martedì 2 aprile 2013

Un equivoco storico plurimillenario nel rapporto tra scienza e religione

L'autore di questo blog deve ammetterlo: ignorava che Ratzinger, nel 1987, avesse scritto: "Molto in generale si può dire che se l'inizio del mondo è dovuto a uno scoppio primordiale, allora non è più la ragione il criterio e il fondamento della realtà, bensì l'irrazionale; anche la ragione è, in questo caso, un prodotto collaterale dell'irrazionale verificatosi solo per caso e per necessità, anzi per errore ed in quanto tale da ultimo è essa stessa irrazionale".

Apprendo questo da un recente articolo pubblicato in "scienzainrete" a firma di Cristian Fuschetto, il quale allude anche alla "insofferenza per la teoria del Big Bang e per quella evoluzionistica, divulgatrice di una visione "irrazionalistica" della Natura in cui ogni apparente ordine altro non sarebbe se non il frutto di uno "scoppio primordiale" e di "caso e necessità"": insofferenza che non poteva mancare alla teologia ratzingeriana e, più in generale, alla religione.

Il papa emerito, a quel tempo, non poteva certo conoscere le idee, ancora in fieri, di un autodidatta. Aveva, invece, sotto gli occhi la teoria contraddittoria di Monod, il quale cercò di far coesistere il caso con la necessità del determinismo meccanicistico assoluto. Ma, se Fuschetto ricorda lo scritto di Ratzinger del 1987, senza prendere una chiara posizione sul rapporto caso-necessità, è forse perchè la soluzione non è stata trovata dal premio Nobel Monod nel 1972, ma da un semplice autodidatta (in anni più recenti), il quale, però, non sapeva di collidere così direttamente con il raffinato pensiero ratzingeriano sul rapporto caso-necessità.

Di più, se le cose stessero come finora le ha spiegate una fittizia teoria della conoscenza, divisa tra un determinismo meccanicistico e un indeterminismo probabilistico, tra loro opposti diametrali inconciliabili, Ratzinger avrebbe avuto e avrebbe ancora ragione a sottolineare l'irrazionalità della scienza umana. Ma proviamo a considerare le cose da un punto di vista storico più oggettivamente realistico.

Il fatto che, fin dai primordi, l'uomo abbia attribuito al creatore del mondo il metodo molto umano del rapporto di causa-effetto (molto umano nel senso che è stata l'umanità a produrre i suoi meccanismi mediante il rapporto deterministico di causa-effetto) può significare soltanto che l'uomo ha immaginato l'azione di Dio a propria immagine e somiglianza: unico modo che, del resto, aveva per raffigurarsi la divinità creatrice.

Per molti secoli, la teologia non solo ha dato per certa l'ovvia esistenza del divino creatore, ma ha dato per certo, persino, che la sua opera seguisse il non ovvio principio dell'economica razionalità deterministica, ossia del rapporto di causa ed effetto, così da attribuire al creatore stesso il nome di causa prima e suprema. Non ovvio, perché, anche ammettendo il divino creatore, nessun essere umano avrebbe potuto e dovuto avere conoscenza dei poteri divini usati per creare l'universo, come abbiamo visto nel precedente post.

Ed ecco il paradossale equivoco plurimillenario: e' solo perché, storicamente, l'uomo è stato sempre condizionato dalla carenza di risorse che ha considerato come il massimo della perfezione la realizzazione economica del metodo deterministico, fondato sul rapporto di causa-effetto. Però, coerentemente con il presupposto della onnipotenza del creatore, l'uomo non avrebbe dovuto né giudicare negativamente, né temere di osservare, un eventuale enorme dispendio nella "creazione". 

Del resto, storicamente, il preteso ordine e la pretesa economia della creazione sono stati partoriti da una scienza ancora fanciulla, uscita dal grembo stesso della teologia, in un periodo di scarso sviluppo economico, tecnologico e demografico della specie umana. Ma questa scienza, ancora oggi, nonostante il rapido sviluppo dei suoi prodotti tecnologici, creati dall'uomo con il proprio metodo deterministico, non ha ancora capito come in natura sorgano le forme materiali non viventi e viventi (fino al prodotto più elevato, la coscienza umana). Questa scienza non ha ancora capito che i processi naturali non si avvalgono del determinismo, ossia dell'economico rapporto causa-effetto, ma della dispendiosa dialettica caso-necessità.

Allora, chi riconduce l'opposizione tra credenti e non credenti alla opposizione, rispettivamente, tra il metodo economico di causa-effetto e il metodo dispendioso di caso-necessità, non fa che mantenere l'equivoco storico. Perché un non credente può benissimo pensare, sbagliando, che l'intero universo sia un meccanismo come un orologio, economico e ben determinato, mentre un credente può benissimo accettare, correttamente, che l'onnipotenza divina si possa manifestare in qualsiasi modo, persino mediante la dispendiosa dialettica caso-necessità. 

Comunque, indipendentemente dall'essere credenti o non credenti, è concettualmente corretto sostenere che il credente, partendo dal principio della inconoscibile -per l'uomo- volontà e azione divina, non avrebbe potuto e soprattutto dovuto giudicare come va il mondo. Quando lo ha fatto si è poi dovuto appellare alla teodicea, sorta per giustificare i mali del mondo. E, in definitiva, a distinguere il non credente dal credente c'è una sola, autentica, contrapposizione: quella tra il concetto di materia eterna, e perciò increata, e il concetto di materia creata. Ma, se il credente pensasse anche soltanto di poter sapere come Dio ha creato la materia, seguendo quali leggi, ecc., incorrerebbe giustamente nella riserva di Bellarmino dell'ex suppositione, rivolta alla scienza umana.

Perciò, possiamo concludere, sottolineando con forza, l'equivoco plurimillenario nel quale è caduta la teologia, quando ha immaginato che l'onnipotenza divina dovesse necessariamente prediligere l'economia (accompagnata dall'ordine) e la causa (seguita dall'effetto), che sono, invece, le compagne predilette della povertà materiale e spirituale degli uomini!

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