La statistica come metodo d'indagine che rinuncia al singolo particolare
(Continuazione) Alla fine del capitolo che stiamo considerando Schrodinger definisce la statistica come metodo d'indagine che "consiste in una saggia rinuncia alla conoscenza del particolare", e respinge l'idea che limitare la fisica alle teorie statistiche "provenga da una specie di "rassegnazione"." Quindi, vede l'analogia della statistica economica e sociologica con la statistica della fisica. Ma, sottolineando che non si può "sapere nulla della sorte di una singola molecola e tanto meno influire sul suo andamento", non conclude che la stessa cosa vale anche, ad esempio, per il singolo scienziato. Abbiamo già considerato il motivo psicologico che impedì a Schrodinger di essere del tutto conseguente con le sue osservazioni e riflessioni. Qui ci limiteremo a segnalare i momenti di maggiore vicinanza alla soluzione, contrapponendoli a quelli nei quali si ritrae e diventa reticente.
(Continuazione) Alla fine del capitolo che stiamo considerando Schrodinger definisce la statistica come metodo d'indagine che "consiste in una saggia rinuncia alla conoscenza del particolare", e respinge l'idea che limitare la fisica alle teorie statistiche "provenga da una specie di "rassegnazione"." Quindi, vede l'analogia della statistica economica e sociologica con la statistica della fisica. Ma, sottolineando che non si può "sapere nulla della sorte di una singola molecola e tanto meno influire sul suo andamento", non conclude che la stessa cosa vale anche, ad esempio, per il singolo scienziato. Abbiamo già considerato il motivo psicologico che impedì a Schrodinger di essere del tutto conseguente con le sue osservazioni e riflessioni. Qui ci limiteremo a segnalare i momenti di maggiore vicinanza alla soluzione, contrapponendoli a quelli nei quali si ritrae e diventa reticente.
Innanzi tutto, egli accomuna Boltzmann e Darwin scorgendo "un profondo carattere comune alle loro tendenze e al loro pensiero. Di che cosa si tratta? Altrove ho accennato alla legge statistica dei grandi numeri, che dovrebbe costituire questo carattere comune, che rappresenta la spina dorsale, il nerbo delle due teorie".* In questa affermazione Schrodinger va oltre le convinzioni di Darwin, ma proprio in questa forzatura dimostra il suo acume teorico, vedendo la soluzione statistica nell'idea darwiniana di variazione casuale non diretta verso uno scopo. Finalmente il biologo può sostenere di aver "incontrato nel suo ramo leggi del tutto esatte; tuttavia esse sono naturalmente, com'egli dice quasi scusandosi, "solo" leggi statistiche, che si verificano tanto più esattamente quanto più numerose sono le collettività che si prendono in esame".
Notiamo, per inciso, il fatto che il biologo senta il dovere di scusarsi per aver preso la giusta direzione che soltanto il pregiudizio deterministico ritiene sconveniente. Val la pena di considerare, sempre per inciso, la seguente profonda intuizione di Schrodinger sulla genetica molecolare (anche considerando che siamo nel 1946): "è degno della massima attenzione il fatto che attualmente si fa sentire una reazione contro il rigoroso atomismo di Mendel-Morgan del patrimonio ereditario dei cromosomi. Il nome che si dà a questa reazione è effetto di posizione. Nel gene non si tratterebbe più di parti rigorosamente localizzate del cromosoma, che sarebbero responsabili singolarmente di questo o quel particolare, di questa o quella mutazione, ma si tratterebbe di complicate proprietà morfologiche del cromosoma considerato nella sua totalità". Quest'idea, che consideriamo valida, e che permette di superare il piatto meccanicismo riduzionistico, poteva essere pensata soltanto da chi avesse intuìto la dialettica probabilità-statistica, caso-necessità.
Notiamo, per inciso, il fatto che il biologo senta il dovere di scusarsi per aver preso la giusta direzione che soltanto il pregiudizio deterministico ritiene sconveniente. Val la pena di considerare, sempre per inciso, la seguente profonda intuizione di Schrodinger sulla genetica molecolare (anche considerando che siamo nel 1946): "è degno della massima attenzione il fatto che attualmente si fa sentire una reazione contro il rigoroso atomismo di Mendel-Morgan del patrimonio ereditario dei cromosomi. Il nome che si dà a questa reazione è effetto di posizione. Nel gene non si tratterebbe più di parti rigorosamente localizzate del cromosoma, che sarebbero responsabili singolarmente di questo o quel particolare, di questa o quella mutazione, ma si tratterebbe di complicate proprietà morfologiche del cromosoma considerato nella sua totalità". Quest'idea, che consideriamo valida, e che permette di superare il piatto meccanicismo riduzionistico, poteva essere pensata soltanto da chi avesse intuìto la dialettica probabilità-statistica, caso-necessità.
E, infatti, ritornando, l'anno seguente, sul carattere comune alle teorie di Boltzmann e Darwin, Schrodinger mostra d'aver compreso più profondamente di qualsiasi biologo darwiniano la reale dinamica della selezione naturale: "La selezione statisticamente casuale più e più volte ripetuta entro collettività molto grandi (se anche non proprio così grandi!) è in fondo il "meccanismo" che conduce secondo Darwin alla formazione e allo sviluppo di specie vitali. Come nella teoria del calore, il principio che presiede alla spiegazione è l'avvenimento casuale intelleggibile: noi possiamo capire che una mutazione, che favorisca anche di poco chi ne è oggetto, deve infine farsi sentire con maggior forza da una progenie molto numerosa, anche se ogni volta è scelta dal caso per la sopravvivenza soltanto una piccola frazione. Ciò è non solo comprensibile, ma è una cosa che viene da sé per definizione. Giacché che altro significato può avere la parola "favorire", se non far aumentare un pò la possibilità di vita o la frazione statistica dei sopravviventi?"**
Insomma, il "caso intelligibile" altro non è che la consapevolezza della oggettiva casualità relativa ai singoli individui. Di conseguenza, che altro può essere la selezione naturale se non il rovesciamento di singole mutazioni casuali nella necessità di determinate frequenze di sopravvivenza? Il mutante è favorito dalla sorte nella forma del caso, ma esso rappresenta una frazione statistica necessaria, fondata su grandi numeri di individui della specie considerata. Schrodinger non giunge, però, fino a comprendere il dispendio che implica questa dinamica della selezione naturale, quindi non può cogliere il carattere di eccezione statistica che contraddistingue il progresso evolutivo. Però, nonostante che "il principio che il caso e precisamente proprio il caso" sia "lontano dal pensiero scientifico", egli ha il coraggio di sostenere che "nel principio di Darwin dell'evoluzione e nella teoria meccanica del calore, noi abbiamo ricondotto il verificarsi di fatti estremamente complicati e la spiegazione di regolarità pressochè inviolabili al fatto che il caso è "cieco"."
Qui Schrodinger è veramente a un passo dalla soluzione definitiva del difficile rapporto caso-necessità. Se non lo compie è perché vale anche per lui ciò che scrive a proposito dei pregiudizi che intralciano il pensiero scientifico: "la scienza trova un impedimento in certe abitudini del pensiero profondamente radicate, di cui alcune si possono rendere palesi molto difficilmente, mentre altre sono già state messe in evidenza".*** Così, se egli ha messo in evidenza il ruolo del caso andando contro il pensiero deterministico, non è poi riuscito a mettere in evidenza un'altra abitudine del pensiero molto radicata: l'impostazione soggettivistica non dialettica, ostinandosi a non accettare il mondo materiale oggettivo, indipendente dalla coscienza.
Secondo lui, ciò equivarrebbe a "tagliar fuori se stesso, retrocedere come uno spettatore che non ha nulla a che fare con l'esecuzione dello spettacolo". Insomma, l'individuo Schrodinger non ha potuto accettare il ruolo di semplice "spettatore" e "comparsa" di eventi complessi che stanno al di fuori e al di sopra di lui. Questo soggettivismo egocentrico non tollera che la natura si crei da sola, che la materia si muova di automovimento, che le forme materiali abbiano un modo indipendente di formarsi e di sviluppare, fondato soltanto sul cieco caso singolo che si rovescia nella cieca necessità della evoluzione complessiva.
La contraddizione tra l'oggettività dell'indagine scientifica e l'impostazione di fondo soggettivistica è così forte in lui, che non può trattenere un'esclamazione: se la questione è "l'ipotesi d'un mondo reale intorno a noi", "ma allora soltanto un pazzo rifiuterebbe di ammetterla!" Ma poi come concepisce questo "mondo reale" intorno a noi? Come il "mondo in comune", idea che crede d'aver trovato nella concezione di Eraclito. Così, secondo lui, noi costruiremmo "il mondo reale". Ma questo mondo reale non esiste di per sè, perché stranamente coincide con "l'immagine scientifica del mondo reale"! Insomma, ci sarebbe l'immagine, ma non l'oggetto dell'immagine.
A questo punto non vale quasi più la pena di seguire Schrodinger, perché le sue argomentazioni non hanno più alcun senso logico. Egli dice che, partendo dalle "mie sensazioni" si costruisce il "mondo in comune", ossia "l'immagine scientifica del mondo" che non contiene la "mia personalità". In realtà, abbiamo visto che non si parte dalle "mie sensazioni", ma necessariamente dai "documenti orali e scritti" degli scienziati che ci hanno preceduto. Quindi l'individuo, qui, conta più come parte casuale di un tutto necessario che per la sua personalità individuale. (Continua)
Insomma, il "caso intelligibile" altro non è che la consapevolezza della oggettiva casualità relativa ai singoli individui. Di conseguenza, che altro può essere la selezione naturale se non il rovesciamento di singole mutazioni casuali nella necessità di determinate frequenze di sopravvivenza? Il mutante è favorito dalla sorte nella forma del caso, ma esso rappresenta una frazione statistica necessaria, fondata su grandi numeri di individui della specie considerata. Schrodinger non giunge, però, fino a comprendere il dispendio che implica questa dinamica della selezione naturale, quindi non può cogliere il carattere di eccezione statistica che contraddistingue il progresso evolutivo. Però, nonostante che "il principio che il caso e precisamente proprio il caso" sia "lontano dal pensiero scientifico", egli ha il coraggio di sostenere che "nel principio di Darwin dell'evoluzione e nella teoria meccanica del calore, noi abbiamo ricondotto il verificarsi di fatti estremamente complicati e la spiegazione di regolarità pressochè inviolabili al fatto che il caso è "cieco"."
Qui Schrodinger è veramente a un passo dalla soluzione definitiva del difficile rapporto caso-necessità. Se non lo compie è perché vale anche per lui ciò che scrive a proposito dei pregiudizi che intralciano il pensiero scientifico: "la scienza trova un impedimento in certe abitudini del pensiero profondamente radicate, di cui alcune si possono rendere palesi molto difficilmente, mentre altre sono già state messe in evidenza".*** Così, se egli ha messo in evidenza il ruolo del caso andando contro il pensiero deterministico, non è poi riuscito a mettere in evidenza un'altra abitudine del pensiero molto radicata: l'impostazione soggettivistica non dialettica, ostinandosi a non accettare il mondo materiale oggettivo, indipendente dalla coscienza.
Secondo lui, ciò equivarrebbe a "tagliar fuori se stesso, retrocedere come uno spettatore che non ha nulla a che fare con l'esecuzione dello spettacolo". Insomma, l'individuo Schrodinger non ha potuto accettare il ruolo di semplice "spettatore" e "comparsa" di eventi complessi che stanno al di fuori e al di sopra di lui. Questo soggettivismo egocentrico non tollera che la natura si crei da sola, che la materia si muova di automovimento, che le forme materiali abbiano un modo indipendente di formarsi e di sviluppare, fondato soltanto sul cieco caso singolo che si rovescia nella cieca necessità della evoluzione complessiva.
La contraddizione tra l'oggettività dell'indagine scientifica e l'impostazione di fondo soggettivistica è così forte in lui, che non può trattenere un'esclamazione: se la questione è "l'ipotesi d'un mondo reale intorno a noi", "ma allora soltanto un pazzo rifiuterebbe di ammetterla!" Ma poi come concepisce questo "mondo reale" intorno a noi? Come il "mondo in comune", idea che crede d'aver trovato nella concezione di Eraclito. Così, secondo lui, noi costruiremmo "il mondo reale". Ma questo mondo reale non esiste di per sè, perché stranamente coincide con "l'immagine scientifica del mondo reale"! Insomma, ci sarebbe l'immagine, ma non l'oggetto dell'immagine.
A questo punto non vale quasi più la pena di seguire Schrodinger, perché le sue argomentazioni non hanno più alcun senso logico. Egli dice che, partendo dalle "mie sensazioni" si costruisce il "mondo in comune", ossia "l'immagine scientifica del mondo" che non contiene la "mia personalità". In realtà, abbiamo visto che non si parte dalle "mie sensazioni", ma necessariamente dai "documenti orali e scritti" degli scienziati che ci hanno preceduto. Quindi l'individuo, qui, conta più come parte casuale di un tutto necessario che per la sua personalità individuale. (Continua)
* Da "L'immagine del mondo" Capitolo 6 "Lo spirito della scienza" (1946).
** Ibid Capitolo 7 "Come la scienza rappresenta il mondo" (1947)
*** Ibid Capitolo 8 "La natura e i greci" (1948)
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Tratto da "La dialettica caso-necessità - L'enigma svelato Volume primo Teoria della conoscenza (1993-2002) Inedito
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