martedì 28 novembre 2017

Le forme materiali prodotte dall'evoluzione consistono in complessi, non in composti

La questione della divisibilità della materia e la questione della opposizione metafisica dei concetti di continuo e discreto rappresentano la conseguenza inevitabile del determinismo riduzionistico, il quale ha concepito le forme materiali come composti di elementi semplici, Cercheremo di dimostrare che il concetto di composto, se ha una sua giustificazione nell'ambito dei meccanismi prodotti dall'uomo, non ne ha alcuna in relazione ai prodotti naturali. Per conseguenza, la divisibilità della materia non ha alcun significato se cade il concetto di composto e se l'opposizione tra il continuo divisibile e il discreto indivisibile viene a cadere come falso problema.

Per esempio, se consideriamo la molecola alla solita maniera, come composto di atomi, significa ammettere che ciò che permane è non solo il composto, ma anche i suoi cosiddetti componenti. Ma la molecola è un'unità complessiva, al cui interno non si trovano singoli atomi come unità indipendenti: ciò che permane non è più lo stato atomico, ma quello molecolare.

Per comprendere tutto questo occorre partire dalla considerazione che soltanto l'attrazione, derivata da una diminuzione di energia repulsiva degli atomi, è responsabile della formazione della molecola. In questo modo gli atomi si annullano nella molecola e, se vogliamo riavere gli atomi come unità indipendenti, dobbiamo fornire tanta energia quanto serve a distruggere la molecola; ma distruggere una molecola per riottenere gli atomi in quanto tali non è la stessa cosa che dividere la materia: in altre parole la divisibilità della materia non può essere concepita.

lunedì 27 novembre 2017

Premessa sui rapporti possibilità-realtà e caso-necessità

Marx ed Engels hanno utilizzato la dialettica hegeliana, rovesciandola in senso materialistico nella economia politica, nella storia e, per quanto possibile, nelle scienze della natura, dedicando la maggior parte del loro tempo alla materia concreta, piuttosto che allo spirito astratto e alla logica delle diverse scienze. Se è vero che ogni ramo della scienza ha una sua logica specifica, è anche vero che il complesso di tutte le scienze ha bisogno di princìpi logici validi in generale. Come vedremo nelle conclusioni, dobbiamo all'arretratezza delle scienze della natura dell'Ottocento il fatto che neppure Engels abbia potuto stabilire una logica dialettica valida in generale.

Oggi, di fronte alla gran mole di scoperte empiriche, di nuovi fatti e circostanze concrete delle scienze naturali, che erano del tutto sconosciute alla scienza dell'Ottocento, i concetti e i princìpi dialettici che Marx ed Engels avevano preso in considerazione non sono più sufficienti. Occorre, perciò, tornare a quella miniera inesauribile che è la Logica di Hegel per togliere dall'oblio una serie di strumenti concettuali, necessari allo sviluppo della teoria scientifica.

venerdì 24 novembre 2017

La soluzione del rebus del lavoro produttivo nella globalizzazione

Occorre trovare il bandolo della matassa, e possiamo farlo nel solo modo che abbiamo in conformità con la dialettica caso (singolo) - necessità (complesso). Nelle tesi riassuntive sul lavoro produttivo e sul lavoro improduttivo che troviamo nell'ultimo paragrafo dell'appendice di "TEORIE SUL PLUSVALORE", Marx ci fornisce argomentazioni fondamentali. Innanzi tutto questa: "Il capitalista stesso è rivestito di autorità solo in quanto è la personificazione del capitale". Dunque, fondamentale è il capitale, inteso come il complesso della produzione capitalistica.

Per chiarire definitivamente la questione del lavoro produttivo e improduttivo bisogna partire dal capitale complessivo, per il quale la produzione del plusvalore rappresenta la sua stessa esistenza. Scrive Marx: "Dunque il capitale è produttivo: 1. in quanto costringe a fornire plusvalore; 2. in quanto assorbe in sé, se ne appropria (ne è la personificazione), le forze produttive del lavoro sociale e le forze produttive generalmente sociali come la scienza".

Poiché il capitale è produttivo se costringe a fornire plusvalore e se assorbe le forze produttive del lavoro sociale, a sua volta il lavoro sociale sarà produttivo se crea plusvalore. Dunque, Marx può scrivere: "Solo il lavoro che si trasforma direttamente in capitale è produttivo": "lavoro che crea plusvalore, ossia che serve al capitale come forza (agency) per produrre plusvalore, e perciò a porsi come capitale, come valore che si valorizza". Perciò, alla domanda: che cosa è il lavoro produttivo, Marx risponde: "lavoro produttivo -nel sistema di produzione capitalistico- è dunque il lavoro che produce plusvalore per chi lo impiega..., ossia quello che trasforma le condizioni oggettive di lavoro in capitale e il proprietario di esse in capitalista, quindi che produce il suo proprio prodotto come capitale".

mercoledì 22 novembre 2017

La definizione delle classi sociali: il lavoro produttivo e il lavoro improduttivo

Per definire i contrassegni delle classi sociali nel capitalismo occorre distinguere il lavoro produttivo dal lavoro improduttivo. Per stabilire questa non facile distinzione ci riferiremo al Quarto Libro del Capitale, pubblicato con il titolo di "TEORIE SUL PLUSVALORE", dove troviamo un ampio capitolo dedicato da Marx all'analisi delle "Teorie sul lavoro produttivo e improduttivo".

Analizzando Adam Smith, Marx scrive: "Il lavoro produttivo viene qui definito dal punto di vista della produzione capitalistica, e A. Smith ha esaurito il problema anche concettualmente, ha colto nel segno -è questo uno dei suoi più grandi meriti scientifici..., quello di aver definito il lavoro produttivo come lavoro che si scambia direttamente col capitale, cioè mediante uno scambio in cui le condizioni di produzione del lavoro e il valore in genere, denaro e merce, si trasformano anzitutto in capitale (e il lavoro si trasforma in lavoro salariato nel senso scientifico della parola). In questo modo è anche stabilito in maniera assoluta che cosa è il lavoro improduttivo. E' lavoro che non si scambia con capitale, ma che si scambia direttamente con reddito, quindi con salario e profitto (naturalmente anche con le diverse rubriche che partecipano al profitto del capitalista nelle vesti di consoci..., come interesse e rendita".

Questo passo sembra chiarire la questione, se non fosse che Marx la complica cercando di verificare la concezione di Smith in senso riduzionistico. Infatti, aggiunge:" Queste definizioni non sono dunque ricavate dalle caratteristiche materiali del lavoro (né dalla natura del suo prodotto, né dalla determinatezza del lavoro in quanto lavoro concreto), ma dalla forma sociale determinata dai rapporti sociali di produzione in cui questo si realizza. Un attore per esempio, persino un pagliaccio (clown), in base a queste definizioni è un lavoratore produttivo se lavora al servizio di un capitalista..., al quale egli restituisce più lavoro di quanto ne riceve da lui sotto forma di salario, mentre un sartuccio che va in casa del capitalista a rammendargli i pantaloni gli procura un semplice valore d'uso, è un lavoratore improduttivo. Il lavoro del primo si scambia con capitale, quello del secondo con reddito. Il primo crea plusvalore; nel secondo si consuma reddito".

domenica 19 novembre 2017

La cieca necessità delle classi sociali: un capitolo non terminato di Marx

Nell'ultimo capitolo del primo volume del CAPITALE, il 52°, intitolato "Le classi", interrotto dopo due sole pagine, Marx si pone "la domanda a cui si deve rispondere" per la definizione delle classi sociali. La domanda è la seguente: "Che cosa costituisce una classe? E la risposta risulterà automaticamente da quella data all'altra domanda: che cosa fa sì che gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari formino le tre grandi classi sociali?" Marx non si pone il problema di determinare il singolo individuo, ma di trovare i contrassegni necessari che distinguevano le tre grandi classi sociali della società capitalistica del suo tempo.

"A prima vista -egli scrive- può sembrare che ciò sia dovuto all'identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito. Sono tre grandi gruppi sociali, i cui componenti, gli individui che li formano, vivono rispettivamente di salario, di profitto e di rendita fondiaria.

Tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad es., e  gli impiegati  verrebbero a formare due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi dei membri di ognuno di questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l'infinito frazionamento di interessi e posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i proprietari fondiari. Questi ultimi, ad es., divisi in possessori di vigneti, in possessori di terreni arativi, di foreste, di miniere, di riserva di pesca".

La penna di Marx non è andata oltre quest'ultima obiezione, e la scuola marxista è sembrata impuntarsi su questo scoglio: ossia, sull'impossibilità di distinguere le classi sociali secondo l'identità del loro redditi, senza però riuscire a comprendere la ragione dell'interruzione del manoscritto. Ciò che Marx vede immediatamente è che, se consideriamo i redditi, le classi si sbriciolano in una infinità di gruppi sociali; ovvero la necessità si rovescia in casualità. "L'infinito frazionamento di interessi e posizioni" è, perciò, sotto il dominio del caso.

mercoledì 15 novembre 2017

L'incomprensione di Lenin sul caso e sulla necessità

La preoccupazione di Lenin sulla possibilità che l'agnosticismo potesse aprire la porta al fideismo nella scienza era paradossale, perché il fideismo era già di casa nelle scienze della natura. Come abbiamo dimostrato in altra sede, la scienza moderna è sorta dalla teologia, ereditandone metodi e concetti, tra i quali il principio di causalità, il riduzionismo e il finalismo. Quindi, non c'era alcun pericolo di aprire la porta al fideismo, ma solo perché dentro la scienza dominava il fideismo peggiore, in quanto non riconosciuto neppure dai materialisti dialettici: ossia la fede nel determinismo riduzionistico.

Del resto, quanto fosse difficile riconoscere il "fideismo" nel determinismo delle scienze naturali dell'Ottocento, lo testimonia l'atteggiamento manifestato dai maestri della dialettica: Hegel, Feuerbach, Marx ed Engels. Lenin se ne rese conto: basta ricordare il suo rammarico per il fatto che Hegel avesse dedicato così poco spazio al principio di causalità e per il fatto che Marx non avesse scritto una nuova logica. E, riguardo all'Anthiduring di Engels, Lenin ammette con rammarico che egli "non ebbe occasione, se non erro, di contrapporre, in modo speciale, sulla questione della causalità, il suo punto di vista materialistico alle altre tendenze".

lunedì 13 novembre 2017

2. L'equivoco del riduzionismo deterministico nel pensiero di Lenin

(Continuazione) La confusione e gli equivoci sulla trasformazione della "cosa in sé" in "cosa per noi" dipendono in parte dalla eccessiva semplificazione. Queste due questioni sono invece molto complesse, perciò occorre approfondire.

1) Sulla trasformazione della "cosa in sé" in "cosa per noi" occorre considerare, in primo luogo, la scoperta della "cosa in sé", indipendentemente dal suo, più o meno immediato, utilizzo che può verificarsi anche con scarsa o nessuna conoscenza teorica di essa. Occorre anche tener presente che, se per l'agnosticismo la "cosa in sé" esiste ma non è conoscibile, per il dialettico Engels la "cosa in sé" esiste anche quando ne ignoriamo l'esistenza (com'è avvenuto per l'ossigeno). Quindi, il primo passo della scienza è la scoperta di una determinata "cosa in sé". Stabilita la sua esistenza, dalla quale deriva anche un parziale utilizzo come "cosa per noi", inizia il momento della sua reale conoscenza o riflesso nella coscienza. Superato questo passaggio, la "cosa in sé" può diventare "cosa per noi"; ma perché ciò accada occorrono favorevoli condizioni tecnologiche, ecomiche, sociali e politiche: sono queste a garantire che la "cosa in sé" conosciuta agisca secondo un piano e per fini voluti, trasformandosi, a tutti gli effetti, in "cosa per noi".

2) Riguardo alla "prova pratica", riprendiamo la "seconda tesi" di Marx, citata* da Lenin: "La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica, E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica". Lenin cita anche il professore A. Levy che, intepretando Marx, scrive: "Che cosa dunque vi garantisce la fedeltà della traduzione? Che cosa prova che il pensiero vi dia la verità obiettiva? A questa obiezione Marx risponde con la seconda tesi".

La "seconda tesi" rispondeva alla domanda principale della teoria della conoscenza: che cosa garantisce che una teoria rifletta fedelmente il fenomeno indagato? Ciò che va sottolineato della risposta di Marx è la considerazione sulla realtà di un pensiero che non si isoli dalla pratica; ma sotto questa voce non possiamo considerare soltanto l'attività umana, dimenticando l'opera della natura. Il mondo reale è la pratica umana soltanto in relazione alla società, ma, relativamente alla natura, il mondo reale è la produzione delle forme materiali. Perciò, un pensiero che attribuisca alla natura il modo di operare umano, che si avvale del finalismo e della connessione di causa ed effetto, è un pensiero che, effettivamente, si isola dalla reale pratica naturale!

Stabilito questo, possiamo domandarci: se la natura non imita il modo di produzione umano, ossia se la pratica della natura non ha nulla a che fare con la pratica dell'uomo, può, al contrario, la pratica umana ricalcare la pratica naturale? La risposta è che l'uomo, come specie cosciente, può fare di meno e di più: di meno, in quanto non può permettersi il dispendio naturale; di più, perché può ridurre il peso del caso. Solo in questo modo può economizzare il reale dispendio naturale, solo in questo modo dimostra di poter trasformare la cieca, incosciente e dispendiosa necessità della "cosa in sé", propria della natura, nella previdente, consapevole necessità della "cosa per noi", propria dell'uomo.

Consideriamo ora il secondo punto fermo di Lenin, quello più discutibile, sulla verità relativa o approssimativa, che il materialismo dialettico ha creduto di poter contrapporre alla verità assoluta del materialismo metafisico e all'agnosticismo di Hume e Kant. L'oggetto della contesa che il materialismo dialettico doveva risolvere, una volta per tutte, riguardava non solo la possibilità della reale conoscenza del mondo esterno, ma principalmente l'affidabilità del principio di causa-effetto: infatti, era quest'ultimo che, soprattutto, divideva il determinismo assoluto dei materialisti metafisici dall'agnosticismo di Hume e di Kant, anche se, come abbiamo visto, Hume negava l'oggettività della causa, mentre Kant l'ammetteva come oggettività di qualcosa di soggettivo: il mondo dei fenomeni possibili.

Engels, nel suo "Ludwig Feuerbach", ha definito Hume e Kant filosofi "i quali contestano la possibilità di una conoscenza del mondo, e almeno di una conoscenza esauriente". Al contrario, i deterministi assoluti pretendevano ottenere una conoscenza esauriente, o verità assoluta del mondo, grazie alla connessione causale di tutte le cose, considerate singolarmente. Per Lenin a questa contrapposizione occorreva dare una risposta. A questo proposito, egli cita Dietzgen*: "Per la conoscenza che abbia acquistato consapevolezza della sua natura, ogni particella, sia pure una piccola particella di polvere o di pietra o di legno, è un qualcosa che non si può conoscere fino in fondo, cioè ogni particella è un materiale inesauribile per l'umana capacità di conoscere; conseguentemente è qualcosa che va oltre i limiti dell'esperienza".

Dietzgen serve a Lenin per impostare la questione del determinismo riduzionistico nei termini che però Engels aveva ridicolizzato nella "Dialettica della natura"**, con l'esempio del baccello di piselli, definendo casuale la condizione del singolo elemento soggetto a infiniti nessi. Tutta la nostra indagine ritorna sempre, inevitabilmente, alla inconoscibilità della singola cosa, presupposto fondamentale della conoscibilità della cosa complessiva. L'errore di Kant è stato quello di non  aver inteso che la reale inconoscibilità non riguardava la "cosa in sè", vuota astrazione del mondo delle cose, ma la cosa singola: singolo elemento di un complesso o forma materiale. Se egli aveva ragione a negare la conoscenza al metodo riduzionistico, predominante nella scienza, aveva torto a negare la possibilità della conoscenza del mondo delle cose.

Ora, il determinismo riduzionistico, sebbene fondato sulla errata connessione causale degli infiniti nessi di ciascuna singola cosa, fu, spesso, costretto ad ammettere che, in pratica, non era possibile ottenere una conoscenza esauriente di essi. Fu, così, costretto ad ammettere, come variante della sua impostazione, l'idea della conoscenza approssimativa, come progressione all'infinito e mai esauriente della ricerca della verità. Questa errata concezione ha fatto breccia anche nel materialismo dialettico.

L'Antiduhring di Engels, ancora dominato dalla concezione deterministica, accolse questa versione, come attesta il seguente passo citato da Lenin: ammesso che l'uomo è in grado di riflettere la natura, la questione è: le rappresentazioni umane "possono esprimere senz'altro questa verità integralmente, incondizionatamente, assolutamente, o possono soltanto esprimerla in modo relativo, approssimativo?" La domanda retorica di Engels, che contiene già la risposta favorevole alla verità relativa-approssimativa, dimostra che siamo ancora lontani dal riconoscimento del rapporto caso-necessità come principale polarità dialettica.

Ciò che occorre chiarire è che la questione della verità relativa sembrò essere risolta con la "verità approssimativa", soltanto perché si presuppose riduzionisticamente l'infinita e mai raggiungibile conoscenza della singola cosa in tutti i suoi infiniti nessi con il resto del mondo, ossia in tutte le sue infinite proprietà. Ma, come in seguito Engels ha mostrato nella "Dialettica della natura", la relatività riguarda le polarità dialettiche, non le singole cose soggette al caso.

La mia tesi sostiene che la "verità approssimativa" è stata un errore di teoria della conoscenza che ha portato fuori strada la scuola marxista: così Lenin, mentre ha ribadito correttamente la realtà oggettiva al di fuori dell'uomo, non ha colto l'errore fondamentale degli agnostici quando scrive: "Essi non riconoscono la realtà obiettiva, entrando così in contraddizione diretta con le scienze naturali, e aprendo la porta al fideismo (!). Al contrario per il materialista, il mondo è più ricco, più vario di quanto sembri, giacché ogni progresso nella scienza ne scopre nuovi aspetti. Per il materialista le nostre sensazioni sono l'immagine dell'unica e ultima realtà obiettiva, ultima non perché sia conosciuta a fondo, ma perché non c'è e non può esserci altra realtà al di fuori di quella".

Se è vero che gli agnostici, partendo dalla considerazione che le sensazioni non riproducono la realtà obiettiva perché, o, come dice Hume, l'induzione empirica non garantisce l'oggettività della connessione causale, o, come dice Kant, non si può conoscere la cosa in sé, hanno negato l'esistenza stessa della realtà obiettiva indipendente dalla coscienza umana, è anche vero che il materialismo ha potuto solo affermare con assoluta certezza l'esistenza della realtà obiettiva indipendente, ma quando ha dovuto rendere conto di questa certezza, rispondendo alla domanda: come riflettere questa realtà obiettiva, ha dovuto accogliere il riduzionismo nella sua versione più accettabile, quella della verità approssimativa, come progressione all'infinito.

E così il materialista Lenin, ammettendo la conoscenza inesauribile, approssimativa, ha finito col riconoscere che di ogni singola cosa non fosse possibile una conoscenza esauriente, perché la scienza scopre sempre nuovi nessi causali (!). A sua volta, l'agnostico ha avuto buon gioco a ribattere: anche per noi non si può avere una conoscenza esauriente, ma ciò perché è il principio di causalità che non ce lo permette; anzi, non ci permette neppure una conoscenza certa. Ora, è chiaro che, se la conoscenza umana dovesse affidarsi soltanto al principio di causalità, l'agnosticismo avrebbe ragione a negare ogni certezza, persino quella dell'esistenza del mondo esterno. (Continua)

*Lenin: "Materialismo ed empiriocriticismo".

** Libro sconosciuto a Lenin, perché rimasto chiuso in un cassetto della scrivania dello stupido Liebkenecht.


sabato 11 novembre 2017

1. L'equivoco deterministico nel pensiero di Lenin

Ho lasciato passare un pò di tempo dal "Centenario della rivoluzione d'Ottobre", per evitare d'essere sommerso dalla "calca" delle "commemorazioni". Mi limiterò, comunque, a rispolverare, dai miei vecchi scritti, alcuni contributi personali sul pensiero di Lenin, coerentemente  con  l'obiettivo principale di dimostrare il fallimento del determinismo nella teoria della conoscenza e di indicare la strada maestra della dialettica caso-necessità. A questo scopo era necessario mostrare il fallimento del determinismo riduzionistico anche nella scuola marxista del Novecento, che pure ha ritenuto in buona fede di riflettere i reali processi della natura e della società.

Lenin è stato il principale rappresentante di questa scuola e ha esposto la sua concezione in "Materialismo ed empiriocriticismo" (1909), opera che ci permette di dimostrare la seguente tesi: legando la concezione del materialismo dialettico alla sorte del principio deterministico di causa-effetto, egli ha ottenuto, inconsapevolmente, il contrario di ciò che si prefiggeva: riteneva di poggiare il materialismo dialettico su solide fondamenta, così da metterlo al riparo da ogni attacco dell'idealismo e dell'agnosticismo, e, invece, lo ha coinvolto nella caduta del principio stesso di causalità.

mercoledì 8 novembre 2017

A proposito dell'Unità d'Italia: il metodo cavouriano e il metodo garibaldino" 6)*

"La politica italiana, dall'unità ad oggi, è stata contrassegnata da due metodi opposti che derivano dai due principali artefici dell'unificazione, Cavour e Garibaldi.

1) Come capo incontrastato del parlamento piemontese, Cavour sa come cogliere tutte le opportunità, comprendere tutte le sfumature, aggirare gli ostacoli, utilizzare l'intrigo e la corruzione pur di raggiungere i risultati voluti. Ma quando gli avvenimenti prendono la forma di azione militare e rivoluzionaria, perde il controllo della situazione e dei suoi nervi. Il suo metodo non lo sostiene più ed egli comincia ad agitarsi fino al parossismo. Con Cavour l'arte politica del compromesso e dell'intrigo, spinta all'estremo dell'azione militare, si rovescia nell'invettiva più appassionata e nel rifiuto inflessibile del compromesso.

Così, quando Napoleone manifesta la sua volontà di chiudere rapidamente la guerra contro gli austriaci, con l'approvazione e il benestare del re Vittorio Emanuele, Cavour si oppone fino a mettere a repentaglio la propria posizione e carriera politica. Nel momento in cui l'azione militare porta alcuni frutti, ma non quelli sperati nell'immediato, Cavour perde la qualità politica che lo contraddistingueva: l'arte del compromesso, l'arte della paziente tessitura, ed "eroicamente", si potrebbe dire "alla garibaldina", mette a repentaglio se stesso.

lunedì 6 novembre 2017

La moderna forma usuraia: il capitale finanziario 5)*

"Studiando il ruolo dell'usura nell'antichità e nel Medioevo e la sua sostituzione, nell'era moderna, con il capitale finanziario "produttivo" d'interesse, si può ipotizzare che quest'ultimo altro non sia che la moderna forma usuraia, la quale, come l'antica usura, deborda dai limiti della sua dipendenza dalla produzione e da serva ne diventa padrona. Può il capitale finanziario essere considerato come quel fattore che alla fine disgregherà il modo capitalistico di produzione? Una serie di fatti indicherebbe che il capitale finanziario crea parecchi scompensi e squilibri, accentuando l'imputridimento e la decadenza dell'attuale epoca imperialistica.

In questa ipotesi il capitale finanziario potrebbe apparire, come capitale usuraio, di dimensioni tali da creare effetti sconvolgenti. Del resto esso è figlio del capitale produttivo d'interesse che, a sua volta, è figlio dell'antica usura. Abbiamo qui un esempio di dialettica della negazione della negazione: usura = affermazione. Negazione dell'usura = capitale produttivo d'interesse. Negazione della negazione = capitale finanziario.

Studiando l'antichità, Marx ed Engels attribuirono al lavoro schiavistico l'assenza del capitale industriale; il quale non può esistere senza il lavoro salariato (creazione del plusvalore nella forma di pluslavoro). Nell'antichità esiste, invece, il commercio e l'usura. I valori d'uso prodotti vengono trasformati in merce soltanto grazie al commercio che, a sua volta, è permesso dalla moneta e, sulla base della circolazione delle merci e della moneta, s'impone l'usura. In questo senso anche nell'antichità si può trovare sia il capitale commerciale che il capitale monetario.

sabato 4 novembre 2017

Il determinismo assoluto di Marco Aurelio Antonino 4)*

"Significativa la concezione deterministica di Marco Aurelio Antonino, che, nei suoi "Ricordi", si manifesta nella forma di una angosciosa preoccupazione di determinare la propria esistenza individuale come necessità assoluta: così il senso del dovere, la bontà, lo scrupolo eccessivo nell'evitare errori personali, ecc. devono per lui poggiare su un fondamento certo e necessario. Egli non accetta, quindi, la contraddizione esistente tra la necessità della sua esistenza complessiva di imperatore e il caso relativo alla propria esistenza individuale.

Per Antonino "Ogni cosa è profondamente intrecciata con le altre; sacro è il filo che tiene legate le cose. Nessuna, certamente, può dirsi estranea a un'altra". Il caso individuale viene, in questo modo, respinto e sostituito dalla connessione causale di tutte le cose, che egli attribuisce alla Provvidenza divina. "Del resto -scrive- a un bove nulla può accadere che non sia bovino; a una vigna nulla che non appartenga all'ordine delle viti; né a una pietra cosa estranea all'ordine petrigno".

giovedì 2 novembre 2017

Sulla schiavitù nell'antichità 3)*

"Bestia nera degli storici, da sempre, la concezione di Marx e di Engels è ormai trattata solo di sfuggita e in maniera del tutto inadeguata. Un esempio recente di come si possa evitare di fare i conti con le tesi del marxismo ci è dato da Finley nel suo scritto dal titolo "La civiltà greca si fondava sul lavoro degli schiavi?"** L'autore si limita a citare in maniera parziale alcune osservazioni di Marx sull'argomento, dimenticando completamente le "Origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato", dove Engels sviluppò ampiamente la questione della schiavitù nell'antichità.

Finley è abbastanza ingenuo da confessare i dispiaceri che uno storico agnostico come lui può patire a causa della concezione di Marx, affermando di non poter asserire che la schiavitù era un elemento fondamentale della civiltà greca, ma solo per la seguente ragione: se potesse liberarsi del dispotismo della storia partigiana, se potesse rimanere neutrale, affermerebbe che Atene si fondava sul lavoro schiavistico, ma non può farlo perché il concetto di "fondamento" è un concetto marxista!?

mercoledì 1 novembre 2017

Le origini di Roma 2)*

"Come ricostruire un evento storico quale fu l'origine di Roma, quando le fonti dell'epoca forniscono ipotesi suffragate soltanto da leggende? Si tratta di riferire quell'evento al modo di esistere della società del tempo: il suo modo di produzione, gli scambi, gli usi e costumi, il modo di combattere, ecc. Inoltre, per capire la nascita di Roma, occorre capire come si formavano le città antiche e per quali scopi.

La costruzione di una città, nell'antichità, era di fatto la costruzione di una fortezza dove chiudere il raccolto e mettere al riparo la popolazione dai rigori dell'inverno e dalle razzie di altre tribù. Nelle campagne le genti si stabilivano per il necessario lavoro di dissodamento della terra, di semina e di raccolto. Poiché questo lavoro era eseguito in primavera e in estate, le capanne erano più che sufficienti per alloggiare i contadini e le loro famiglie. La città fortezza si riempiva d'inverno, ma veniva utilizzata anche come rifugio durante le incursioni dei razziatori.

Ciascuna città, in un intricato sistema di alleanze temporanee, aveva il compito di difendere il proprio raccolto e, nel contempo, di utilizzare una parte degli uomini per razziare il raccolto di altre città, ma anche per assediarle e sottometterle con guerre di espansione di minore o maggiore ampiezza e durata. Lo scopo di queste guerre di espansione era duplice: garantirsi nuovi tributi e nuove alleanze per future espansioni. Il tributo che le città più forti imponevano si presentava in varie forme, ma la sostanza era unica: si pagava il tributo per poter salvare il raccolto e garantirsi la sopravvivenza.
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