domenica 25 maggio 2014

Aristotele: cause finali e cause accidentali

Il più grande filosofo di tutti i tempi, sebbene avesse intuìto l'evoluzione della natura fondata sulla dialettica caso-necessità, la respinse. Il pensiero teorico antico, con Aristotele di Stagira, pur sopravanzando di gran lunga la conoscenza della natura, fu costretto a tirarsi indietro per adeguare la sua andatura al lento passo della scienza, ancora al suo stentato inizio.

Lo stagirista sapeva bene che "se si pone una sola assurdità, questa si tira dietro tutto il resto", e "per assurdo si deve intendere ciò che è impossibile". Eppure fu costretto a concepire quella "sola assurdità" che per due millenni si è tirata "dietro tutto il resto" portando il pensiero teorico su una falsa strada: si tratta del concetto di causa finale, ossia il ritenere che la natura "è fine e causa finale". Così che essa doveva essere predeterminata, e doveva esserlo in senso teologico.

Per quale serie di ragionamenti il pensatore più profondo dell'antichità ha potuto concepire la causa finale, oscurando il ruolo del caso in connessione con la necessità? La questione è di rilevanza fondamentale se consideriamo che il concetto di causa finale ha impedito, persino in epoca moderna, di comprendere e risolvere il reale rapporto caso-necessità. Cercheremo di rispondere a questa domanda rivolgendoci alla "Fisica" e alla "Metafisica"* di Aristotele.

Nella "Fisica", egli non può fare a meno di considerare i concetti di accidentale, caso e fortuna, ritenendo rilevante l'indagine di questi concetti, perché essi spiegano un certo tipo di eventi: ad esempio, che la statua sia fatta da uno scultore rientra nel concetto di causa finale, ma che Policleto sia lo scultore che ha fatto questa statua è solo "per accidente". "Molte cose sono e divengono mediante la fortuna e il caso", e per questo motivo "si suol dire che sono cause anche la fortuna e il caso".

Ed è qui che Aristotele sviluppa la sua indagine distinguendo il "caso" dalla "fortuna": "Fortuna e caso differiscono, in quanto il caso ha un maggior numero di eccezioni. Tutto ciò che avviene per fortuna, infatti, avviene per caso, ma non tutto ciò che avviene per caso avviene per fortuna. Infatti, la fortuna e il fortuito sono propri di quelle cose cui si potrebbe attribuire il successo o, comunque, un pratico risultato".

Come si vede, il concetto di fortuna è riferibile all'operare umano, per il quale vale il risultato pratico: il successo delle proprie azioni. Qualche capoverso prima, era stato infatti anticipato: "La fortuna, poi, si dice buona, quando ce ne viene qualcosa di buono; cattiva, quando qualcosa di cattivo; e si parla di prosperità o di sfortuna quando il buono o il cattivo hanno una certa importanza". La fortuna, in conclusione, è un caso che ha effetti sull'uomo come essere cosciente che sa valutare e giudicare.

L'indifferente caso agisce, invece, su tutto ciò che è incosciente, dalle cose inanimate agli animali, fino al "fanciullino". Scrive, infatti, Aristotele che chi non ha facoltà di scelta, come l'animale o il fanciullino, "non fa nulla per fortuna". "Per costoro non c'è né prosperità né sfortuna, a meno che non si voglia parlare per similitudine, come diceva Protarco: che son fortunate le pietre da cui si cavano gli altari, perché sono venerate, mentre le loro consorelle vengono calpestate!" "Il caso, invece, si verifica anche per gli altri animali e per molte cose inanimate..."

Potremmo osservare, a questo punto, che lo Stagirista non si avvede del fatto che il caso (di cui la fortuna è solo una manifestazione riferibile all'essere cosciente) vale per i singoli e non per i complessi. Così nei suoi esempi si tratta di singoli oggetti, come nel seguente: "il tripode è caduto per caso: esso, infatti, si trovava lì perché ci si sedesse, ma non è caduto affatto per farci sedere!" Avrebbe dovuto però premettere che è il complesso dei tripodi che è stato costruito per il determinato fine di farci sedere, ma poi a un singolo tripode può capitare di tutto, per puro caso, eccetto che assolvere al fine del suo complesso.

Se non si distingue il caso relativo ai singoli dalla necessità relativa ai complessi, si finisce col considerare caso "allorquando -tra ciò che in senso assoluto pur avviene in vista di un fine -sono venute fuori, senza aver per fine quello che è accaduto, cose la cui causa finale è esterna ad esse". Il caso appare dunque riferito a cause finali esterne alla finalità dell'evento accaduto. Così quel singolo tripode cade non per propria causa finale che lo vorrebbe disposto per farci sedere, ma per qualcos'altro che ha una causa finale (il caso, come verrà detto in seguito, interseca le serie causali indipendenti). Se poi, a gettarlo per terra è stato un ospite adirato per un'inezia, anche l'ira avrà la sua causa finale. Questo modo di vedere è costretto a porre infinite serie causali per gli infiniti accadimenti casuali.

La fortuna, invece, appare ad Aristotele l'occasione favorevole da cogliere: "Parliamo invece di fortuna a proposito di quelle cose che, pur comprese fra quelle che vengono a caso, possono essere scelte da quelli che hanno facoltà di scegliere". Ma poi è costretto a sottolineare l'avverbio "invano" per indicare che il singolo oggetto, evento, uomo, ecc., pur perseguendo il suo fine, non lo raggiunge.

Collegando il caso e la fortuna alla causa finale, lo stagirista giunge alla conclusione che caso e fortuna sono cause accidentali posteriori alla mente e alla natura. "Ma poiché il caso e la fortuna sono cause di accadimenti di cui potrebbero essere cause l'intelletto e la natura, ed operano quando questi stessi accadimenti si producono secondo una qualche causa accidentale, e poiché nulla è per accidente prima di essere per sè, è evidente che neppure la causa accidentale è prima della causa per sé. E allora il caso e la fortuna sono posteriori alla mente e alla natura. E se pure il caso fosse, per estrema concessione, la causa del cielo, sarebbe necessario che la mente e la natura fossero, anco prima di esso, la causa di tante altre cose e di tutto l'universo".

E la faccenda sembrerebbe chiusa, qui, risolta definitivamente dalla causalità deteministica, se il grande filosofo dell'antichità non fosse colto da una incertezza: "Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in  vista del meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha evaporato, deve raffreddarsi, e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando questo avviene, è un fatto accidentale)? E, parimenti, quando il grano, poniamo si guasta sull'aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, ma questo è accaduto per accidente".

Questo dubbio porta Aristotele a una geniale intuizione che rappresenta il punto di partenza oggettivo per la comprensione della dialettica caso-necessità. Osserviamo innanzi tutto che egli non riferisce la necessità alla causa finale, limitandosi prima a contrapporre a quest'ultima la causa accidentale. Successivamente introduce la necessità in relazione al caso. Se prima il caso salta fuori dalla intersezione di serie causali differenti, ora il caso salta fuori dalla necessità.

Ma per comprendere il rapporto caso-necessità, lo ripetiamo, occorre distinguere gli eventi singoli dai fenomeni complessivi. Ad esempio, la necessità del complesso atmosferico si manifesta attraverso il caso della pioggia in un dato momento e in un dato luogo, dove è altresì casuale che quel frumento si trovi nella condizione della crescita che ha bisogno dell'acqua piovana o nella condizione di raccolto che può guastarsi con la pioggia. Come si vede, qui, è presente un'altra necessità, quella della produzione e del raccolto del frumento che, nelle sue singole manifestazioni (singole produzioni e singoli raccolti), è sottoposta a molteplici casualità, tra le quali quella relativa alla pioggia. Naturalmente i fenomeni atmosferici vanno per la loro strada soggetti alla cieca necessità dei complessi di singoli eventi casuali.

Ma è affatto casuale, ossia inconsapevole e niente affatto finalistico, che il fenomeno atmosferico della pioggia sia utile alla produzione umana o, persino, la danneggi. Allo stesso modo avviene con la selezione degli organi degli esseri viventi, che Aristotele intuisce nel brano che segue. "E quindi, nulla vieta che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti degli esseri viventi e che, ad esempio, per necessità, denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molari, invece, piatti e utili a masticare il cibo, ma che tutto questo avvenga non per tale fine, bensì per accidente. E pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente ma allo stesso modo che se si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si vanno perdendo...".

Aristotele dunque intuisce la dipendenza della necessità naturale dal caso, così che essa non è più finalistica, ma cieca. Però, dopo una così geniale anticipazione, egli arretra spaventato ed esclama: "ma è impossibile che la cosa stia così". Si può ritenere che Darwin, al quale fu segnalato questo passo di Aristotele, non si sia preso la briga di verificarlo alla fonte, nella "Fisica", altrimenti non si sarebbe limitato a un laconico giudizio sulla incomprensione di fondo della selezione naturale da parte del grande filosofo di Stagira, il cui genio è andato oltre lo stesso Darwin e con due millenni di anticipo.

Il pensiero antico ha superato con Aristotele le colonne d'Ercole della teoria della conoscenza, ma senza poter evitare il naufragio. Dominato dall'arretratezza della scienza, il pensiero antico non ha potuto fare altro che concepire come fondamento la causa finale, respingendo il caso come elemento di disturbo, come guastafeste per il determinismo, dando luogo alla millenaria opposizione tra la causa di Democrito e il caso di Epicuro.

Il caso, separato metafisicamente dalla necessità, è stato la bestia nera della coscienza umana perché ha sempre mostrato una natura che va per la sua strada, indipendente dalla volontà e dagli scopi degli uomini. Cacciando il caso come un disturbo, il pensiero umano ha illuso la coscienza di poter dominare la natura, immaginandola a propria immagine e somiglianza. Così Aristotele ha pensato: come ci sono errori nella pratica umana "(il grammatico scrive in modo scorretto, e il medico sbaglia la dose del farmaco)", "la medesima cosa avverrà nei prodotti naturali, e i mostri risultano sbagli di quella determinata causa finale".

Tutto così si semplifica: l'uomo opera secondo il binomio deterministico scopo-necessità: e, quando non raggiunge il suo fine, è perché ha commesso errori. Allo stesso modo si comporta la natura: ecco la soluzione di Aristotele! Questa è la ragione e la spiegazione della "causa finale"! Non stupisce, quindi, che egli dedichi così poco spazio alla necessità: "E' chiaro, adunque, che nelle cose naturali il necessario è ciò che enunciamo come materia e come movimento di questa. E il fisico deve parlare di ambo le cause, però maggiormente della causa finale, perché questa è causa della materia e non la materia è causa del fine". E, riguardo alla causa accidentale, essa è solo un disturbo e persino un errore.

In conclusione: il pensiero umano ha dovuto rassicurarsi, sin dall'antichità, riguardo alla supremazia dell'opera cosciente della natura, ponendo come modello di comportamento della natura stessa l'operare diretto alla scopo dell'uomo, guidato dalla causa finale. E' questa una conseguenza del primato della coscienza soggettiva che opprime e ottenebra la mente umana da tempo immemorabile.

* Per chi è interessato a leggere l'indagine sulla "Metafisica" deve cercare in questo blog il post dal titolo "La "scienza divina e veneranda" di Aristotele"

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato  Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) inedito

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