Prendiamo in considerazione "Il fato e la superstizione", opera nella quale Plutarco compie la sua ricerca sull'essenza del fato in relazione alla necessità. Già nell'introduzione, dopo aver detto che, nella "Repubblica", Platone ha definito il fato "quale espressione di Lachesi, figlia della necessità", osserva: "nell'esporre il suo pensiero, Platone si esprime proprio in termini teologici. Volendo semplificare e rendere questa definizione in un linguaggio corrente, possiamo dire che il Fato, in quanto al Fedro, è "una legge divina inviolabile", perché precede da una causa di cui niente e nessuno può intralciare gli effetti", quanto al Timeo, è "una legge conforme alla natura dell'universo, la quale regola il corso di tutto ciò che accade", e quanto alla Repubblica, è "una legge divina che collega il futuro al passato e al presente".
In questo giudizio ritroviamo il determinismo assoluto dell'antico pensiero greco nella forma della necessità fatale. Ma Plutarco si rende conto che una cosa è il fato (la necessità) in generale, altra cosa è la sua manifestazione nei singoli casi. Infatti dice: è "evidente che cos'è il fato in generale ma non quale esso risulta nell'ambito delle cose particolari e dei singoli individui". In altre parole, se non è un problema la definizione di necessità fatale in generale, il problema nasce quando si prende in considerazione la necessità fatale in relazione alle singole cose, ai singoli eventi, ai singoli individui.
Per risolvere questa difficoltà Plutarco immagina "il fato simile alla legge civile", cadendo così nell'errore degli antichi filosofi greci (lo abbiamo già visto in Aristotele) che paragonarono il modo di operare della natura al modo di operare dell'uomo. Infatti osserva: "la legge civile stabilisce delle norme nei confronti del soldato valoroso, del disertore e delle altre categorie di cittadini, ma non nei confronti di questo o quel soldato, di questo o quel disertore, e così via". Ma, stabilito che la necessità giuridica riguarda categorie di individui, rimane il problema della definizione di necessità relativamente ai singoli individui. Plutarco se la cava dicendo che la legge civile, "insomma, fissa innanzi tutto le disposizioni generali e poi prende in considerazione i casi che cadono sotto di quelle".
Ora, se le disposizioni fissate valgono in generale per una categoria di individui, ogni singolo individuo rimane pur sempre un "caso", ossia è puramente casuale che esso rientri o meno in quelle disposizioni. Abbiamo già incontrato questo problema in Feuerbach, riguardo al matrimonio: se lo scopo del matrimonio è la riproduzione, ciò vale in generale, ma nel caso particolare può accadere che una coppia non sia in grado di mettere al mondo dei figli. La necessità generale può essere contraddetta dal caso particolare.
La soluzione di Plutarco rappresenta quindi una falsa soluzione, in primo luogo perchè la natura non segue il binomio scopo-necessità, in secondo luogo perché, anche in relazione all'operare umano guidato dal binomio scopo-necessità, non sempre la disposizione generale si traduce necessariamente nel caso individuale. Invece, immaginando di poter paragonare la legge naturale alla legge civile ("Altrettanto dicasi della legge generale, che in primo luogo stabilisce i princìpi generali e in secondo luogo i casi particolari"), egli ne fa conseguire "che anche questi ultimi rientrano tutti, in qualche modo, nel fato, in quanto sono collegati con gli altri". Così il fato appare essere la connessione di tutte le cose: ossia "un ordinamento ed una prescrizione, in quanto regola le conseguenze degli avvenimenti, così come la legge civile regola quelle delle nostre azioni".
Questa concezione del fato, come necessità della connessione, anticipa la deterministica connessione di causa ed effetto dell'epoca moderna. La necessità appare predominante. Plutarco, però, non accettando l'assoluto dominio della necessità fatale, si pone ad esaminare "il problema delle relazioni, cioè il rapporto del fato con la provvidenza, con la fortuna, con ciò che dipende da noi, col contingente e così via". E, come soluzione, considera ragionevole "ritenere "legale" o "conforme alla legge" solo ciò che la legge ha stabilito, nei confronti di qualsiasi azione, e, analogamente, potremmo dire "fatali" o "secondo il fato" solo quegli eventi che siano la conseguenza di norme stabilite precedentemente da Dio nell'organizzazione del mondo. Possiamo dunque concludere che il fato comprende tutto ciò che accade, ma sarebbe ingiusto attribuirgli certe cose solo perché le contiene, e così pure, oserei dire, quelle precedenti il suo ordinamento".
In questo modo si giunge al seguente circolo vizioso: il fato comprende tutto, però non può essere considerato responsabile di tutto, perchè oltre alla necessità fatale, c'è "ciò che sta in nostro potere, la fortuna, il possibile, il contingente e altre cose simili". Che appartengono alla sfera della contingenza, del caso. Perciò, nonostante Plutarco affermi che "per quanto il fato, come sembra, abbracci tutto, non per questo quelle cose accadranno necessariamente, ma ciascuna di esse si produrrà secondo la natura che le è propria", Quindi è costretto a distinguere tra cose necessarie e cose contingenti: le prime "che non possono non accadere, come i fenomeni celesti, quali il tramonto e il sorgere del sole", le seconde che possono anche non accadere, "come molte di quelle che appartengono all'uomo e a parecchi fenomeni metereologici".
In questo modo si giunge al seguente circolo vizioso: il fato comprende tutto, però non può essere considerato responsabile di tutto, perchè oltre alla necessità fatale, c'è "ciò che sta in nostro potere, la fortuna, il possibile, il contingente e altre cose simili". Che appartengono alla sfera della contingenza, del caso. Perciò, nonostante Plutarco affermi che "per quanto il fato, come sembra, abbracci tutto, non per questo quelle cose accadranno necessariamente, ma ciascuna di esse si produrrà secondo la natura che le è propria", Quindi è costretto a distinguere tra cose necessarie e cose contingenti: le prime "che non possono non accadere, come i fenomeni celesti, quali il tramonto e il sorgere del sole", le seconde che possono anche non accadere, "come molte di quelle che appartengono all'uomo e a parecchi fenomeni metereologici".
L'introduzione del concetto di "possibile" sembra risolvere (spiegare) la differenza tra cose necessarie e cose contingenti: "Si potrebbe pure dire che necessario è un possibile di cui è impossibile il contrario. Per esempio, che il sole tramonti è un fatto necessario e al tempo stesso possibile, mentre è impossibile il contrario, ovverosia che non tramonti. Ma che, una volta tramontato il sole, piova e non piova, queste sono due cose possibili e contingenti". Il collegamento tra i concetti di possibilità, necessità e contingenza dà l'impressione che tra questi tre concetti possano esistere, per così dire, legami di parentela. Ma il concetto di possibilità ha sempre giocato un ruolo di mezzano tra le due opposte sfere di caso e necessità non permettendo di cogliere la loro reale dialettica e di comprendere che il concetto di necessità fa a meno del concetto di possibilità. La "possibilità" in relazione alla "necessità" è un inutile pleonasmo: tanto è vero che se tutto accadesse per necessità a nessuno sarebbe mai venuto in mente di parlare di possibilità.
Ora, poiché nulla avviene per assoluta necessità, e questa si può osservare solo per i complessi, mentre per le singole cose, per i singoli individui, ecc. tutto appare contingente e casuale, ecco che salta fuori il concetto di possibilità: qualcosa è possibile nel senso che può realizzarsi ma anche non realizzarsi, o persino veder realizzato il suo opposto. Per questo motivo possiamo dire che la "possibilità", col solo fatto di mettersi di mezzo e di pretendere attenzione, mette fuori gioco la necessità e mette in gioco il contingente, ossia il caso. Il possibile è casuale e il reale è necessario, e viceversa: il casuale è possibile e il necessario è reale. Insomma, il contingente e il possibile appartengono alla sfera del caso, mentre il fatale e il reale appartengono alla sfera della necessità. Il pensiero antico, però, non fu in grado di comprendere la sfera della casualità dialetticamente opposta alla sfera della necessità. Per questa ragione, come abbiamo già visto, Aristotele rifiutò il caso sostituendolo con la causa accidentale, subordinata alla causa finale.
Riguardo alla fortuna e al caso, Plutarco si limita a seguire il modello di ragionamento di Aristotele, considerando la sfera del caso più estesa di quella della fortuna, e attribuendo quest'ultima soltanto all'uomo. Ad esempio, il caso volle che Socrate fosse giustiziato molto tempo dopo la condanna. Per Plutarco questa "fortuna" o "caso fortuito" fu una "coincidenza", ossia lo si deve intendere come "risultato di un concorso di cause, dirette ciascuna verso il proprio fine". Non solo, ma questo fatto "dovuto a quelle coincidenze", per cui "risultò inaspettato", "poteva anche essere frutto di un'intelligenza previdente, vuoi umana, vuoi divina. E ciò basta con la fortuna".
Insomma, potendo essere la fortuna o il caso un effetto di un "concorso di cause", potrebbe essere per Plutarco anche il risultato di un'intelligenza previdente, persino divina. Ma che cosa rappresentano le "coincidenze" e i cosiddetti "concorsi di cause" se non quelle circostanze imprevedibili, da nessuno volute, e perciò casuali? Immaginare che ciò che appartiene alla sfera del caso potrebbe anche essere una combinazione voluta (dall'uomo o dalla divinità), non fa che eludere il problema del rapporto tra il caso e la necessità. Così Plutarco finisce col porre tutta la sfera del caso nel fato: "Questi, dunque, sono gli elementi che si trovano nel fato: il contingente e il possibile, la facoltà di scelta e quanto altro dipende dall'uomo, la fortuna e il caso, coi loro annessi e connessi, quali il possibile e il verosimile. Tutto ciò rientra nel fato, ma niente di ciò è secondo il fato".
La distinzione tra ciò che "rientra nel fato" e ciò che è "secondo il fato" è una soluzione soltanto formale, verbale. La reale questione è che il contingente e il possibile, la facoltà di scelta, intesa come scelta individuale, e la fortuna, così come il probabile e il verosimile, e ancora il "raro e l'inaspettato" rientrano tutti nella sfera del caso, che è la sfera dei singoli oggetti e individui. Ma se vengono posti nella sfera della necessità fatale, non c'è altra soluzione che la predeterminazione divina o divina provvidenza.
E, infatti, seguendo Platone, dopo aver posto tutto nell'unico recipiente chiamato fato, Plutarco attribuisce quest'ultimo a Dio e il gioco è fatto: "La provvidenza suprema, dunque, è la più antica di tutte le cose, tranne che l'Essere di cui rappresenta la volontà e l'intelligenza, o l'una e l'altra insieme: Essere che, come abbiamo detto, è il padre e l'artefice di tutte le cose". C'è da stupirsi che Plutarco abbia trovato così grande attenzione presso il pensiero moderno? Nella sua soluzione c'è in embrione la futura teologia cristiana che, come vedremo, ha condizionato le menti dei maggiori pensatori, filosofi e scienziati del Seicento, iniziatori della scienza moderna.
E, infatti, seguendo Platone, dopo aver posto tutto nell'unico recipiente chiamato fato, Plutarco attribuisce quest'ultimo a Dio e il gioco è fatto: "La provvidenza suprema, dunque, è la più antica di tutte le cose, tranne che l'Essere di cui rappresenta la volontà e l'intelligenza, o l'una e l'altra insieme: Essere che, come abbiamo detto, è il padre e l'artefice di tutte le cose". C'è da stupirsi che Plutarco abbia trovato così grande attenzione presso il pensiero moderno? Nella sua soluzione c'è in embrione la futura teologia cristiana che, come vedremo, ha condizionato le menti dei maggiori pensatori, filosofi e scienziati del Seicento, iniziatori della scienza moderna.
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato Volume primo Teoria della conoscenza (1993-2002) Inedito
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