mercoledì 4 giugno 2014

Kant sul rapporto singolo-complesso (individuo-specie) nella storia

Abbiamo già visto che Kant, nella "Critica della ragion pura", non tenendo in alcun conto il caso, ha preteso stabilire una causa oggettiva sulla base del suo soggettivismo trascendentale. Ma, nella "Critica della ragion pratica" e soprattutto nei suoi "Scritti di filosofia e di storia", nonostante non giunga mai ad accettare il caso, non respinge però argomenti che, come abbiamo già tentato di dimostrare, sono connessi al rapporto caso-necessità: si tratta in particolare dell'attribuzione dell'ordine e della necessità al complesso (la specie) e del disordine e del caso al singolo (l'individuo).

In uno scritto del 1784, intitolato "Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico", Kant scrive: "La storia che si propone di narrare queste manifestazioni, per quanto profondamente occulte possano essere le cause, fa tuttavia sperare di essere in grado di scoprire nel gioco della libertà umana, considerato in grandi proporzioni, un ordine per cui ciò che nei singoli individui si rivela confuso e irregolare, nella totalità della specie possa riconoscersi come sviluppo continuato e costante, anche se lento, delle sue tendenze originarie".

Kant era dunque consapevole che ordine e necessità vanno ricercati nella specie, mentre nei singoli si manifestano confusi e irregolari, ossia, casuali. E questa consapevolezza gli derivava dalla giusta considerazione della statistica. Infatti, citando come esempi i matrimoni, le nascite e le morti, dice che non sono sottoposti "a regola alcuna", e ammette che al caso individuale si oppone la necessità complessiva come attestano "le registrazioni annuali compiute nei grandi paesi", ecc. E precisa: "Singoli individui ed anche interi popoli non pongono mente al fatto che, pur perseguendo i loro particolari fini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, procedono in realtà inavvertitamente secondo il filo conduttore di un disegno della natura e promuovono quell'avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, anche se lo conoscessero, non farebbero gran caso".

Questo "filo conduttore" altro non è che la necessità statistica. Perciò, se Kant avesse potuto accettare l'idea che la regolarità statistica è il modo col quale s'impone, in natura e nella società, l'ordine complessivo a spese del disordine dei singoli, avrebbe in tal modo risolto la difficile questione caso-necessità; invece, non potendo rinunciare al teologico "disegno della natura", dovrà conciliare la sua intuizione dell'ordine complessivo con le esigenze del potere politico e religioso. Comunque, egli intuì persino il dispendio e l'eccezione statistica in relazione alla storia della specie umana, anche se in forma di "risentimento a vedere gli uomini operare sulla grande scena del mondo, e trovare talvolta un'apparente saggezza in casi isolati, ma da ultimo nell'insieme un miscuglio di stoltezza, d'infantile vanità, spesso anche d'infantile malvagità e manìa di distruzione, per cui non si sa alla fine quale concetto formulare della nostra specie  così orgogliosa delle sue progenie".

Nel tentativo di stabilire alcuni punti fermi in una serie di tesi, Kant, dovendo conciliare il determinismo finalistico con la sua intuizione della necessità complessiva, finirà in un paradossale qui pro quo, attribuendo alla specie umana ciò che appartiene a tutte le specie viventi, e attribuendo alle specie animali ciò che potrebbe essere un  giorno la realizzazione di una umanità finalmente libera! Infatti, in relazione alle specie animali, afferma nella prima tesi: "Tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate un giorno a svolgersi in modo completo e conforme al loro scopo". "Poiché, se noi prescindiamo da questo principio fondamentale, non abbiamo più una natura regolata da leggi, ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della guida della ragione".

E così, per evitare il "caso sconfortante", è costretto a pensare che ogni singolo organismo animale debba essere guidato secondo una necessità conforme allo scopo. Ma, paradossalmente, nega che ciò possa accadere al singolo individuo umano. Nella sua seconda tesi, infatti, distingue la specie umana dalle specie animali proprio su questa convinzione: "Nell'uomo, che è l'unica creatura razionale della terra, le naturali disposizioni, dirette all'uso della sua ragione, hanno il loro completo svolgimento solo nella specie, non nell'individuo".

Se Kant avesse potuto ammettere la cieca necessità naturale, avrebbe potuto stabilire che questa agisce molto più sulle specie animali che sull'uomo, o meglio, avrebbe dovuto ammettere che l'uomo ha in sé le potenzialità per sottrarsene. Di consegenza, diversamente dal singolo organismo animale, sottoposto al cieco dominio del caso che, nei suoi confronti, si manifesta come cieca necessità imprevedibile e distruttiva, il singolo uomo potrebbe sottrarsi al caso e vivere liberamente se la sua specie attuasse tutte le proprie potenzialità. Invece, per salvare il principio finalistico deterministico, Kant è costretto ad attribuire all'umanità una necessità relativa alla specie, che è soltanto naturale e appartiene a tutte le specie animali come cieca necessità (ma che per l'uomo non è ancora la sua reale necessità conosciuta), mentre  è costretto a negarla alle specie animali alle quali spetta per "diritto naturale"!

Ma, è discutendo la settima tesi sul "problema di instaurare una costituzione civile perfetta", che Kant coglie il nocciolo del problema, anche se, invece di risolverlo, lo schiaccia sotto il peso del "diritto naturale" e di un brano che pare scritto d'un fiato, tanto che a leggerlo si rimane senza fiato. Lo offriamo per intero al lettore senza fargli alcuno sconto, non prima, però, di averne tratto il reale succo in brevissima sintesi: e cioè che, ancora una volta, il finalismo ha scacciato via il caso come elemento di disturbo.

"Discuteremo ora se dobbiamo aspettarci da un concorso di cause operanti a caso, come Epicuro crede, che gli Stati come le particelle della materia col loro fortuito urto tentino formazioni di ogni specie, le quali andranno a loro volta per nuovo urto distrutte, fino a che da ultimo, per effetto del caso, si costituirà un prodotto capace di mantenersi nella sua forma (evento fortunato che assai difficilmente potrà avvenire): oppure si debba piuttosto ammettere che la natura segua qui un corso regolare, tale da guidare a poco a poco la nostra specie dal grado inferiore dell'animalità al grado supremo dell'umanità, sia pure con arte propria, anche se estorta all'uomo, sviluppando in questo apparente barbaro ordine quelle originarie disposizioni in modo del tutto regolare: oppure, se meglio piace, ammettere che da tutte queste azioni e reazioni degli uomini non si produrrà nell'insieme nulla (almeno nulla di intelligente) e le cose rimarranno come sono sempre state, sicché non si può prevedere se la discordia, così naturale alla nostra specie, non prepari a noi, pur così civili, un abisso di mali, dai quali andrà con barbarica devastazione distrutta questa nostra civilità con tutti i progressi culturali fin qui raggiunti (un destino per cui non si può rimanere sotto il dominio del cieco caso, equivalente nel fatto alla libertà senza legge, senza ammettere sottostante ad esso un filo conduttore della natura legato ad una occulta sapienza); discutere questa questione sarebbe come a un dipresso discutere se sia ragionevole ammettere nei particolari una finalità nella costituzione della natura e poi ammettere nell'insieme la mancanza di fini)".

Non c'è che dire, Kant era superbo nella sua arte filosofica e ne sapeva molto di più di quanto gli era consentito ammettere senza disturbare il potere politico e religioso del suo tempo. Così, anche nell'ottava tesi, aggiusta le cose  "convenientemente", considerando "la storia della specie umana nel suo insieme come l'effettuazione di un occulto piano della natura..." per un "fine millenaristico". Ma, poiché la storia reale sembra seguire la regola della stoltezza complessiva, egli si accontenta di una costruzione storica  convenzionale, fondata sulla "idea di ciò che dovrebbe essere il corso del mondo umano qualora esso dovesse adeguarsi a certi fini razionali".

La storia a priori razionale, affermata nella nona tesi, è giustificata dall'ammissione "lecita" "che la natura, anche nel gioco della libertà umana, proceda secondo un disegno e uno scopo finale": ammissione, del resto, resa necessaria per non dover ammettere il "cieco caso" come fondamento della necessità. Con "l'idea di una storia universale avente in certo qual modo un filo conduttore a priori", di nuovo Kant propone decisamente l'utile convenzione, il come se, non potendo proporre la soluzione reale della cieca necessità dei complessi fondata sulla base del caso relativo ai singoli. Il finalismo kantiano non è l'oggettivo finalismo hegeliano: è il fingere un filo conduttore a priori, è l'esigenza soggettiva di pensare una storia umana non come realmente guidata, ma come se fosse guidata da un fine superiore, della natura, "o meglio della provvidenza".

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato  Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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