Su "la Repubblica" del 21 marzo 2013, i due filosofi, Ferraris e Veca, "dibattono" astrattamente su "realtà" e "possibilità", senza chiarire né l'uno né l'altro concetto e neppure il loro reciproco rapporto: ad esempio, che mentre la sfera del possibile è ampia, la sfera del reale è ristretta.
I filosofi che si dilettano a parlare genericamente di possibilità e di realtà compiono delle astrazioni pure, vuote, le quali, poi, devono essere reincarnate in qualche modo: ad esempio, per Ferraris, può essere il detto di Bismark: la politica è "l'arte del possibile", mentre subito dopo Veca può pretendere da Musil "una risposta alla faccenda complicata della contrapposizione o della semplice distinzione fra realtà e possibilità".
Chi ha scritto il titolo dell'articolo, del resto, ha dimostrato di non aver affatto compreso su che cosa i due filosofi discutessero. Infatti, il titolo recita "Dialogo filosofico sui migliori dei mondi impossibili", rovesciamento in negativo del "migliore dei mondi possibili" di Leibniz. Ma tra Ferraris e Veca poco si parla di mondi, e neppure di dialogo si tratta. Assistiamo, invece, a due monologhi che s'incrociano, senza chiarire nulla, attorno all'astratta "possibilità" e all'astratta "realtà".
Chi ha scritto il titolo dell'articolo, del resto, ha dimostrato di non aver affatto compreso su che cosa i due filosofi discutessero. Infatti, il titolo recita "Dialogo filosofico sui migliori dei mondi impossibili", rovesciamento in negativo del "migliore dei mondi possibili" di Leibniz. Ma tra Ferraris e Veca poco si parla di mondi, e neppure di dialogo si tratta. Assistiamo, invece, a due monologhi che s'incrociano, senza chiarire nulla, attorno all'astratta "possibilità" e all'astratta "realtà".
Citiamo, a mò d'esempio, questo passo conclusivo, estrapolato da un periodo fin troppo prolisso di Ferraris: "Insomma, una caratteristica essenziale della vita reale è la consapevolezza che ciò che accade in un modo avrebbe potuto accadere altrimenti, e che quello che abbiamo fatto avrebbe potuto venir fatto in altro modo (generalmente migliore. A meno che si faccia avanti la consolazione, che di nuovo corre sul filo del possibile, del "poteva andar peggio")".
Ma ciò che questa filosofia egocentrica non vuole intendere è che quando partiamo da noi stessi, come singoli, non possiamo considerare, come esempio di realtà necessaria, lo "stipite duro", citato da Veca contro il quale possiamo sbattere la testa. Caso mai esso è solo una realtà contingente. Così come inciampare, scivolare, ecc. sono casi individuali che si trasformano in realtà puramente contingenti, anche quando si traducano in disgrazie. Ma a questo livello c'è poco da dibattere: tutto è più semplice di quello che si vuole fare intendere.
Ciò che si può notare è che quando i filosofi "dibattono" su questioni che andrebbero, invece, risolte dalla conoscenza scientifica della realtà, la filosofia non appartiene più alla teoria della conoscenza, perché scade a livello della peggiore ideologia: ad esempio, qui si tratta dell'ideologia con la quale i filosofi Ferraris e Veca accarezzano le debolezze individuali tipiche della società della globalizzazione o del "Truman show".
Per questa ideologia è l'individuo l'attore principale del rapporto "possibilità-realtà" e del rapporto "caso-necessità". Ma così non è. Perché, se relativamente all'individuo, le possibilità appaiono molte, come appunto molti sono casi delle singole vite, la questione "possibilità-realtà", al pari di quella "caso-necessità", è comprensibile e risolvibile, una volta per tutte, soltanto se prendiamo come protagonista non la singolarità individuale, i singoli individui, ma la loro connessione nella molteplicità collettiva alla quale appartengono. Allora, si può comprendere e analizzare la necessità complessiva nella quale si rovescia dialetticamente la casualità individuale.
Se prendiamo, invece, come oggetti d'indagine, noi stessi come singoli, non possiamo considerare come esempio di realtà necessaria lo "stipite duro", contro il quale possiamo sbattere la testa, perché esso rappresenta soltanto una realtà contingente. Così come inciampare, scivolare, ecc. sono casi che si trasformano in realtà puramente contingenti. E anche quando si traducano in eventi ferali, a questo livello, c'è poco da dibattere: tutto è semplicemente e banalmente casuale.
La difficoltà sorge, invece, quando a "sbattere la testa", ad esempio contro la miseria, sia un complesso di miliardi di individui. Allora può essere solo lo studio della storia economica, politica e militare a indicarci la necessità. Insomma, se la possibilità può alludere a ciò che non necessariamente deve accadere, la conclusione alla quale si può arrivare, senza rimanere campati in aria e indecisi come filosofi presi dai propri lambicchi, è che la possibilità appartiene alla sfera del caso individuale, mentre la realtà appartiene alla sfera della necessità complessiva, rovesciamento dialettico della sfera del caso in quella della necessità.
Sono i numerosi individui che subiscono, singolarmente, i casi della vita e si trovano di fronte a varie possibilità che non si traducono in realtà (prevedibili), se non talvolta con l'aiuto della "fortuna" -che si può manifestare in molteplici forme di sostegno-, o all'opposto con il nocumento della "sfortuna" -che si può manifestare in molteplici forme di boicottaggio-, o, infine, con l'indifferenza innocua nelle sue mille forme. Ma i grandi numeri di singoli individui, senza esserne coscienti (se non molto raramente), vengono distribuiti dai casi della vita in vari complessi, ceti, professioni, ecc, infine classi. E sono questi complessi che subiscono la necessità cieca, rovesciamento dialettico del caso individuale nella necessità complessiva
Spesso si confonde quello che è lo spontaneo attaccamento alla propria individualità e a quella dei propri intimi (attaccamento che ci spinge, contro ogni logica e sentimento sociale, a desiderare solo il proprio bene, rimanendo indifferenti alla sorte delle classi, dei popoli, infine, di una specie umana che ha raggiunto e superato il numero di sette miliardi di individui) con l'esigenza di avere delle certezze filosofiche e scientifiche sulle singole persone, sulle singole esistenze.
Così, anche contro ogni evidenza empirica, ci si aggrappa a false speranze relative alla propria sorte individuale e a quella dei propri intimi. Questa è la sfera del caso e della possibilità casuale dalla quale sorge soltanto la realtà contingente. Ma per cogliere nella sua interezza la realtà necessaria, occorre indagarne i complessi che la costituiscono.
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