venerdì 12 aprile 2013

La società del Truman show per lo shopping

Il valore d'uso della merce e la funzione del marketing

La logica che guida la nostra indagine parte dalla teoria scientifica di Marx che concepisce il modo capitalistico di produzione come processo naturale indipendente dalla volontà e dalla coscienza umana. Questo processo, che domina gli uomini mediante cieche leggi statistiche, è concepito come anarchia del capitalismo. Riguardo a questa concezione, abbiamo apportato una modifica introducendo un concetto polare dialettico che nella logica di Marx era implicito o talvolta espresso ma non generalizzato. Si tratta del concetto polare caso-necessità.
   
Poiché la dialettica caso-necessità è ampiamente sviluppata nel primo volume di Teoria della conoscenza, qui ci limitiamo a ricordare che il processo naturale capitalistico, come qualsiasi altro processo naturale, è guidato da questa dialettica che si manifesta in maniera ciecamente necessaria, mediante leggi statistiche che valgono soltanto per i complessi. La cieca necessità che ne deriva è completamente indipendente dagli uomini e li domina, appunto come, cieca necessità naturale.

Ciò che vale per l'intero modo capitalistico di produzione, vale per ogni altro complesso appartenente a questo modo di produzione. Così gli uomini sono dominati contro la propria volontà da tutti i fatti, i fenomeni e le manifestazioni complessive espresse dal processo naturale del capitale: dal complesso delle macchine, delle merci, della produzione, delle guerre commerciali fino al marketing e persino alla pubblicità spettacolarizzata, per non parlare delle guerre militari.

Marx non ha mancato di sottolineare, ad esempio, l'indipendenza delle macchine dai lavoratori, sostenendo che non sono le macchine a doversi adattare agli uomini, ma sono gli uomini che devono adattarsi alle macchine, e quindi ne sono dominati. Allo stesso modo, le merci prodotte dalla mano umana diventano indipendenti dall'uomo e in una forma che lo sviluppo del mercato mondiale ha reso assoluta.

Interessante, a questo proposito, è vedere come Marx ha espresso questa indipendenza delle merci dall'uomo. Egli ha sostenuto di non aver trovato altro modo per raffigurarla che quello di "involarsi" "nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e quindi è insaparabile dalla produzione delle merci".

Se Marx si è espresso in maniera allegorica, dichiarando di non poter trovare altra forma logica di rappresentazione, noi possediamo ora questa forma logica che ci permette di interpretare il feticismo delle merci e ogni altra forma di feticismo prodotta dal capitalismo. Abbiamo già visto che il saggio del plusvalore è il fine invisibile della produzione capitalistica, dal quale deriva il saggio generale del profitto come scopo visibile e assolutamente necessario. Abbiamo anche visto che la principale minaccia alla vita del capitale complessivo è la caduta del saggio generale (medio) del profitto. La conseguenza è che sia la produzione del plusvalore sia la sua realizzazione rappresentano i mezzi assolutamente necessari per sopravvivenza del capitalismo stesso.

Tutto ciò è però indipendente dalla volontà e persino dalla coscienza degli uomini, perciò può essere compreso solo con l'aiuto della scienza. Così, le merci, appena prodotte, prendono la via del mercato, dove attendono con indifferenza d'essere acquistate e consumate. L'indifferenza della merce sia alla propria trasformazione in moneta sonante (che se questa non avviene, va male solo al capitalista) sia al modo in cui è consumata (che se questo non soddisfa, va male solo all'acquirente), accompagna la sua indipendenza e il suo potere nei confronti degli uomini, rendendoli al peggio terrorizzati per le mancate vendite e alla meno peggio insoddisfatti del consumo.

Ma tutto questo potere, questa indipendenza e indifferenza della merce è una conseguenza del fatto che essa media la produzione e la realizzazione del plusvalore, linfa vitale del capitalismo. Ma questa mediazione non segue una via predeterminabile, bensì la cieca necessità della dialettica caso-necessità; e gli uomini trafelati cercano ogni strada percorribile e praticabile che li illuda di poter dominare questa cieca necessità.

Allora, astraendo qui dalle merci che costituiscono i mezzi di produzione (macchinari) e i mezzi di distruzione (armamenti), e limitandoci alle merci della sfera dei beni di consumo sia materiale che immateriale, che cosa rappresenta il marketing se non l'attività più angosciosa e tralefata del mondo capitalistico? La cieca necessità di estendere e incrementare continuamente la vendita delle merci, per mantenere un elevato saggio del profitto, è assolutamente indipendente dalla coscienza e, soprattutto, dalla volontà degli uomini. Perciò, nessuna considerazione di natura morale, di equità distributiva, di salute mondiale, ecc. può minimamente eludere questa cieca necessità; ma, all'opposto, nessun genere di mascalzonata (che non tenga in alcun conto il benessere degli uomini, arrivando fino a calpestarne il più elementare dei diritti, quello della sopravvivenza) può garantire la realizzazione di questa cieca necessità.

Paradossalmente, moralisti e cinici si trovano accomunati dalla medesima sorte: agitarsi trafelati dietro all'indifferente e superbo dominio della merce (materiale e immateriale), che non si lascia assoggettare. Il mondo delle merci è indipendente dalla volontà e dalla coscienza degli uomini perché è dominato dalla cieca necessità della sopravvivenza del modo capitalistico di produzione, che dipende dalla tenuta del saggio del profitto, che dipende a sua volta dalla cieca necessità della produzione e della realizzazione del plusvalore, che dipende a sua volta dal mercato: tanto più oggi, che tutto è mercificato!

Infine, dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che anche l'attività del marketing, sebbene appaia come manifestazione più diretta del predeterminismo umano, è in realtà soggetta, come altre pratiche umane già analizzate, ad esempio la pratica monetaria, all'imprevedibile risultato non voluto. La dialettica caso-necessità domina il marketing come qualsiasi altra espressione del capitalismo, perciò solo in apparenza esprime la volontà degli esperti del settore; nella realtà questi, al pari degli shopper, sono dominati dal marketing per le conseguenze non volute. Lo scopo del marketing è dettato dalla cieca necessità che non si può eludere: incrementare le vendite per mantenere elevato il saggio medio del profitto; ma tutto ciò che favorisce il mercato finisce con l'incombere sugli uomini contro la loro volontà, la loro etica professionale e i loro valori morali (quando li hanno).

La falsa coscienza degli economisti borghesi, dei sociologi, degli esperti di marketing, ecc. capovolge questa realtà ciecamente necessaria, rappresentandola ora come oggettiva manifestazione di una nuova realtà globale, ora come soggettiva manipolazione dell'uomo sull'uomo, come ad esempio la politica-spettacolo nella quale si pretende vedere l'arte politica di manipolazione dei cittadini ai fini elettorali. Secondo la falsa coscienza dei pubblicisti contemporanei, ad esempio, l'attuale esaltazione dei loghi, dei simboli astratti, degli stili di vita esprime la "nuova creatività" della "globalizzazione". Così, autori come Rifkin, Klein, ecc. danno credito ai cultori del marketing sostenendo che la gente ormai è consumatrice di simboli piuttosto che di prodotti materiali; che l'immagine simbolica non rappresenta più il prodotto, ma è il prodotto che fa da tramite all'immagine simbolica.

Ma se anche fosse vero, occorrerebbe spiegare la ragione di questa trasformazione. In fin dei conti, quando si parla di consumo, si parla sempre di valore d'uso. Quindi si tratta di riflettere e a fondo sul valore d'uso simbolico: ogni oggetto può assumere un personale valore simbolico, anche superiore al suo valore economico. Non c'è neppure bisogno di fare esempi, perché ciascuno possiede oggetti a cui tiene solo per il loro valore simbolico. Essendo però un qualcosa che riguarda i singoli individui, in genere questo valore simbolico di un oggetto appartiene alla sfera privata, personale (propria del caso); in altre parole, non può essere di norma utilizzato per la vendita delle merci.

Quando si considera una merce qualsiasi, essa presenta due forme di valore, 1) il valore d'uso che rappresenta la qualità materiali specifiche dell'oggetto, 2) il valore di scambio che rappresenta la qualità immateriale, astratta, grazie alla quale l'oggetto può essere scambiato con un equivalente: la moneta. Nella sfera dei beni di consumo, lo scambio permette all'acquirente di consumare l'oggetto acquistato, ovvero le sue qualità materiali.

Ma c'è consumo e consumo. Un bambino consuma il suo giocattolo distruggendolo, per vedere come è fatto. Un adulto fa collezione di giocattoli d'ogni epoca per un raffinato piacere da collezionista. Un povero affamato divora il suo cibo. Un ricco pasciuto delizia il suo palato con ghiottonerie. Insomma, il "consumo", soprattutto  nella società dell'opulenza non può essere ridotto al semplice logoramento di un oggetto e delle sue qualità materiali. Così, sebbene un paio di scarpe debba necessariamente consumarsi con l'uso, il possesso di molteplici paia di scarpe permette un consumo meno rozzo e più raffinato, nel quale il valore d'uso simbolico può avere la sua parte e persino soppiantare la parte del logorio, come nel caso del collezionismo.

Se, quindi, il consumo riguarda il valore d'uso, è anche vero che il valore d'uso di un oggetto non può essere ridotto alla semplice qualità materiale soggetta al consumo che logora, corrompe e danneggia l'oggetto stesso. Questa conclusione ci permette di collegare l'importanza attribuita oggi ai valori simbolici (come i marchi e gli stili di vita) relativi al valore d'uso delle merci.

Tenendo presente che una merce ha un valore di scambio che non ha nulla a che fare con il suo valore d'uso, ovvero con le sue qualità materiali oppure simboliche, è però un fatto che, per realizzare il suo valore di scambio, questa merce deve attirare l'acquirente e può farlo soltanto mostrando senza falsi pudori il suo valore d'uso, ovvero le sue qualità materiali e simboliche.

Naturalmente, a prima vista, una merce può anche sedurre il compratore mostrando più valore d'uso di quello che essa realmente ha (perché alla lunga si dimostra di scarsa qualità materiale, o perché risulta scomoda da indossare, o scabrosa da maneggiare, ecc). Quindi è latente nel concetto di valore d'uso messo in mostra da una merce la possibilità di possedere qualcosa di più o di meno di ciò che un comune mortale può immaginare. Non c'è quindi da stupirsi troppo se il marketing, fin dalle sue origini, abbia approfittato di questo carattere latente del valore d'uso della merce.

Come sappiamo, negli anni Venti, in America, il marketing ha introdotto nel valore d'uso della merce la "moda" del prodotto di fabbrica con tanto di marchio, e nel contempo ha tolto al valore d'uso del prodotto fatto in casa ogni decoro e dignità. Togliere e aggiungere al valore d'uso (consumo) di un prodotto una qualità simbolica nuova come la "moda" del prodotto di fabbrica è stato il colpo da maestro del marketing USA negli anni Venti, apprendista stregone della crisi del '29. Al comune valore d'uso della merce il marketing ha introdotto di soppiatto un fittizio, illusorio valore simbolico che ha avuto come conseguenza un incremento delle vendite. Ovviamente un simile imbroglio non avrebbe potuto imporsi da solo, perciò doveva essere introdotto mediante una martellante campagna pubblicitaria che producesse un "consenso di massa".

Se confrontiamo l'epoca attuale con l'America degli anni Venti, possiamo individuare una differenza di questo genere: mentre allora il marketing riuscì a introdurre un unico valore d'uso simbolico fittizio, valevole per tutte le merci prodotte senza distinzione, oggi il marketing si permette di introdurre valori d'uso simbolici per ciascun tipo di merci. Così, se negli anni '20, in America, esisteva in pratica un solo stile di vita, quello alla moda, oggi esistono molteplici stili di vita quanti sono i loghi, i marchi che si autodefiniscono, appunto, stili di vita. Se ieri il "consumatore pagante" era menato per il naso dall'imbroglio della moda, oggi lo shopper è menato per il naso dai molteplici imbrogli dei molteplici stili di vita.

Ciò significa soltanto che il marketing, crescendo, ha potuto estendere a tutti i prodotti di fabbrica una quota di valore d'uso in più puramente fittizio, dimostrando così di aver raggiunto la sua piena maturazione e il suo pieno compimento, grazie al contributo della società dello spettacolo. Per poter convincere le masse della società occidentale che calzare Nike significa "calzare" uno "stile di vita" del quale non si può fare a meno, e che vestire, guidare, abitare, mangiare, ecc. questo o quello, significa altrettanti "stili di vita" dei quali non si può fare a meno, era necessaria una potenza pubblicitaria inimmaginabile persino un ventennio fa. Questa potenza è assicurata dalla spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita sociale che contraddistingue l'era della "globalizzazione". E' dunque venuto il momento di indagare la potenza dello "spettacolo".

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Tratto da "La fase senescente del capitalismo chiamata globalizzazione" (2005-2007).

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