lunedì 16 giugno 2014

7) L'infinito della logica matematica e il paradosso della riflessività. Conclusioni

(Continuazione) I filosofi e i matematici del passato, fino all'Ottocento, hanno respinto il concetto di infinito attuale a causa del paradosso della riflessività che compare nella corrispondenza di serie tra loro subordinate come, ad esempio, l'insieme dei numeri interi e l'insieme dei numeri pari o dispari: è il paradosso delle "parti grandi quanto il tutto". Se Gauss dovette ribadire il rifiuto dell'infinito come un tutto completo fu perché Bernardo Bolzano, nella prima metà dell'Ottocento, pretese affermare l'esistenza di questo infinito utilizzando un escamotage tipico dei matematici puri.

A questo proposito, Luminet e Lachièze-Rey scrivono: "Bolzano segna una tappa matematica decisiva là dove difende con convinzione l'idea di un infinito attuale, e non solo potenziale. Il suo statuto ontologico dovrebbe essere esattamente lo stesso che spetta agli altri numeri (finiti), e la matematica dovrebbe essere in grado di manipolarlo nello stesso modo in cui manipola qualsiasi altro oggetto". Per Bolzano è possibile il concetto di un insieme infinito di oggetti "che può essere pensato tutto insieme". L'escamotage  da lui utilizzato consistette nell'eliminare il paradosso della riflessività con un paradossale rovesciamento: trasformare il paradosso stesso nel fondamento teorico del concetto di infinito attuale: la riflessività divenne così il contrassegno dell'infinito inteso come un tutto completo. Insomma, l'argomento usato da oltre due millenni per respingere l'infinito attuale divenne la proprietà fondamentale che lo definiva.

La presunzione dei matematici puri raggiunge talvolta delle insuperabili vette, come nel caso di Bolzano che annullò il pensiero dei geni del passato semplicemente capovolgendolo. Ai matematici puri non interessa la logica del concetto, perché essi possono manipolare tutto pur di trovare l'assioma che fa al caso loro. In questo caso, appunto, è stato sufficiente trasformare un paradosso, considerato tale per oltre due millenni, in un nuovo assioma. Così è  sparito il paradosso, come conseguenza, solo perchè è stato posto come premessa.

Occorre, a questo punto, fare un passo indietro per esaminare il paradosso della riflessività: innanzi tutto, solo se pretendiamo l'esistenza dell'infinito attuale in matematica, applicandolo a serie illimitate di numeri, salta fuori questo paradosso. Ripartiamo da capo: se prendiamo, ad esempio, la serie di numeri da 1 a 100, questa serie finita contiene 50 numeri pari e 50 numeri dispari. Perciò, se poniamo in corrispondenza biunivoca la serie dei numeri interi con la serie dei numeri pari (o dispari), si osserva che la parte è la metà del tutto, e questo avviene anche se aumentiamo a piacere le serie: da un lato portandola a 500, 5000, 50.000 ecc.; dall'altro portandola a 1000, 10000, 100.000, ecc.

Queste serie possono essere aumentate fino all'infinito potenziale, ma, finché restano finite, si osserva che la parte è sempre la metà del tutto. Invece, non appena nominiamo l'infinito togliamo ogni termine finale, e le serie di numeri interi, di numeri pari e di numeri dispari diventanto d'incanto "uguali", ossia infinite, e la parte non è più la metà del tutto. Per infinito si intende da sempre ciò che non ha limite, che non ha una fine, l'illimitato, al quale non si può aggiungere altro. Perciò, dire infinito significa anche dire che non si può aggiungere un altro numero: non esiste infinito + 1, +2, ecc.

Allora l'infinito matematico una determinazione ce l'ha: a suo modo pone fine alla serie. Così, il concetto di infinito si traforma nel suo opposto, il finito. Quindi abbiamo che l'infinito è tale se è senza fine, senza un termine; ma, contraddittoriamente, l'infinito è "terminato" quanto basta a impedire che si gli si possa aggiungere un altro numero. Questa contraddizione emerge soprattutto nel caso dell'infinito attuale, inteso come un tutto completo.

Se consideriamo l'infinito potenziale, il problema non sussiste, perché non si possono porre a confronto cose sensa un limite, senza un termine; perciò, l'argomento di Galileo è valido e sufficiente. Ma se consideriamo l'infinito attuale, come un tutto completo, esce fuori la contraddizione di un infinito che si rovescia nel suo opposto, nel finito. Questo infinito contraddittorio, in quanto si rovescia nel "finito" del tutto completo, può essere matematicamente concepito come corrispondenza biunivoca di serie subordinate, ma, in quanto resta pur sempre infinito, produce il paradosso della riflessività, che non può essere eliminato. Non potendo essere eliminato, ecco l'escamotage di Bolzano: fare del paradosso della riflessività un assioma matematico.

Da questo nuovo assioma poteva, così, sorgere una nuova matematica pura, astratta, con il solito difetto di non avere nulla a che fare e a che vedere con la realtà naturale. Questa matematica doveva essere necessariamente complessa, perciò darà filo da torcere ai suoi fondatori. E, infatti, Bolzano poté solo stabilire qualche princìpio, ma senza trovare l'impossibile soluzione. Per lui, come scrivono Luminet e Laschieze-Rey: "E' pur vero che se l'insieme A è contenuto nell'insieme B, allora la taglia di A non può essere maggiore della taglia di B; ma se A e B sono infiniti, le loro taglie possono essere uguali... In queste condizioni è piuttosto il finito che viene definito in modo privativo, cioè dal fatto che non possiede tale proprietà di riflessività".

Ecco un modo di capovolgere le cose! Stabilito che il paradosso della riflessività è un nuovo assioma che definisce la proprietà dell'infinito, il finito, di conseguenza, si troverà privato di tale proprietà! Ma questo non deve sorprendere: é in perfetto stile matematico puro. E non è finita, perché Bolzano aggiungerà "un'altra idea fondamentale: non c'è un solo infinito, ma parecchi: se l'infinito fosse unico, il numero infinitamente grande sarebbe il più grande di tutti. Il che è impossibile". Questa idea, aggiungono gli autori: "gli permette di delineare concretamente l'idea di infiniti quantitativi e quella di un calcolo dell'infinito". Non sarà, però, lui a portare avanti questo programma. Ci penseranno Richard Dedekind (1831-1919) e soprattutto George Cantor (1845-1918) a sviluppare le idee di "questo geniale precursore".

Una parte del libro di Luminet e Laschieze-Rey è dedicata ai primi rudimenti della matematica degli infiniti che vale la pena di seguire, anche se soltanto per un brevissimo tratto e al solo scopo di smascherarla: "In modo generale, il numero degli elementi di un insieme, la sua "taglia", è detto il suo numero cardinale -esordiscono-. Per un insieme finito non c'è problema. Per esempio l'insieme dei primi cento numeri pari contiene cento elementi. Il suo cardinale è dunque cento, che differisce dal suo maggiore elemento che è il numero 200. Ma qual è il cardinale dell'insieme dei numeri interi?" Nella domanda ritroviamo il presupposto dell'esistenza di una entità complessiva infinita.

Ma poi  esce fuori un condizionale che presuppone un possibile: la possibilità di definire la "taglia" di un insieme infinito: "Se si riesce a definirlo, sarà ovviamente un cardinale infinito. In analogia (!) con i cardinali degli insiemi finiti, che sono numeri finiti, un cardinale infinito svolgerà il ruolo di un numero infinito". E anche questa conclusione appartiene allo "stile" dei matematici puri, dei matematici teorici: sviluppare una matematica diversa utilizzando il solo metodo dell'analogia con una matematica già data.

Ed ecco spuntare fuori la soluzione di Cantor che utilizzò il metodo della "corrispondenza biunivoca" tra due insiemi, ossia la corrispondenza tra ogni singolo elemento di due serie di numeri. "E' facile mettere in corrispondenza l'insieme dei primi 100 numeri interi con quello dei primi cento numeri pari, secondo lo schema:
     
          1, 2, 3, ... 99, 100
          2, 4, 6, ... 198, 200

Questi due insiemi hanno la stessa taglia, cioè lo stesso cardinale". E questa è una convenzione matematica accettabile. Ma se si prende da una parte l'insieme N di tutti i numeri interi e dall'altra l'insieme P di tutti i numeri pari, che cosa succede? "E' chiaro -scrivono i due autori- che si possono mettere in corrispondenza biunivoca, secondo lo schema:
          
          N: 1, 2, 3,... 99, 100, 101,...
          P: 2, 4, 6,... 198, 200, 202,...

N e P hanno, dunque, lo stesso cardinale".

Riflettiamo: prima abbiamo visto due serie finite, poi due serie non finite, indicate con i puntini. Queste ultime sono due serie che possono essere considerate infinite solo potenzialmente, ma Cantor ci assicura che queste sono serie infinite "attuali", e, solo per semplice analogia con le serie finite, ci assicura di aver trovato il cardinale degli infiniti.

Gli autori scrivono: "Tuttavia, intuitivamente, N possiede più elementi: tutti i numeri pari appartengono a N, ma N contiene inoltre i numeri dispari". "Non è paradossale concedere loro la stessa taglia?" Ma qui il paradosso non è che N e P abbiano la stessa taglia, il paradosso (o meglio l'errore) è attribuire a insiemi infiniti una convenzione matematica creata per gli insiemi finiti. In questo modo si dà per presupposto ciò che si doveva dimostrare, ossia la possibilità di quantificare gli infiniti attuali come numeri. Il risultato, dunque, era già nella falsa premessa, non trovato come conseguenza. In questo modo si può andare da per tutto, matematicamente parlando!

Siamo giunti, comunque, a un punto nel quale, mentre l'aspetto puramente matematico si complica troppo per dei profani, ciò che volevamo esprimere negli ultimi 7 post dedicati al rapporto infinito-finito può essere avviato alla sua conclusione. Intanto le elaborazioni sull'infinito di Cantor, che risalgono attorno al 1890, non furono accolte molto benevolmente da quegli stessi matematici puri che, pur abituati a tutte le convenzioni, non erano ancora pronti ad abbandonare un atteggiamento millenario: il rifiuto del concetto di infinito attuale. Mentre il pluralismo teorico e la crescente pluralità degli addetti ai lavori matematici del secolo successivo eliminerà ogni barrriera.

E' da decenni, ma soprattutto in piena "globalizzazione", che si assiste a un forsennato recupero di tutta la produzione teorica del passato, senza tralasciare nulla, con una smania di riciclare tutto, che è spiegabile soltanto e principalmente con i grandi numeri degli addetti ai lavori teorici matematici, filosofici, scientifici, ecc. i quali hanno un bisogno vitale di sbocchi per la propria sopravvivenza. In questa pratica è anche facile scoprire, in ogni angolo, geni al loro tempo "incompresi"

E così, Luminet e Laschieze-Rey arrivano a celebrare Cantor come un genio perché avrebbe accolto "queste nuove verità senza bollarle come paradossali, sapendo invece di utilizzarle come base inedita per articolare la realtà (sic!) dell'infinito attuale". "Insomma hanno torto i filosofi a pensare che l'infinito ecceda il pensiero che lo pensa". I filosofi hanno ben altri torti e, guarda caso, assomigliano a quelli dei matematici puri e dei fisici teorici: sia i primi che i secondi si possono permettere di tutto, perché non devono rendere conto a nessuno della corrispondenza delle loro teorie con la realtà, diversamente, ad esempio, dalle equìpe di fisici sperimentali, ingegneri e tecnici che, ad esempio, hanno lavorato per la ricerca di apparizioni "spettrali" previste dai matematici fisici puri. E lasciamo stare le circostanze per le quali anche loro, dovendo cedere all'interesse di categoria, sono "scivolati" in adorazione del bosone di Higgs.

Siamo quasi d'estate... Tanto per ridere un pò, ricordate Petrolini che si guardava i bottoni, non ricordo bene se della camicia o del frac, e celiava: "Vedete questo cosettino? E' così piccolo e lo chiamano bottone!"   Ricordate il grande successo di LHC? Vedete questa cosettina della particella di Higgs? E' così piccola e la chiamano bosone! "Tutto un mondo da rifare!"  Nel frattempo, buone vacanze a tutti.

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