mercoledì 31 agosto 2011

Emanuele Severino e il nuovo realismo di Ferraris

La circostanza per la quale qualcuno comincia a considerare un "nuovo realismo", come ha fatto Maurizio Ferraris con la solennità affettata di un "manifesto", pubblicato su "La Repubblica" dell'8 agosto, è, comunque, un segno dei nostri tempi, tempi di crisi non solo economica e politica, ma anche e soprattutto teorico scientifica. Certo che c'è bisogno di realismo, nel senso della conoscenza reale! E chi segue questo blog sa bene che il suo autore, nei suoi studi, ha scoperto che dalla "Scienza divina e veneranda" di Aristotele alla scienza convenzionale di Osiander e Bellarmino, fino al convenzionalismo relativistico e pluralistico contemporaneo, di conoscenza reale della natura nessuno ne ha mai masticata molta, a parte sporadici, isolati, tentativi (vedi Engels, "Dialettica della natura").

In particolare oggi, di questi tempi di decadenza della teoria della conoscenza, certamente lo spazio di un "manifesto" per un "nuovo realismo" non può rendere conto (e neppure trovare una soluzione).  Tanto meno, però, Severino può pretendere di respingere l'iniziativa di Ferraris, riassumendo, nello spazio di un articolo di giornale ("Corriere della Sera" di oggi), nientemeno che la storia del pensiero filosofico scientifico, citando alla rinfusa e cripticamente quasi tutto, ovviamente solo per brevi cenni inconcludenti. Un esempio per tutti: "E il "realismo" è stato messo in questione da Kant e dall'idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi".

La legge del dispendio e della eccezione statistica: il principio incondizionato della dialettica caso-necessità

Dire che non c'è niente di eterno, eccetto la materia in movimento (Engels), e che non c'è niente di immortale, eccetto la mors immortalis (Marx), significa affermare due princìpi incondizionati della dialettica materialistica: in primo luogo, che la materia è eterna e dunque non ha né inizio né fine; in secondo luogo, che le forme materiali in quanto hanno sempre un'origine, hanno anche un termine. Pertanto, anche l'universo originato nel big bang deve avere un termine nel big crunch. E tutto ricomincia da capo: i cicli della materia si succedono, ogni volta originandosi, espandendosi, dando luogo alla evoluzione delle forme materiali (che hanno un inizio, uno sviluppo, un regresso e un termine), contraendosi e infine concludendosi. Di conseguenza tutto ciò che è necessario in un ciclo non può essere assolutamente necessario, ma solo contingentemente e relativamente necessario.

Se poi consideriamo la materia organica, questa si manifesta attraverso la vita di singoli organismi casuali ed effimeri, mentre necessaria e duratura è l'esistenza dei complessi di questi organismi. Ma, se anche ordini, generi, ecc. scompaiono definitivamente, persino in tempi cosmologici relativamente brevi, ciò significa che la necessità della loro esistenza era solo relativa e condizionata. Di eterno e incondizionato c'è solo la dialettica naturale di caso e necessità.

lunedì 29 agosto 2011

L'ambiguo concetto di dimensione in fisica

La dimensione altro non è che la misura di una grandezza, indipendentemente dal fatto che si tratti di una grandezza reale fisica o puramente convenzionale matematica, perché, in entrambi i casi, la misura di una grandezza riguarda la matematica che ha concepito con Euclide tre astratte dimensioni spaziali: lunghezza, altezza e larghezza, stabilendo così la figura geometrica tridimensionale chiamata solido.

Riguardo al tempo, si tratta, invece, di una sola dimensione, quella relativa alla successione degli eventi, dimensione misurabile mediante orologi. Dal punto di vista logico, l'unica dimensione temporale ha presentato non poche difficoltà in relazione alla sua suddivisione in passato, presente e futuro. In fisica, però, l'unica dimensione temporale prima è stata scissa in due, contrapponendo il tempo irreversibile della termodinamica al tempo reversibile della meccanica, poi è stata fusa con le tre dimensioni spaziali nella relatività ristretta.

sabato 27 agosto 2011

Huntington: la contraddittoria ideologia dello scontro di civiltà

Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" 2005-2007

Nelle sue tesi, elaborate nel periodo dell'amministrazione Clinton (1992-2000), Samuel P. Huntington ("LO SCONTRO DELLE CIVILTA' Il nuovo ordine mondiale") critica i fautori del pluralismo culturale in America, perché vedono nella tradizione occidentale i crimini perpetrati dall'Occidente e non solo i pregi della democrazia. All'opposto egli approva i sostenitori dell'identità nazionale americana, fondata su "libertà, democrazia, individualismo, proprietà privata". Secondo Huntington, i pluralisti non temono, come Roosevelt, il "coacervo di litigiose nazionalità", "ma hanno addirittura assiduamente incoraggiato la diversità, anziché l'unità, del popolo che governano". Contro i pluralisti, egli respinge l'idea di un paese composto da più civiltà, privo di un nucleo centrale costitutivo, caratteristico della civiltà americana. E sostiene la sua tesi, affermando: "I fautori del pluralismo culturale hanno anche messo in discussione l'elemento centrale del credo americano, sostituendo ai diritti degli individui i diritti dei gruppi, genericamente definiti in termini di etnie, sesso e inclinazione sessuale".

Astraendo dalla sessualità, aspetto affatto secondario, possiamo affermare che l'America è realmente un paese che si distingue per le differenti etnie, razze e nazionalità, che originano proprio da quelle civiltà teorizzate da Huntington come storicamente fondamentali. Perciò, come può egli accusare i pluralisti di sostituire ai diritti individuali i diritti dei gruppi, quando sostituisce ai diritti degli individui il diritto della civiltà americana? Non si rende conto che, ponendo in primo piano la civiltà, l'individuo passa in secondo piano? Se si attribuisce all'individuo americano l'appartenenza a una determinata civiltà, sono i diritti di questa che passano in primo piano, spodestando la centralità dei diritti individuali.

mercoledì 24 agosto 2011

La dialettica caso-necessità nella evoluzione della scienza

La realtà della specie umana e le possibilità degli individui 

Se confrontiamo le reali potenzialità della specie umana con le possibilità individuali, non possiamo fare a meno di notare che ci troviamo in presenza di due sfere completamente differenti. Tra la specie e l'individuo, tra il complesso e la sua base costituita di singole, molteplici particelle, c'è una profonda differenza qualitativa: per l'individuo vale la casualità, nel senso che la necessità per lui si manifesta solo attraverso il caso, e la possibilità può anche non tradursi in realtà; per la specie, per il complesso dei singoli molteplici individui, vale la necessità, nel senso che il movimento casuale dei molti individui si manifesta come necessità complessiva, statisticamente determinabile, e la realtà è assicurata necessariamente.

Consideriamo ora il nostro patrimonio scientifico e culturale, e vediamo il rapporto esistente tra le necessarie potenzialità della specie e le possibilità casuali degli individui. Prendiamo come punto di partenza i singoli individui. Che cosa osserviamo? Che la possibilità di accedere a questo patrimonio diventa realtà in una misura molto piccola, per un numero limitatissimo di individui, mentre per la maggioranza di essi è completamente inaccessibile. Eppure, nei secoli, pochi singoli individui di numerose generazioni hanno contribuito a creare un enorme patrimonio scientifico e culturale, fissato in un numero praticamente infinito di volumi; ma ogni generazione, o meglio, ogni epoca di diverse generazioni riesce a utilizzare soltanto una piccola parte di questo patrimonio, e non solo perché la maggior parte di esso è ritenuta invecchiata o piena di errori, ma anche perché l'utilizzo avviene secondo modalità che, inevitabilmente, sacrificano parti anche importanti dell'insieme complessivo.

lunedì 22 agosto 2011

Deja vu: crollo delle borse III

La crisi delle borse e la pretesa responsabilità dei comportamenti individuali  (scritto nel 2008)

Paradossalmente, il pluralismo relativistico laico e il dogmatismo teologico, sempre in polemica tra loro, si trovano oggi dalla stessa parte nell'assumere, come protagonista del "lunedì nero" delle borse, il comportamento individuale. La cieca necessità complessiva del capitalismo senescente viene, così, messa al riparo (nascondendola dietro il paravento del comportamento individuale) proprio da quelle due ideologie che, pur da opposti fronti, temono la conoscenza reale del processo economico capitalistico.

Sul versante laico, pluralista relativista, troviamo il direttore del "Corriere della sera", Pietro Ostellino, il quale, due giorni dopo il "lunedì nero", ha attaccato violentemente i "sistemi chiusi e dispotici" nel momento stesso in cui la sua amata "società aperta", la democrazia liberale, a dire di tutti, sta rischiando il "grande crollo". Per difenderla, egli sostiene che "il liberalismo -prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale)- è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi -i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera- ai comportamenti individuali".

domenica 21 agosto 2011

Deja vu: crollo delle borse II

Il significato del lunedì nero (scritto nel 2008)


Occorreranno analisi più serie di quelle che a caldo sono state fatte dai quotidiani, persino da quelli economici come "Il Sole 24 ore". Per ora, può essere utile una digressione: all'epoca dell'11 Settembre era già in atto un rallentamento della "economia reale" nei paesi dell'Occidente, ma anche in Cina. Gli Stati Uniti reagirono con la strategia dell'amministrazione Bush J., fondata sul petrolio e sulle armi. Strategia cosi mal compresa che, ad esempio, "Limes" ipotizzò che l'intervento americano in Iraq mirasse a ridurre il prezzo del petrolio a 15 dollari il barile. La realtà smentì questa ipotesi capovolgendola in una misura inaudita, quintuplicando il prezzo del petrolio in un paio di anni, e nel contempo, per specularità, svalutando pesantemente il valore del dollaro, riducendo così il debito USA.

Washington, all'epoca, elaborò una strategia di contenimento dello sviluppo asiatico con il rincaro petrolifero e di riaffermazione della propria egemonia mondiale con minacce non troppo velate alle potenze che in prospettiva avrebbero potuto intaccarla, e cioè la Cina e la Ue. Lo scopo principale della nuova strategia era ribadire il ruolo egemonico degli USA, ruolo indebolito dai successi monetari e commerciali, rispettivamente, europei e cinesi. Gli strumenti per realizzare questo obiettivo furono la politica monetaria, la politica petrolifera e la politica delle armi. Ma i risultati sono stati scarsi. Di conseguenza, negli Stati Uniti, è in atto un cambiamento di rotta, proprio nel momento in cui un nuovo rallentamento economico si affaccia sulla scena mondiale.

sabato 20 agosto 2011

Deja vu: crollo delle borse I

Tanto vale riprendere l'analisi della crisi in borsa del 2008, compiuta in corso d'opera, e che vale anche per l'oggi 

Il "lunedi nero" del 6 ottobre 2008

Le borse sono crollate di circa -20% nella prima settimana; ma poi c'è stato il "rimbalzo". Una cosa è certa: a rimetterci è stato il "risparmio" del ceto medio "globale". Quanto alla cosiddetta crisi della economia "reale", era già in atto nella forma del ristagno dei "consumi", in altri termini nella forma del rallentamento dello shopping a livello mondiale. 

Prima del "lunedì nero", era già in atto una diminuzione del saggio generale del profitto industriale-commerciale, conseguente alla perdita di potere d'acquisto del ceto medio della società occidentale dell'opulenza. L'impoverimento relativo del ceto medio del "Nord", non essendo compensato da un corrispondente aumento di shopper nel "Sud", ha dato luogo a una diminuzione dello shopping mondiale.

Perciò, in attesa che la Cina e l'India incrementino la massa degli shopper, è l'Occidente che deve mettere una pezza alla tendenziale caduta del saggio medio del profitto nell'unica maniera possibile, quella di polverizzare il "risparmio" individuale investito in titoli di borsa, così da creare una situazione favorevole al credito al consumo.

venerdì 19 agosto 2011

La dittatura dell'incerto presente

Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" (2005-2007)

Dichiarare la "fine della storia", come ha fatto Fukuyama, è lo stesso che dichiarare la fine degli storici, a meno che non si riciclino. Ma in che modo? Facendo la storia del presente? Su questo aspetto una recente testimonianza ci viene dal Festival della filosofia tenuto a Roma dall'11 al 14 maggio 2006, del quale ha anticipato i contenuti Marc Augé in un articolo comparso su "La Repubblica" il 5 maggio, con il titolo molto significativo di "Dittatura dell'incerto presente". Questo l'incipit: "Da uno o due decenni a questa parte il presente è divenuto egemonico. Agli occhi dei comuni mortali esso non è più l'esito del lento evolversi del passato, non lascia più intravedere un abbozzo del futuro possibile, ma si impone come un fatto compiuto, opprimente, il cui inopinato palesarsi fa dileguare il passato e saturare l'immaginazione dell'avvenire".

Ora, se è vero che dall'inizio della "globalizzazione" la storia del passato è stata praticamente seppellita, non è affatto vero che l'oppressione del presente come "fatto compiuto" appartenga soltanto a questo periodo storico. In ogni epoca, durante la quale ha prevalso la conservazione dei "fatti compiuti" in economia, in politica e nei rapporti tra gli Stati, la storia del passato è stata trascurata o presentata in forma falsificata, distorta e convenzionale. Solo nei periodi rivoluzionari, come ad esempio nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, la storia reale è tornata in auge.

mercoledì 17 agosto 2011

Hegel: sul bisogno della conoscenza

Per Hegel, la conoscenza ha avuto il suo inizio quando le forme del pensiero sono state liberate dal condizionamento della materia, nel senso del desiderare e del volere. Citando Aristotele che aveva affermato: "Solo dopo che si ebbe quasi tutto il necessario e quello che appartiene alla comodità e all'ordinario commercio della vita, si cominciò ad affaticarsi attorno al conoscere filosofico", Hegel considera "il bisogno della conoscenza" come "il bisogno del già soddisfatto bisogno di necessità, il bisogno nascente dalla mancanza d'ogni bisogno, cui lo spirito dev'esser giunto...". "Nelle tranquille regioni del pensiero che è giunto a se stesso, ed è soltanto in sé, tacciono gli interessi che muovono la vita dei popoli e degli individui". "Da tanti lati -dice Aristotele nello stesso contesto- la natura dell'uomo è dipendente; ma questa scienza, che non viene cercata per un uso è, solo, la scienza libera in sé e per sé, che perciò non sembra un possesso umano"." ("Logica").

Analizzando, a nostra volta, Aristotele, in questo contesto, abbiamo però còlto una contraddizione, proprio in relazione al possesso di una scienza libera e indipendente da parte dell'uomo, considerando la sua reale dipendenza dalla teologia. La conoscenza umana, fin da Aristotele, è dipesa dalla teologia. E la scienza moderna si può dire nata e cresciuta in seno alla teologia cristiana.

lunedì 15 agosto 2011

Il tragico Novecento e lo smarrimento del pensiero umano

Il Novecento è stato devastato da due guerre mondiali che hanno annichilito l'umanità intera e intere generazioni di studiosi. Come avrebbero potuto quegli studiosi che sono passati attraverso le distruzioni prodotte da due guerre mondiali e la successiva minaccia nucleare della "guerra fredda", esprimere lo stesso ottimismo e la stessa sicurezza intellettuale del secolo precedente? Le loro menti non hanno potuto usufruire di quella libertà che è la sola che conta per la conoscenza: la libertà dalla paura di pensare, ossia il coraggio dell'intelligenza. Il pensiero, serrato nella morsa della paura, è diventato un pensiero smarrito, arrendevole, condiscendente a qualsiasi fittizia convenzione e impostura. Su questa base si è potuta imporre definitivamente l'"utile finzione" e, con essa, ogni forma di inganno della mente.

Il Novecento è stato, soprattutto, la storia di una tragedia militare difficile da sopportare, che ha coinvolto l'intero globo e la maggior parte della specie umana. Gli orrori della seconda guerra mondiale non potevano essere sopportati dalle coscienze degli uomini che li hanno dovuti compiere e subire. Ne è derivato, come conseguenza naturale e spontanea, il desiderio di mascherare e dimenticare l'atroce realtà, resa ancor più insopportabile dal ricatto della "guerra fredda": la minaccia nucleare. Per rassicurare le coscienze si doveva solo pensare: nel futuro mai più una cosa del genere!

sabato 13 agosto 2011

Il fallimento teorico-scientifico del Novecento

Prefazione generale ai tre volumi del libro "Il caso e la necessità - L'enigma svelato", scritta nel 2001

Il secolo che si è chiuso, apponendo il suo sigillo al secondo millennio dell'era cristiana, presenta un bilancio pesantemente negativo per la teoria della conoscenza. Secoli di sperimentazione del pensiero scientifico, dominato da difficoltà teoriche insormontabili, erano finalmente sfociati, nel XIX secolo, nell'idea del progresso che, nella sua più elevata espressione, si manifestò nell'obiettivo della conoscenza reale della natura. Ma, rovesciando le aspettative poste dall'Ottocento, il Novecento ha realizzato, in luogo della conoscenza reale, una costruzione convenzionale e fittizia della natura in ogni ramo della scienza.

La teoria scientifica dell'Ottocento aveva creduto nella possibilità della conoscenza reale della natura, nonostante si trascinasse ancora dietro tendenze teologiche che persistevano nel pretendere una conoscenza basata sull'utile convenzione, secondo le direttive suggerite dal teologo luterano Osiander al tempo di Copernico e imposte dal cardinale Bellarmino al tempo di Galileo. La scienza del Novecento ha invece chinato la testa a quelle pretese, negando la possibilità di una reale conoscenza della natura e ammettendo soltanto la conoscenza convenzionale e fittizia.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...