sabato 18 gennaio 2014

Il giusto mezzo di Aristotele e la debolezza umana di fronte all'improvviso caso imprevedibile

E' noto il giusto mezzo aristotelico tra due estremi. Ad esempio: tra viltà e temerarietà c'è il coraggio, tra avarizia e prodigalità c'è la liberalità, tra ignavia e bramosia c'è l'ambizione, tra umiltà e orgoglio c'è la modestia, ecc. ecc. E il risultato di una autocorrezione è spesso il passaggio da un estremo all'altro, perché, come dice Aristotele: "Chi è cosciente di trovarsi a un estremo chiamerà virtù, non la posizione media, ma l'estremo opposto". E' per questa ragione che spesso il coraggioso può essere considerato un temerario dal codardo e un codardo dal temerario.

Aristotele fornisce una lunga descrizione, quasi un catalogo dell'uomo del "giusto mezzo". Ma per il nostro scopo possiamo limitarci alla seguente conclusione: "Egli è il migliore amico di se stesso ed ha il piacere di stare solo, mentre la persona priva di virtù o di capacità è il peggior nemico di se stesso e teme la solitudine". Qui troviamo, infatti, un elemento fondamentale che ci aiuterà a capire e risolvere l'intera questione: si tratta del termine "capacità".

Riprendiamo, come esempio, i due estremi: viltà e temerarietà, il cui giusto mezzo dovrebbe mostrarsi, per Aristotele, come coraggio. Innanzi tutto, può  accadere che gli estremi si rovescino l'uno nell'altro: così il vile si fa temerario (magari solo per mostrare a se stesso di poter dominare la paura), e viceversa il temerario diventa vile (magari dopo qualche esperienza molto paurosa finita male). Ora, su che cosa possiamo fare affidamento per sottrarre i due estremi al caso della diversa costituzione psicofisica o al caso dei diversi accidenti della vita? 

C'è qualcosa che accomuna gli estremi senza dipendere dalle contingenze casuali? La risposta è affermativa: in comune gli estremi hanno la risposta stereotipata a eventi che non sono conosciuti o per i quali non si ha alcuna esperienza nel fronteggiarli. Ad esempio, chi non conosce l'essenza di un pericolo può vederlo dappertutto ed apparire vile o non vederlo affatto ed apparire temerario (per non parlare delle diverse sfumature di viltà e temerarietà).

Ma se il pericolo è conosciuto, allora non è più una questione di viltà o temerarietà e neppure di coraggio. Chi non sa nulla facilmente oscillerà tra due estremi, con diverse sfumature; e comunque ogni oscillazione dipenderà piuttosto da circostanze casuali che favoriscono ora questo ora quell'altro atteggiamento. Così, quando tutto sembra rivoltarsi contro, è facile scivolare nella codardia o nell'eccesso di prudenza; quando, invece, si ha il vento in poppa e tutto fila liscio, sensa intoppi e pericoli, è facile diventare temerari.

Ma come sono contingenti e di breve durata queste cose! Come spesso si rovesciano l'una nell'altra! Così che il codardo ritrova talvolta un pò di quel coraggio che il temerario incallito, viceversa, comincia a perdere. Naturalmente stiamo qui parlando di chi si affida al caso delle circostanze non volute, ovvero di chi Aristotele giudicava privo di virtù e capacità.

Per arrivare, invece, alla soluzione, ossia per comprendere la soluzione dialettica, facciamo un'altra deviazione: prendiamo un esempio in apparenza edificante: il caso di interventi di salvataggio di persone in pericolo, anche a rischio della propria vita; cioè, quando il salvataggio è semplicemente un'azione umanitaria, attuata da persone comuni che possono solo improvvisare.

Nell'improvvisazione, c'è chi si getta in soccorso senza neppure riflettere, spesso peggiorando la situazione perché rischia la propria vita e quella altrui. Quindi è temerario perché non conosce per inesperienza né la situazione nella quale interviene né il proprio comportamento in tale situazione. Quando, invece, il salvataggio è attuato da esperti, competenti, ad esempio, della protezione civile, allora non si tratta più di temerarietà e neppure soltanto di coraggio, ma di capacità, di conoscenza, di esperienza in un'attività concepita e svolta come mestiere.

Allora il punto fondamentale, la soluzione, consiste in ciò che la conoscenza e l'esperienza permettono quella capacità di pensare e riflettere rapidamente in frangenti pericolosi, in quegli stessi frangenti che riducono, invece, la normale attività cerebrale degli inesperti: ed è questo il terreno sul quale l'uomo comune, privo di conoscenza ed esperienza, può oscillare tra i due estremi della viltà e della temerarietà, con rare dimostrazioni di coraggio se così può essere chiamato (come il coraggio dettato dalla disperazione).

Insomma, è solo in situazioni sconosciute, gravi, che limitano la capacità di giudizio e riflessione, che favoriscono, perciò soltanto, interventi a vanvera -oppure nella vita di tutti i giorni, nella routine rotta improvvisamente da eventi imprevedibili e impensabili- che le persone entrano in quel "disordine" imprevisto di eventi che favorisce reazioni vili o temerarie, manifestazioni di esistenze estreme, per le quali non esistono "rette vie" intermedie, trattandosi solo di forme di manifestazione della debolezza umana individuale di fronte all'improvviso, drammatico, caso imprevedibile.  

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