe del perire; l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte". "Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia". "L'intelletto persiste in questa mestizia della finità, facendo del non essere la destinazione delle cose e prendendolo insieme come imperituro e assoluto", ma "il finito è il limitato, il perituro; il finito è soltanto finito, non l'imperituro".

Ma se il finito è soltanto finito, come può sorgere l'dea di infinità? Hegel parte dal "dover essere": "Quello che deve essere è e in pari tempo non è -Se fosse, non dovrebbe, semplicemente, essere. Dunque il dover essere ha essenzialmente un termine. Questo termine non è un che di estraneo: quello che soltanto deve essere, è la sua destinaziome". "Ora, come destinazione, il finito oltrepassa anche il suo termine". "Come dover essere, il qualcosa è dunque sollevato al di sopra del suo termine; ma, viceversa, solo come dover essere esso ha il suo termine"

Qualcosa, finché non è, non ha termine, ha solo una destinazione; e quando non è più un dover essere, ma è, trova il suo termine. La soluzione allora consiste in questo che l'essere è finito e il dover essere è infinito. Giustamente Hegel osserva: "Nel dover essere comincia l'oltrepassamento della finità, l'infinità. Il dover essere è quello che è, in un ulteriore sviluppo, si presenta dietro a quella impossibilità come il progresso all'infinito". "D'altra parte il dover essere è il sorpassare il termine, ma un sorpassare che è però semplicemente finito".

E' finito perché pone una determinazione: dover essere qualcosa; ma è anche infinito perchè il dover essere non trova mai compimento: non si determina come semplice essere, altrimenti non sarebbe più un dover essere, ma un essere determinato. Come già visto nella Enciclopedia, anche nella Logica viene distinto "il vero concetto dell'infinito dalla cattiva infinità", ossia l'infinito della ragione dall'infinito dell'intelletto. "Quest'ultimo è pur sempre l'infinito reso finito; e si mostrerà che appunto in quanto si vuol mantenere l'infinito puro e lontano dal finito, non si fa che renderlo finito".

La cattiva infinità consiste, perciò, nella contraddizione tra finito e infinito: "Cotesta contraddizione si trova subito in ciò, che all'infinito resta di contro il finito come un esserci. Sono quindi due determinatezze; si danno due mondi, un mondo infinito e un mondo finito, e nella relazione loro l'infinito non è che il limite del finito, epperò solo un infinito determinato, un infinito il quale è esso stesso finito".

E ancora: "Il processo del loro passare ha, per disteso, la forma seguente. Si oltrepassa il finito verso l'infinito. Questo oltrepassare appare quale un'operazione estrinseca. Che cosa sorge in questo vuoto che è al di là del finito?" "Il finito è finito solo in relazione al dover essere o all'infinito, e l'infinito è solo infinito in relazione al finito". "Si ha un astratto sorpassare, che rimane incompiuto, in quanto non si sorpassa questo sorpassare stesso. Si ha dinnanzi l'infinito; quest'ultimo viene ad ogni modo sorpassato, poiché si pone un nuovo limite". Questo "progresso all'infinito non è quindi che il ripetersi dello stesso, un solo e medesimo noioso avvicendamento di questo finito e infinito".

In conclusione, per Hegel esistono due modi di concepire i concetti di finito e infinito: il primo che appartiene al pensiero metafisico, considera il finito e l'infinito tra loro separati; il secondo, che appartiene al pensiero dialettico, li considera in reciproca relazione. Il primo scade nella cattiva infinità del progresso all'infinito. Il secondo si risolve in una infinità ripiegata su se stessa. Riassumendo la differenza concettuale tra falso infinito e vero infinito, egli scrive: "L'immagine del progresso all'infinito è la linea retta. Solo ai due limiti di questa l'infinito è e continua sempre ad essere là dove la linea stessa esce in questo suo non esserci, vale a dire nell'indeterminato. Come vera infinità, ripiegata in sé, la sua immagine diventa il circolo, la linea che ha raggiunto se stessa, che è chiusa e interamente presente, senza punto iniziale e fine".

In definitiva, potremmo dire che anche Hegel ha concepito un infinito attualizzato, reale, contrapposto al progresso all'infinito o cattiva infinità della matematica dei suoi tempi. Ma, per comprendere più a fondo la polarità dialettica infinito-finito, occorre seguirlo quando prende in considerazione il "quanto" e scopre l'"infinitamente grande" e l'"infinitamente piccolo". "Questo essere fuori di sé della determinazione è posto nel doppio infinito, che si contrappone secondo il più e il meno, nell'infinitamente grande e nell'infinitamente piccolo". "Questa infinità, che è costantemente determinata come l'al di là del finito, è da designarsi come la cattiva infinità quantitativa" che si affianca alla cattiva infinità qualitativa dell'intelletto che abbiamo trattato fin qui.

Egli critica questo modo di concepire la quantità, tipico del riduzionismo che considera come qualcosa di sublime e di ultimo il progresso quantitativo all'infinito. Al contrario egli le chiama "sublimi tirate", portando come esempio il seguente, famoso passo di Kant: "L'immagine soccombe a questo avanzare verso l'immensamente lontano, dove il mondo più lontano ne ha sempre uno ancor più lontano, il passato più remoto sempre uno ancor più remoto davanti a sé, e l'avvenire protratto per quanto si vuole ne ha sempre ancora un altro dopo di lui. Il pensiero soccombe a questa rappresentazione dell'immenso, come il sogno che uno vada per un lungo cammino sempre più lontano a perdita di vista, senza vedere mai la fine, finisce con la caduta o con le vertigini".

Hegel ironizza sul pensiero che soccombe e cade di fronte a spazi e tempi infiniti, attribuendo questa conseguenza alla "noia della ripetizione, la quale lascia che un limite scompaia e poi si ripresenti e di nuovo scompaia", col risultato di dare "il sentimento di impotenza di questo infinito o di questo dover essere, che vuol sottomettere il finito, e non può".

Per questo motivo egli compatisce anche gli astronomi che si compiaciono per la smisurata moltitudine di stelle, spazi e tempi, le cui enormi grandezze, prese per unità, si rimpiccioliscono fino a diventare insignificanti, ecc. Ma, seppure brillante, qui non coglie il punto fondamentale, e cioè che ogni "esserci" ogni "cosa" del cosmo è un contenitore che ha il suo spazio e il suo tempo specifici, la sua quantità di materia-energia specifica, perciò finita, per quanto smisurata. La cattiva infinità è falsa perché non rende conto dei processi finiti delle forme materiali finite, che hanno un inizio e un termine, indipendentemente dalle loro dimensioni spaziali e temporali.

In conclusione, come il dover essere morale, risolvendosi in un progresso all'infinito, è da criticare, così è da criticare il dover essere scientifico che si risolve in una pretesa conoscenza progressiva all'infinito. Insomma, il cattivo infinito della progressione all'infinito è falso sia dal punto di vista concettuale, teorico, sia da punto di vista morale, sia dal punto di vista scientifico. E sul vero infinito di Hegel che cosa possiamo dire? Che si tratta di una soluzione generica, anche se concettualmente dialettica. Egli ha ragione quando vede il divenire infinito che si determina nei suoi momenti finiti, e quando vede il rovesciamento del finito nell'infinito e dell'infinito nel finito. Si tratta però di chiarire che cosa possiamo e dobbiamo concepire infinito in connessione dialettica col finito.

La nostra tesi è che se si parte dal caso la sua negazione dialettica è la necessità, e viceversa. Ora, anche nel rapporto infinito-finito, se si parte dal divenire, il finito è la negazione dialettica dell'infinito e viceversa. E, come abbiamo già anticipato, se si concepisce l'infinito come appartenente alla sfera del caso, dove abbiamo posto anche la quantità, il finito apparterrà alla sfera della necessità dove va posta anche la qualità.

Allora, tutto ciò che si teorizza in relazione all'infinito e al finito deve essere coerente con la dialettica caso-necessità. Così, se i casi sono infiniti e l'infinito è casuale, nessuna forma di conoscenza può arrivare a determinare l'infinito come necessità, ma solo il finito. Secondo questa conclusione logica, il preteso infinito reale o attuale -che presto vedremo- è una delle tante sublimi sciocchezze matematiche astratte.

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