Esiste una reale contraddizione nella teoria della conoscenza: la contraddizione tra ciò che la mente umana può arrivare a concepire in astratto e ciò che, nella pratica, l'uomo, con i suoi strumenti, può arrivare a determinare e a misurare. Questa contraddizione si riflette anche e soprattutto nel rapporto tra i concetti di infinito e finito. Per gli antichi greci, che arrivarono a misurare migliaia di stadi, grandezze superiori erano praticamente infinite. Esiste perciò un infinito relativo che semplicemente travalica le grandezze misurabili in una data epoca storica.
Ma il pensiero astratto può andare oltre: già quando si potevano misurare soltanto migliaia di stadi, i filosofi concepirono un infinito, per così dire, assoluto, indipendente dalla capacità umana di misurare grandezze finite, per quanto grandi. E' da qui che dobbiamo partire per comprendere i concetti di infinito e di finito. Ora, se l'infinito "relativo" è un finito che non siamo ancora in grado di misurare perché smisurato, l'infinito "assoluto" è qualcosa di non misurabile perché sconfinato, illimitato. In sostanza questo infinito non è determinabile come un finito. Il problema allora è di stabilire il contrassegno di questo infinito e il suo rapporto con il finito.
Come premessa possiamo utilizzare per comodità di sintesi il "Dizionario di filosofia" (1962) di Abbagnano, che riassume correttamente i diversi significati di infinito concepiti dal pensiero umano:
"1° l'I. matematico che è la disposizione o qualità di una grandezza;
2° l'I. teologico che è l'illimitatezza di potenza;
3° l'I. metafisico che è l'assenza di compiutezza".
Sub 1° "La concezione matematica dell'I. ha elaborato due diversi concetti di esso e cioè a) il concetto dell'I. potenziale come limite di certe operazioni sulle grandezze; b) il concetto dell'I. attuale come una specie particolare di grandezza". Per i nostri scopi è fondamentale la differenza tra questi due concetti: l'infinito potenziale che è concepito come una tendenza irraggiungibile e l'infinito attuale che è concepito come reale, esistente.
Il principale filosofo dell'antichità, Aristotele, prese in considerazione entrambi i concetti di infinito, negando però l'esistenza dell'infinito attuale come realtà a sé o come attributo di una realtà. Abbagnano cita Aristotele riassumendolo così: "l'infinito 'esiste soltanto in modo accidentale' come disposizione, come 'ciò che in natura non può essere percorso'... o come ciò che si può percorrere, ma non tutto, perché è senza fine; e in questo senso è I. per composizione o per divisione o entambe le cose". Si tratta dell'infinito matematico "che si può percorrere ma mai esaurientemente o completamente".
Continua la citazione di Abbagnano: "In questo senso l'I. è tale 'che si può prendere sempre qualcosa di nuovo, e ciò che si prende è sempre finito ma diverso. Sicché non bisogna prendere l'I. come singolo essere,..., il cui modo d'essere non è una sostanza ma un processo e che, se pure finito, è incessantemente diverso'. Non è pertanto I. ciò al di fuori di cui non c'è nulla, come si ritiene comunemente, ma ciò al di fuori di cui c'è sempre qualcosa; per conseguenza l'I. rientra più nel concetto di parte che in quello di tutto".
Insomma, per Aristotele, l'infinito è sia accidente (caso) sia parte (di un tutto). Poiché, come ormai sappiamo, il caso si manifesta in infiniti modi, che sono modi di esistere di numerosi singoli elementi di ciascun complesso finito necessario, si può anticipare la seguente tesi: il finito è associabile al "tutto" necessario, l'infinito è associabile alla "parte" casuale. E così abbiamo trovato in Aristotele, correttamente interpretato da Abbagnano, due idee fondamentali rimaste incomprese e non sviluppate nella storia successiva del pensiero umano. Grazie a queste idee, la contraddizione infinito-finito può essere risolta -lo vedremo- come polarità dialettica connessa alla polarità caso-necessità.
Tornando ad Abbagnano, quanto segue: "Questo concetto dell'I. [matematico] è assolutamente negativo: consiste nella non esauribilità di certe grandezze sottoposte a determinate operazioni che sono quelle della composizione, cioè dell'aggiunta di una parte sempre nuova, e della divisione in parti sempre nuove. La prima operazione tende all'infinitamente grande, la seconda all'infinitamente piccolo (cioè all'infinitesimo): entrambe definiscono il concetto di I. come inesauribilità o incompletezza di una serie". Questo significato d'infinito è prevalso nel Settecento e quasi per tutto l'Ottocento: ad esempio Gauss protestò nel 1831 contro l'uso di una grandezza infinita intesa come qualcosa di completo. Per lui l'infinito era solo una "façon de parler", soltanto un modo di dire.
Ma le cose cambiarono nel Novecento. Scrive Abbagnano: "b. Il secondo concetto dell'I. è quello dell'I. categorico o (come meno propriamente si dice) attuale, cui solo la matematica moderna ha dato finora forma rigorosa". Furono Cantor e Dedekind che "enunciarono un nuovo concetto dell'infinito. Questo consiste nell'assumere come definizione dell'I. esattamente quello che era apparso sin allora come il "paradosso" dell'I. stesso: l'equivalenza della parte e del tutto". Questo paradosso si osserva quando si mettono in corrispondenza biunivoca, ad esempio, la serie naturale dei numeri con i suoi sottoinsiemi, ad es., con i numeri primi o i quadrati dei numeri primi, ecc. E' questo il concetto di infinito proprio della matematica, chiamato autoriflessività, che in seguito approfondiremo.
Per il momento limitiamoci a citare il modo con il quale Galilei si sottrasse al "paradosso dell'infinito" affermando molto sensatamente "che gli attributi di 'eguale', 'maggiore' e 'minore' non aver luogo negli infiniti ma solo nelle qualità terminate" ("Scienza nuova"). Questa obiezione di Galilei, a nostro avviso, è tuttora valida: non essendo l'infinito limitato e completo, non si può parlare in relazione adesso di parte, tutto, uguale, minore, ecc: qualità che hanno valore solo per ciò che è finito.
Sub 2° Riguardo al secondo significato del concetto di infinito, quello di natura teologica, ovvero l'infinita potenza divina, importante fu il contributo di Hegel con la contrapposizione tra "cattivo infinito" e "vero infinito". Scrive Abbagnano, citando correttamente Hegel: "La falsa infinità è l'infinità matematica del processo all'I: giacché questo 'si arresta alla dichiarazione della contraddizione contenuta nel finito, che, questo, cioè, è tanto qualcosa, quanto l'altra cosa' (Enc. §94). Il progresso all'I. rinvia al di là del finito ma non raggiunge mai questo al di là: perciò la sua negazione del finito è un 'dover essere' che non è mai un 'essere'."
Per Hegel, "Solo il cattivo infinito è l'al di là, essendo soltanto la negazione del finito come tale... La vera infinità presa così in generale, quale un esserci che è posto come affermativo contro l'astratta negazione, è la realtà in un senso più elevato che non quella che dapprima si era determinata quale semplice realtà. La realtà ha acquistato qui un contenuto concreto. Non il finito è reale, ma l'infinito". Così per Hegel il vero infinito è la "forza dell'esistenza", l'illimitata potenza della ragione. Come vedremo, occorre rovesciare questa conclusione hegeliana: non l'infinito, ma il finito è reale e, soprattutto, conoscibile.
Sub 3° Possiamo terminare con il 3° significato di infinito, elaborato dall'antico pensiero greco che non ha superato i confini dell'antichità: si tratta dell'assenza di compiutezza dell'infinito. "Per Aristotele -scrive Abbagnano- l'I. non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un tutto; esso è parte, cioè incompiutezza e inesauribilità. Aristotele dava pertanto torto a Melisso che aveva chiamato I. il tutto e ragione a Parmenide che l'aveva ritenuto finito (Fis....). Ma tali determinazioni sono quelle che già Platone aveva riconosciuto proprie dell'I.: I. è ciò che è privo di numero e misura, che è suscettibile del più e del meno perciò esclude l'ordine e la determinazione".
Come si vede, Aristotele e, prima di lui, Platone avevano compreso un'idea fondamentale, l'incompiutezza-indeterminatezza dell'infinito, che la successiva storia del pensiero umano ha invece trascurato, anche perché questa idea aveva poco valore per la concezione deterministica: infatti, solo se ripristiniamo il caso nella sua naturale funzione, dalla quale la causa lo ha storicamente spodestato, viene naturale e conseguente associare l'infinito al caso e il finito alla necessità e concepire il rovesciamento dialettico dell'uno nell'altro.
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