Queste considerazioni su Epicuro di Samo sono frammentarie, come frammenti sono tutto ciò che ci è rimasto della sua opera. Qualcuno crede persino di potergli attribuire il determinismo fondato sulla causa che appartiene al suo vecchio maestro Democrito. Ma chi scrive ritiene che valgano per lui le seguenti valutazioni.
Il filosofo di Samo rifiuta la necessità assoluta del fato. Nella "Lettera a Meneceo", egli scrive: "è vana opinione credere il fato padrone di tutto", e aggiunge: "le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna è instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode". Nell'affermare che la necessità è irresponsabile, Epicuro ha in mente la cieca e incosciente necessità del fato. Ora, la necessità irresponsabile e la fortuna instabile non sono sotto il controllo dell'uomo, non dipendono da lui. L'arbitrio dell'uomo, invece, essendo indipendente dal fato "padrone di tutto", è concepito da Epicuro come libertà.
Riguardo alla cieca necessità naturale, egli dice: "Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità". Sebbene rifiuti sia la cieca necessità naturale che la necessità divina, polemicamente afferma che è meglio credere nella divinità, la cui necessità può essere, almeno nella speranza, modificata con preghiere.
Riguardo alla fortuna, Epicuro dice: "La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa -la divinità non fa nulla a caso- e neppure qualcosa priva di consistenza". Egli ha dunque chiara l'idea che la concezione della divinità pone la necessità assoluta contro l'esistenza del caso: gli dei non lasciano nulla al caso. Ma se la fortuna che è instabile non può appartenere alla divinità, che cosa rappresenta per l'uomo? La risposta è che "il saggio non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali".
La fortuna è dunque soltanto occasione, punto di partenza per grandi beni o grandi mali per l'uomo. Quindi la fortuna rientra nella sfera del caso, ma il filosofo di Samo non vede il nesso tra la fortuna e il caso relativo ai singoli uomini. La fortuna appare così separata e distinta dal caso puro e semplice: se essa è solo un punto di partenza, ciò significa che determinante sarà l'opera dell'uomo. Ma se ogni individuo parte da se stesso (dalle proprie occasioni, dalla propria fortuna), di fronte a lui ci sarà sempre l'arbìtrio della fortuna e l'arbìtrio del suo operato (che può manifestrarsi come stoltezza o saggezza). Non a caso Epicuro è costretto a distinguere: "però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato".
Se è possibile la riuscita di un progetto stolto, ma fortunato, e il fallimento di un progetto ragionevole, ma sfortunato, ciò significa soltanto che il caso (relativo alla fortuna) non è occasione di libertà, ma il cosiddetto libero arbitrio dell'uomo è un cieco brancolare tra ragionevolezza e stoltezza, tra ventura e sventura. Si può dire che Epicuro, nella sua lotta alla necessità assoluta, non abbia potuto fare altro che sublimare il caso facendolo passare per libertà. E se questa non può essere la soluzione, è anche vero che non può essere la soluzione appellarsi alla necessità assoluta. Infatti fondare la conoscenza sulla necessità assoluta produce un oggettivo paradosso, e dobbiamo a Epicuro il merito di averlo scoperto.
Nei frammenti delle "Sentenze vaticane", troviamo questa osservazione: "Chi dice che tutto avviene per necessità non ha nulla da rimproverare a chi dice che non tutto avviene per necessità: una simile proposizione, in base a quanto essa stessa dice, avviene per necessità". Infatti, se tutto avviene per necessità, e se avviene che qualcuno affermi il contrario, anche questa affermazione sarà necessaria. Questo paradosso può essere espresso anche nei seguenti termini: chi considera tutto necessario, deve poi giustificare tutto ciò che accade come necessità. E' la difficoltà della teologia quando deve rendere conto, sulla base della necessità divina, d'ogni sorta di mali, dolori, tormenti, avversità, disgrazie, calamità, peccati, colpe, vizi, ingiustizie e distruzioni che possono colpire l'umanità. Tanto è vero che è stata creata la teodicea per trovare le risposte.
Ma, in definitiva, se tutto avviene per necessità assoluta, anche l'affermazione che tutto avviene per caso è una necessità assoluta: la concezione fondata sulla necessità assoluta è costretta ad accettare la concezione fondata sul caso assoluto. Il paradosso è esprimibile anche nella seguente forma metafisica: tutto ciò che non avviene per assoluta necessità, avviene per assoluto caso. La superiorità del pensiero dialettico si mostra, anche da questo punto di vista, evitando aporie, collocando il caso e la necessità in due sfere polarmente opposte: rispettivamente, la sfera degli singoli e la sfera dei complessi.
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito
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