sabato 27 maggio 2017

Premessa al pensiero moderno: il Caso Galileo e il ruolo della teologia*

Qui* consideremo il "Caso Galileo" più come premessa al ruolo epistemologico giocato dalla teologia che per il contributo di Galileo Galilei alla teoria della conoscenza; per questo motivo lo premettiamo ai capitoli che seguiranno. La tesi è la seguente: la teologia ha creato il "Caso Galileo" come caso esemplare, che fosse di monito a tutti gli scienziati col seguente messaggio: la scienza non può e non deve presumere di poter conoscere la realtà della natura, creazione della imperscrutabile e incommensurabile intelligenza divina; la scienza può e deve limitarsi a parlare, per supposizione, mediante ipotesi convenzionali.

Conferma questa tesi lo scienziato cristiano Duhem, per il quale la principale deroga da concezioni della teoria fisica accettabili per la teologia è il realismo. Così, secondo lui, giustamente Osiander corregge Copernico che afferma il moto reale della Terra attorno al Sole, e giustamente il cardinal Bellarmino critica Galileo affermando che sostenere il moto reale della Terra attorno al Sole "è una cosa molto pericolosa" che "rischia di nuocere alla fede".

Secondo Ficant**: "L'argomentazione Osiander-Bellarmino è chiara: il sistema di Copernico è una costruzione geometrica, alla stregua degli eccentrici e degli epicicli, né più né meno vera, benché senza dubbio più comoda". Ma Duhem va oltre, quando afferma: "Si è costretti ... a riconoscere e dichiarare oggi che la logica era dalla parte di Osiander e Bellarmino e di Urbano VIII, non dalla parte di Keplero e Galileo; che quelli avevano compreso l'esatta portata del metodo sperimentale e che a questo proposito questi si erano sbagliati". Così, conclude Ficant, Duhem può definire "realismo impenitente" quello di Galileo e "realismo intransigente" quello del Santo Uffizio.

Ma se Duhem può affermare questo, senza timore di smentita, è perché lo sviluppo successivo della fisica è avvenuto nella direzione del convenzionalismo, non del realismo. Così, la "ragione" di Duhem altro non è che la ragione del torto dei successori di Galileo, i quali hanno recepito il monito della condanna del realismo galileiano e hanno chinato la testa per non nuocere alla fede e per non incorrere nel biasimo della teologia.

Nel prossimo volume riguardante la Fisica, riprenderemo il "Caso Galileo" dal punto di vista di quella particolare scienza della natura. Qui, in Teoria della conoscenza, invece, ci limitiamo all'aspetto epistemologico. Ora, da questo punto di vista, è Duhem che, senza reticenze, ha chiarito i termini del contrasto tra "realismo galileiano" e "convenzionalismo teologico", cercando nel contempo di "salvare" Galileo col seguente escamotage: "A dispetto di Keplero e di Galileo -egli scrive- crediamo oggi, con Osiander e Bellarmino, che le ipotesi della fisica non sono che artifici matematici destinati a salvare i fenomeni; ma grazie a Keplero e Galileo, domandiamo loro di salvare insieme tutti i fenomeni dell'Universo inanimato".

Ficant osserva che la frase di Duhem è contraddittoria. L'apparente contraddizione sarà però il programma della fisica relativistica che pretenderà tirare anche Galileo dentro la corrente del convenzionalismo. Contraddittoria è, invece, la conclusione di Ficant sul seguente dilemma: oggi dobbiamo apprezzare Galileo per il suo realismo, oppure dobbiamo criticarlo perché il fondamento della fisica attuale è il convenzionalismo fittizio? La risposta non è convincente: "La storia della scienza deve apprezzare (!) la scelta epistemologica di Galileo; essa può, con Duhem, condannarlo (!), in nome di una filosofia formalista e convenzionalista della scienza. Se ne sono viste le implicazioni. Infatti, se la storia della scienza sembra dare a Duhem la conferma della sua epistemologia, il fatto è che, esattamente al contrario (!), questa ha fissato fin dall'inizio il suo programma apologetico che quella dovrà riempire (?!)".

Questo non è altro che un inutile arrampicarsi sugli specchi a riprova che l'epistemologia convenzionalista, che nulla ha a che vedere con il realismo galileiano, si è imposta sulla vera teoria della conoscenza, la quale pretende a ragione di riflettere la realtà della natura. Insomma, non c'è sottigliezza o escamotage che possa mascherare la sostanza dello scontro che ha prodotto il "Caso Galileo": ovvero l'opposizione epistemologica tra realtà e finzione della conoscenza. Ma ciò che ha costituito il fondamento logico di questo scontro è stato il principio teologico della inconoscibilità di una natura creata da Dio: per la teologia, la scienza umana non è in grado di conoscere il prodotto della mente divina suprema e imperscrutabile.

La conclusione che dobbiamo trarne è di importanza fondamentale: se si accetta come reale la creazione divina, allora i teologi (realisti intransigenti) hanno perfettamente ragione a sostenere l'inconoscibilità della natura; però, in questo modo, la natura  rimarrà sempre un mistero per tutti, non solo per la scienza ma anche per la teologia (convenzionalista per compromesso). Di conseguenza, il convenzionalismo, la finzione utile, ecc. continueranno a dominare la mente degli uomini di scienza e di religione. E questo è ciò che è accaduto non solo a Galileo, ma anche a Cartesio, Leibniz, ecc.: dominati da una epistemologia teologica convenzionalista, non hanno potuto attuare un reale programma scientifico.

Ora, ritenere che fin dall'inizio il "Caso Galileo" sia stato il prodotto di questa consapevolezza, che potremmo anche esprimere in forma di equazione: creazione divina = inconoscibilità della natura - realismo = convenzionalismo, significherebbe fare troppo credito all'intelligenza disinteressata dei personaggi coinvolti. Ciò che originariamente preoccupò i Padri della Chiesa fu il pericolo che una eventuale concezione realistica della scienza, scoprendo le insensatezze della fisica di Aristotele, avrebbe potuto smentire le Sante Scritture, rivoluzionandone i dogmi fondati sulla concezione aristotelica. Potremmo, perciò, dire che l'"ipoteticità" proposta da Bellarmino rappresentò una scelta difensiva della Chiesa romana.

Ma questa preoccupazione non nasce con il "Caso Galileo": la teologia, da sempre, si è dovuta difendere da ogni forma di realismo, arrivando a concepire due forme di "ipoteticità". Come sostiene Morpurgo-Tagliabue (M-T)***: "Una forma è quella che diremo logica. Non deriva direttamente da Aristotele, ma una mente aristotelica come quella di S.Tommaso aveva potuto formularla legittimamente". "Le ipotesi... non sono false ma possibili, probabili. La loro incertezza è conforme alla loro natura dimostrativa per accidens, dotata di necessità ipotetica..." "Vi è una differenza tra questo concetto dell'hipotetic e quello che abbiamo conosciuto in certe estreme formulazioni dei neoplatonici. Costoro giungevano talvolta a parlare di ipotesi fittizie, false (Proclo), ... puri espedienti pragmatici, "artifici lontani da ogni verosimiglianza"."

Secondo M-T, il luterano Osiander avrebbe riesumato questa seconda forma coerentemente con le invettive di Lutero contro la superbia della ragione. Questo concetto di ipotetico fittizio non sarebbe invece appartenuto ai cattolici, i quali, inizialmente, non si opposero a Copernico: "Nel campo dei cattolici cioè nessuno stimò pericolosa la dottrina eliocentrica". "E' soltanto con la Controriforma -scrive M-T- che mutano le cose. Carattere della controriforma fu di adottare non poche abitudini della Riforma: il dogmatismo, l'intolleranza, non ultimo l'irrazionalismo. Perciò riesumò quel concetto neoplatonico dell'Hypothesis, che si prestava a castigare la presunzione della ragione".

Scrive ancora M-T: "L'argomento della ipoteticità, presentato come un argomento di compromesso, fa la sua comparsa per la prima volta nella bocca del Cardinal Bellarmino", il quale, nella lettera a Foscarini, concludeva: "ma voler affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in se stesso senza correre dall'Oriente all'Occidente, e che la Terra stia nel 3° ciclo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa pericolosa, non solo d'irritare tutti i filosofi e Theologi scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede col rendere false le Scritture Sante..."

Insomma, una concezione realistica della fisica avrebbe reso false le "Scritture Sante", che avrebbero  dovuto essere rivedute e reinterpretate per essere adattate alla nuova  concezione copernicana, come suggerì il Foscarini. Ma una simile risoluzione avrebbe esposto la Chiesa di Roma al rischio "d'irritare i filosofi e Theologi scolastici", spingendoli nelle braccia del luteranesimo dogmatico e intransigente.

A questo punto è irrilevante sottilizzare sul fatto che Bellarmino interpretò le ipotesi di Galileo secondo S.Tommaso, ossia non come pura finzione ma come ipotesi probabile, mentre fu la Congregazione dell'Indice a sostenere la tesi neoplatonica della finzione, perché, alla fine, la conclusione fu che Bellarmino e l'Inquisizione considerarono le ipotesi galileiane contrarie alle Sante Scritture. Da ciò M-T conclude: "In tale modo" "il possibile diventava impossibile, il probabile improbabile, il verosimile falso. Il criterio del confronto con le S. Scritture, già adoperato da M. Lutero, diventò un principio di autorità e di intolleranza della Controrifroma cattolica, e non mancò di produrre effetti anche in sede epistemologica".

Perché non possiamo essere d'accordo con questa conclusione? Perché scambia tra loro le parti, ponendo l'intolleranza come antecedente e l'aspetto epistemologico come conseguente. La realtà è esattamente l'opposto: da principio c'è la concezione epistemologica della impossibilità della conoscenza reale, poi, come conseguenza inevitabile, il compromesso di Bellarmino, infine l'intolleranza teologica contro il tentativo galileiano di svelare la realtà del Sistema solare.

Duhem che, come scienziato cristiano, si è sentito parte in causa sul "Caso Galileo", ha colto perfettamente questa realtà: la concezione realistica non poteva essere accettata dalla Chiesa cristiana (come abbiamo visto, né da quella protestante, né da quella cattolica). Che poi questo rifiuto teologico della reale conoscenza abbia prodotto due forme: quella delle ipotesi possibili o probabili e quella delle ipotesi fittizie o false, ciò rappresenta qualcosa di secondario, puramente casuale e arbitrario, che, proprio per questo, ha complicato, nei secoli successivi, i cosiddetti paradigmi della scienza della natura e soprattutto della fisica.

Ma, in definitiva, entrambe le forme di "ipoteticità" appartengono di diritto a quel convenzionalismo fittizio che domina le scienza della natura da lungo tempo, e che si è sempre opposto con intransigenza a ogni pur timido tentativo di conoscenza reale dei processi e dei fenomeni naturali; e ciò perché, come abbiamo visto in Aristotele, chi crede nella creazione divina, deve necessariamente ammettere di non possedere la "scienza divina e veneranda".

Allora, se la concezione della ipoteticità (probabile o fittizia che dir si voglia) ha contribuito a contrastare le verità assolute e apodittiche, ha anche favorito quel relativismo possibilista che contrasta non solo la certezza scientifica ma anche il dogma teologico. Traducendo tutto questo nella logica della dialettica caso-necessità risultano una serie di contraddizioni.

Come appureremo in questa sezione, la verità  assoluta  -che il determinismo riduzionistico ha fondato sul principio di causalità di derivazione teologica- ha rappresentato quella necessità priva di fondamento reale che verrà negata dal convenzionalismo ipotetico anch'esso di derivazione teologica; a sua volta, quest'ultimo finirà nell'indeterminismo fondato sul caso probabilistico, privo di necessità, ostile a qualsiasi verità assoluta, compreso il dogma teologico. Tutto ciò ha prodotto un'immensa contraddizione che ancora oggi riemerge nel dibattito, assai confuso, tra scienza e religione.

Ma la principale contraddizione che i teologi non potevano neppure immaginare al tempo di Bellarmino, e della quale non hanno smesso di subire le conseguenze non avendone chiara coscienza, è che, se la natura è opera della creazione divina, nessuno potrà mai conoscerla, né lo scienziato né il teologo. Allora, questa impossibilità, mitigata e resa più accettabile dalla possibilità di una pseudo scienza convenzionale e fittizia, doveva inevitabilmente sfociare in quel relativismo che da tempo contraddice la stessa teologia.

Insomma, le contraddizioni sollevate dal "Caso Galileo" hanno creato una matassa impossibile da dipanare sia per i filosofi e gli scienziati che per i teologi. Anche la revisione su Galileo, voluta da Papa Woitila conferma questa realtà. Se leggiamo i contributi pubblicati in "Galileo Galilei 350 anni di storia (1633-1983) STUDI E RICERCHE a cura di Mons. Paul Poupard con una dichiarazione di Giovanni Paolo II", non si trova alcuna soluzione unitaria. Ciò che, invece, stupisce anche a una lettura superficiale, è il fatto che papa Woitila sia arrivato a sostenere che Galileo "ebbe molto a soffrire -non possiamo nasconderlo- da parte di uomini e organismi di Chiesa" e a deplorare questo fatto, attribuendolo a quei cristiani che non hanno "sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza (!)".

Stupisce questo riconoscimento in linea di principio, perché avviene nei confronti di una scienza che oggi è più convenzionale e fittizia del compromesso proposto, ieri, da Osiander-Bellarmino. Inoltre è un riconoscimento che si porta dietro la principale contraddizione, come possiamo rilevare dalle conclusioni dell'introduzione di Mons Poupard: "Desidero riconfermare le affermazioni conciliari sull'autonomia della scienza nella sua funzione della ricerca della verità scritta nel creato dal dito di Dio (!) ...". Ma se la verità è scritta nel creato dal dito di Dio siamo punto da capo: chi è in grado di conoscere questa verità? Nessuno! Così i teologi potranno sempre arrogarsi il diritto di respingere verità che contrastino la loro idea ("figlia del tempo") di perfezione divina. Perciò, la scienza che, come dimostreremo in seguito, è stata partorita dalla teologia, non potrà fare altro che rimanere assoggettata alla Santa Madre Chiesa.

Nelle conclusioni di Woityla si scopre, però, un'altra ragione più attuale che ha spinto la Chiesa di Roma a recuperare Galileo: "La scienza pura è un bene, degno di essere amato, perché è conoscenza e quindi perfezione (!) dell'uomo nella sua intelligenza; essa deve essere onorata per se stessa, ancor prima delle sue applicazioni tecniche..." Come si vede Woityla non si preoccupa più della questione epistemologica che tormentò Urbano VIII, si preoccupa delle aplicazioni tecniche che minacciano di sottomettere la scienza al potere economico e politico del capitale. Infatti aggiunge: "La ricerca fondamentale dev'essere libera di fronte ai poteri politico ed economico, che debbono cooperare al suo sviluppo, senza intralciarla nella sua creatività o aggiogarla ai suoi scopi. La verità scientifica, infatti, è, come ogni altra verità, debitrice soltanto a se stessa alla suprema verità che è Dio, creatore dell'uomo e di tutte le cose".

Insomma, negli anni '80, Woitila pretese sottrarre la scienza al dominio del Capitale, per rafforzare il dominio della teologia. Ma, non potendo realmente sottrarre la scienza applicata alla cieca necessità del profitto, si accontentò di sottrarre la scienza pura, a conferma del, o meglio ribadendo il, vecchio patto: a Dio la teoria e a Mammona la pratica della scienza.

Quando, infine, il Concilio Vaticano II ha dichiarato: "La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo norme morali (!), non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché la realtà professa e la realtà della fede hanno origini dal medesimo Iddio", ribadì, contraddittoriamente, il primato della teologia sulla teoria scientifica..

A questo punto, ci si potrebbe chiedere: non saranno stati gli attuali eccessi del pluralismo relativistico dell'Occidente a provocare la reazione "realistica" della Chiesa Romana? La recente crociata del nuovo Pontefice, Benedetto XVI, contro il pluralismo relativistico, scientifico, intellettuale, morale, politico e anche religioso, dell'epoca della Globalizzazione, sembrerebbe dare una risposta affermativa. Ma per la teoria della Conoscenza è inessenziale.

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*Questi sono i titoli, rispettivamente, della Seconda sezione e della sua Introduzione, al mio primo volume "La dialettica caso necessità nella teoria della conoscenza" (1993-2002). Di questo volume ho postato dal 2010 ad oggi i principali paragrafi, ma lo ammetto -a mio disdoro- che mi è mancato sempre l'ardire di postare il "Caso Galileo". Ma, ormai, troppo vecchio per avere qualcosa da perdere o da guadagnare dalla vita, rompo ogni indugio. 

** Michel Pecheux, Michel Ficant "Sulla storia della scienza" (1974)

***Morpurgo-tagliabue "I processi di Galileo e l'epistemologia" (1963)

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Tratto da "La dialettica caso-necessità Vol 1° Teoria della conoscenza" (1993-2002)

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