venerdì 5 aprile 2013

II] Ancora sulla valutazione dell'azione umana e il ruolo della coscienza

Nel paragrafo precedente* abbiamo definito il criterio scientifico che permette di valutare l'azione umana come azione complessiva nella forma di organizzazione che moltiplica i risultati, a differenza della somma algebrica dei risultati delle azioni dei singoli individui. L'analisi della necessità è dunque possibile per l'organizzazione. Riguardo al singolo individuo la necessità complessiva si rovescia in casualità. A sua volta il caso, relativo alle azioni dei singoli individui, si rovescia nella necessità complessiva. Com'è possibile che l'uomo cosciente non sia in grado di fare altro che ricalcare le orme del solito processo di tipo naturale soggetto alla dialettica caso-necessità?

I singoli individui partono da se stessi, ma nell'ambito della propria specie, divisa in classi, popoli, nazioni, religioni, etnie, ecc. Anche le azioni collettive dipendono da queste divisioni; così anche il concetto di organizzazione è un'astrazione che concretamente si configura in molteplici forme dipendenti dalle divisioni della specie umana: ad esempio le Chiese rappresentano organizzazioni delle più diverse religioni; gli Eserciti sono organizzazioni militari dei più diversi Stati; gli Stati, a loro volta, sono organizzazioni sorte per guidare le più diverse Nazioni, ecc. ecc.

A ragione di queste divisioni dell'umanità, vale per ogni individuo ciò che Engels diceva di ogni singolo animale: le sue condizioni di vita, compresa la possibilità di mantenersi in vita e di riprodursi, compreso il numero di nemici, ecc. non dipende da altro che dal puro caso: ogni singolo uomo parte da se stesso, ma entro le condizioni prefissate alla nascita, e partecipa alla sua collettività particolare soltanto come particella casuale di un complesso ciecamente necessario. E' così che egli trova condizioni, circostanze e occasioni: il caso, come una dea bendata, distribuisce favori e ostacoli senza guardare in faccia nessuno; e ognuno riceve, soltanto in questo modo, materia per la propria coscienza.

Ma che coscienza può mai essere quella che sorge su una base così aleatoria? Non per nulla Marx ha evitato di definire la coscienza umana dal punto di vista individuale. Marx si è limitato a sostenere: "non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza".* Se così è, sulla base della nostra indagine dobbiamo dedurne che la coscienza dell'individuo dipende solo dalle condizioni casuali dell'esistenza individuale.

Marx ha poi aggiunto: "Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione" *

Come si vede, nel caso della società, Marx è in grado di fornire un criterio di valutazione per spiegare la coscienza e di conseguenza l'azione complessiva degli uomini. Ma la cieca necessità complessiva, analizzabile, del "conflitto esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione" si manifesta nei singoli individui soltanto in forme accidentali. Insomma, anche la più precisa definizione scientifica di necessità complessiva non comporta come effetto necessario una coscienza e una conseguente azione del singolo individuo. Troppi sono gli accidenti che lastricano il suo percorso; e troppi sono i pretesti, ossia le particolari "necessità" che derivano dalla collettività (organizzazione) di sua appartenenza (necessità che molto raramente meritano la qualifica di "fondate scientificamente").

Quando abbiamo sostenuto che è possibile valutare scientificamente l'azione complessiva di una organizzazione in termini statistici**, abbiamo in sostanza affermato che l'organizzazione può essere oggetto della scienza, a differenza dell'individuo. Però dobbiamo anche precisare quanto segue: se una organizzazione persegue scopi secondo un piano fondato sulla necessità conosciuta, che garantisca una corrispondenza tra scopi e mezzi, cause ed effetti, e di conseguenza stabilisca precise modalità di esecuzione del piano, allora qui abbiamo la possibilità di una scienza deterministica, grazie alla eliminazione del caso: così rimane la necessità conosciuta che permette i risultati voluti.

Ma una simile organizzazione non esiste nella realtà attuale, se non come eccezione. La società borghese, fondata sul capitale, impone organizzazioni, il cui principale contrassegno è la lotta per la sopravvivenza o per la vittoria sulla concorrenza e sul nemico. Successo o insuccesso qui dipendono da molteplici circostanze, tra le quali principalmente la potenza derivata dai mezzi economici. Di per sé la qualità dell'organizzazione non garantisce né la sopravvivenza né la vittoria. Per i generali tedeschi che vinsero in Polonia e in Francia nelle migliori condizioni organizzative, la circostanza di una guerra mondiale, con l'entrata in campo degli Stati Uniti, poté rappresentare soltanto la certezza di una totale sconfitta.

La scienza storica qui non può essere deterministica; ma, come nella sfera naturale, deve affidarsi alla dialettica caso-necessità, concependo la necessità cieca, fondata sul dispendio e sull'eccezione statistica, e analizzabile prevalentemente in senso statistico, senza alcuna illusione di poter predeterminare e prevedere il futuro. Trattandosi di organizzazioni per la lotta, ciecamente necessaria, nulla è certo, e la palma della vittoria come, al contrario, il giogo della sconfitta spettano non a singoli politici, militari, ecc. ma a due soli protagonisti complessivi: la potenza economica capitalistica e il potere collettivo di una classe o di uno Stato determinati.

E' in questo senso che possiamo affermare che la valutazione scientifica dell'azione umana deve riguardare i complessi organizzati ciecamente necessari, costituiti dai singoli numerosi individui casuali. Riguardo a questi ultimi, se non esiste scienza che se ne possa fare carico, esiste però un tipo di valutazione che segue il seguente criterio empirico: se l'individuo è per sua natura soggetto al caso, è più che naturale valutarlo nel momento della "verità", ossia quando la sua azione è favorita o ostacolata da improvvisi casi che provocano impreviste necessità; mentre, nel lavoro normale di routine, ogni individuo vale l'altro, in quanto usufruisce della prassi organizzativa prestabilita e collaudata.

Lavorare di routine, secondo schemi ben definiti di organizzazione, e ciò si osserva ad esempio nei laboratori delle industrie più avanzate, abitua la mente dell'individuo ad attendersi un dato effetto da una data causa. Questo ferreo determinismo, alla prova del movimento reale, sia naturale che sociale, guidato dalla dialettica caso-necessità, va incontro a inevitabili svarioni. Nella lotta, nel confronto diretto con il movimento reale, l'organizzazione non può fare affidamento soltanto su schemi organizzativi, ovvero su individui disciplinati e abituati ad attendersi effetti determinati, necessari: qui, alla base della decisione e della volontà individuali ci deve essere il "colpo d'occhio", che solo l'esperienza acquisita e l'intelligenza riesce a formare.

Se occorre compiere il lavoro di Sisifo, basta una grande volontà per non scoraggiarsi e andare avanti; e chi non ce la fa, può essere sostituito come "pezzo di ricambio" della macchina organizzativa; ma, se occorre risolvere un problema improvviso e imprevisto che in genere paralizza l'azione, allora la decisione di agire dipende dal "colpo d'occhio": se si comprende un problema, allora si è in grado di intervenire con volontà e decisione; al contrario, se non si sa dove mettere le mani, la volontà e la decisione nelle intenzioni si trasformerà nell'abulia e nella indecisione nei fatti.

Ora, nella vita reale, un individuo intelligente e accorto, che abbia dato prova di sé come volontà di azione, decisione e risultati voluti, può ugualmente andare incontro a una serie di insuccessi. Com'è possibile? Bisogna partire dalla considerazione che ogni individuo è portato spontaneamente a perseguire risultati immediati, e, se non li raggiunge, diventa giudice di se stesso, giudice severo e persino implacabile. Di conseguenza una serie ripetuta di insuccessi deprime anche l'individuo più dotato, determinando una perdita di fiducia nelle proprie capacità. Al contrario, una serie di successi casuali rende sicuri anche individui più indecisi e fragili. Questi effetti non hanno altra motivazione che l'abitudine millenaria di ragionare per connessione di causa ed effetto: così, l'individuo è considerato la causa delle conseguenze delle sue azioni.

Finché si ragiona da deterministi, in riferimento all'azione individuale, inevitabilmente anche il successo più insperato e accidentale solleverà il morale dell'individuo, perché egli potrà attribuirselo e vederselo attribuire a pieno diritto***; al contrario, anche l'insuccesso più palesemente casuale apparirà un demerito personale. Difficile togliere dalla mentalità deterministica l'impressione che anche gli accidenti più casuali non siano voluti dall'individuo che li subisce; e, insomma, se un individuo comincia ad avere numerosi "insuccessi", qualche responsabilità dovrà pur averla. Su questo terreno è poi facile scivolare nel moralismo impotente, che si manifesta come "rimprovero" o come "incitamento" a fare di meglio. Ma, spronare chi è depresso dall'insuccesso per il "risultato non voluto", è spingerlo ancor più nel baratro.****

In conclusione, ogni organizzazione può essere osservata da due punti di vista qualitativamente opposti: 1) il primo è quello che considera primaria la necessità del complesso organizzato, i cui risultati rappresentano una moltiplicazione, un potenziamento, rispetto alla somma algebrica dei risultati delle azioni individuali (qui l'analisi statistica permette valutazioni oggettive, scientifiche); 2) il secondo riguarda l'azione individuale che, anche quando è disciplinata in senso organizzativo, è pur sempre espressione di singoli individui che hanno delle volontà, delle preferenze, prendono decisioni, ecc.

Questi individui non solo subiscono influenze casuali dal confronto con la realtà della lotta che è dialettica di caso e necessità, ma, al di fuori dell'organizzazione, hanno una vita personale che li influenza in maniera casuale. La conseguenza è che i risultati delle azioni individuali saranno pur sempre dipendenti da questa doppia specie di casualità. Come è soltanto il caso che, ad un certo momento, può far uscire una serie continua di "testa" o "croce" nel lancio della moneta, disattendendo la frequenza complessiva 1/2, così non bisogna stupirsi del fatto che anche nell'azione umana una determinata frequenza venga disattesa dal contributo dei singoli individui o per difetto o per eccesso, fino al punto che alcuni potranno dare, protempore, o risultati voluti o risultati non voluti.

Per la mentalità determinista i primi potranno portare sulla testa una corona d'alloro, passando sotto l'arco di trionfo; i secondi dovranno invece portare la loro croce fino al Golgota. Eppure, qui, è solo il caso che regna sovrano, completamente indifferente a ciò che il determinismo giudica successo o insuccesso per i singoli uomini!

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* "Due criteri di valutazione dell'azione umana" postato il 17/4/11.

** Da "Per la critica dell'economia politica", Marx.

*** "Osservate un pò ciò che accade all'ingresso di uno spettacolo, in un giorno di gran folla: come gli uni restino indietro, i primi indetreggino, gli ultimi siano spinti in avanti. Questa immagine è talmente appropriata, che la parola che la sintetizza si è trasferita nel linguaggio comune, e "farsi strada" vuol dire "far fortuna"." (Da "Massime e pensieri" di S.R.N. Chamfort)

**** Come dice Alcibiade nel "Timone di Atene" di Shakespare, "se la vittoria è della sopportazione, l'asino è più soldato del leone, se la saggezza sta nel soffrire, il fellone carico di catene è più saggio del magistrato".

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Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)

Post Scriptum marzo 2014  Questo post, che l'autore considera uno dei più importanti dal punto di vista storico sociologico, ha ricevuto pochissime visite, confermando che la maggioranza degli individui non accetta di partecipare alla vita sociale necessariamente, soltanto, come complesso, come classe sociale, ceto, mestiere ecc. La pretesa è di parteciparvi come individualmente importanti, prestigiosi e persino famosi. Ma questa pretesa  non tiene presente che soltanto "uno su mille ce la fa" e tutti gli altri devono "tirare la carretta". Soprattutto oggi nella fase del capitalismo senescente.

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