Citando l'economista Ricardo, Marx ha sottolineato che nel capitalismo la ricchezza è tutto e l'uomo è nulla. Dicendo che la ricchezza è tutto, si dice che ciò che s'impone necessariamente è l'interesse economico, il quale si manifesta come interesse specifico delle due classi che, rispettivamente, producono e si spartiscono la ricchezza: la classe maggioritaria che possiede la forza lavoro per produrre la ricchezza, senza usufruirne, e la classe minoritaria che possiede i mezzi di produzione e, con questi, il diritto di usufruire della ricchezza prodotta.
Nonostante questa opposizione antagonista di interessi, la classe maggioritaria sfruttata e quella minoritaria che sfrutta sono legate al medesimo destino: l'una ha bisogno dell'altra. Dunque, entrambe contano come protagoniste, personificando la necessità storica del capitalismo. Chi, invece, non conta è l'individuo, perché, sia esso sfruttato o sfruttatore, è dominato dal caso.
Allora, si può dire: nel capitalismo l'individuo è nulla perché la ricchezza complessiva è tutto. E, quindi, "tutto" è l'interesse della classi in relazione alla produzione e alla distribuzione della ricchezza. Dunque, anche qui ritroviamo il ruolo di comparsa dell'individuo, in quanto sottoposto indirettamente alla cieca necessità che si manifesta a lui come puro e semplice accidente casuale. Ancora una volta -e non poteva essere altrimenti, se si considera che il modo di produzione e di distribuzione capitalistico va considerato alla stregua di un processo naturale- la necessità del complesso si manifesta nell'individuo come caso, e, viceversa, l'azione casuale di molteplici singoli individui si manifesta nel complesso, ossia nelle classi, come cieca necessità.
Se questa è la condizione reale dell'individuo nel capitalismo, non meno reale è stato il caso individuale nei precedenti modi di produzione, sebbene in alcuni di essi l'individuo si trovasse, fin dalla nascita, determinato o come schiavo o come padrone, o come servo della gleba o come nobile. Ma questa determinata appartenenza a una classe ha sempre avuto un fondamento casuale, in primo luogo nella nascita, e poi, in seguito, in tutte quelle circostanze mutevoli della vita individuale che potevano trasformare gli schiavi in ricchi liberti, ecc.
Ora, che cosa ha impedito per tanti secoli di comprendere la reale dialettica caso-necessità nei processi naturali e sociali? Proprio il fatto che la comprensione di questa dialettica avrebbe costretto a stabilire, una volta per tutte, che l'individuo singolo appare in questi processi soltanto come una comparsa casuale che conta soltanto come atomo accidentale di un complesso necessario. Ma gli imperatori, i re, i papi e i nobili, i letterati, i filosofi, i teologi, gli scienziati, ecc. non potevano accettare di rappresentare, essi stessi, presi singolarmente, dei casi e, presi complessivamente, una cieca necessità.
Eppure la storia millenaria dell'uomo mostra quanto sia aleatorio, accidentale e mutevole, in una parola, casuale il destino di ogni singolo individuo, sia egli un semplice servo della gleba o un grande imperatore. Ma il compito di meditare sui rapporti naturali e sociali è sempre stato affidato a una piccola comunità di individui, gli studiosi; e, come abbiamo già considerato nel primo volume di "Teoria della conoscenza", i singoli studiosi, divenuti tali in seguito a circostanze casuali -e la cui produzione teorica è dipesa anch'essa da una miriade di circostanze casuali-, hanno sempre creduto, al contrario, di poggiare saldamente sulla solida base della necessità.
Del resto. che cosa avrebbero potuto fare? Riconoscere il proprio modesto ruolo di comparse sottoposte ai capricci del caso? E riconoscere che la stessa cosa doveva valere anche per i re, gli imperatori, i papi che li finanziavano? Ciò non è accaduto e non poteva accadere. Non poteva accadere anche perché sarebbe stato come affermare che la sorte dei singoli individui di una classe, di un popolo, ecc., in relazione alla spartizione dei beni della produzione, dei bottini di guerra, ecc, era affidata soltanto ai capricci del caso, alla stessa maniera del gioco dei dadi.
Nel feudalesimo, dove ognuno nasceva già determinato o come servo della gleba, garzone, ecc. o come feudatario, nobile, ecclesiastico ecc., è il momento della nascita che può essere equiparato al lancio dei dadi: se esce servo della gleba, la giocata è persa e non c'è altra partita da giocare se non quella della fuga, piena di rischi. Nel capitalismo, invece, soprattutto delle origini, il momento della nascita poteva far vincere o perdere la prima giocata, ma poi non era detto che la sorte non potesse trasformare il figlio di un operaio in un capitalista, sia pure come rarità statistica.
Il soldato, che, dall'antichità al medioevo, ha spesso giocato ai dadi la sua paga, esprimeva in tal modo l'idea che se il caso lo aveva posto in quella miserabile situazione, potesse anche trarlo fuori. Dal caso pretendeva almeno una chance. Ma poi, paradossalmente, si lasciava sedurre dall'idea di poter imbrigliare, dominare il caso, vuoi con abilità, vuoi per mezzo di trucchi. Ed è su questa illusione che è sorta la teoria delle probabilità, come tentativo di dominare il caso.
Ma con la stessa illusione, ancor prima, a partire almeno da Epicuro, si è immaginato il caso come occasione di libertà, in opposizione alla ferrea necessità deterministica democritea, fondata sulla connessione di causa-effetto. Se la connessione di causa ed effetto ha dominato per secoli le scienze naturali, la connessione caso-libertà ha dominato da tempo immemorabile le cosiddette scienze umanistiche, la letteratura e la storia umana, dove l'osservazione di casi favorevoli (occasioni accidentali che permettevano ad alcuni di liberarsi dalla miseria, di progredire socialmente, di divenire liberti arrichiti, favoriti di nobili e re, infine, di accumulare fortune solcando mari e oceani, ecc.) ha fatto sì che il caso apparisse persino una manna liberatoria.
Ma, al pari della connessione deterministica democritea di causa-effetto, la connessione indeterministica epicurea di caso-libertà è sempre stata collegata al merito personale, all'idea di abilità e astuzia personale. Perciò i favori della fortuna sono sempre apparsi meritori. Se di necessità virtù, anche di caso virtù. Allora, se nella concezione deterministica l'agire del singolo individuo è responsabile delle conseguenze, nella concezione indeterministica si ammette la circostanza favorevole come puramente casuale, ma si continua ad attribuire le conseguenze dell'agire al singolo individuo che, per così dire, sa agguantare la fortuna. Nella prima concezione l'individuo domina la necessità, nella seconda imbriglia il caso.
Entrambe, concezioni unilaterali, affermano il protagonismo dell'individuo o non vi rinunciano. Ma per affermare il protagonismo individuale devono tacere sul principale contrassegno della dialettica caso-necessità, e cioè che solo pochi fortunati, le eccezioni statistiche, sono i favoriti dalla sorte, mentre la maggior parte ci rimette o sta solo a guardare.
Se la storia è sempre stata scritta come storia di re, imperatori, ecc., la letteratura è sempre stata narrazione di vicende riguardanti individui resi protagonisti straordinari, eccezionali, soltanto dal caso. Solo pochi scrittori, e tra questi il grande -stavo per dire geniale- Balzac, hanno saputo rappresentare individui medi, tipici rappresentanti di classi sociali, con i loro interessi fondamentali, le cui individualità e i cui interessi personali entrano in collisione con gli interessi di altri individui, producendo risultati da nessuno voluti, ancora una volta casuali, che conducono a ogni forma di coscienza e di esistenza, fino agli estremi opposti della mostruosità e dell'eroismo.
Soltanto in questo tipo di trattazione delle singole vicende umane, la cieca necessità delle classi e l'imprevedibile caso individuale appaiono per quello che sono: i due poli della dialettica caso-necessità che le società umane, fino ad oggi, non hanno potuto o saputo fare altro che subire, mascherare e persino abbellire!
Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)
Nonostante questa opposizione antagonista di interessi, la classe maggioritaria sfruttata e quella minoritaria che sfrutta sono legate al medesimo destino: l'una ha bisogno dell'altra. Dunque, entrambe contano come protagoniste, personificando la necessità storica del capitalismo. Chi, invece, non conta è l'individuo, perché, sia esso sfruttato o sfruttatore, è dominato dal caso.
Allora, si può dire: nel capitalismo l'individuo è nulla perché la ricchezza complessiva è tutto. E, quindi, "tutto" è l'interesse della classi in relazione alla produzione e alla distribuzione della ricchezza. Dunque, anche qui ritroviamo il ruolo di comparsa dell'individuo, in quanto sottoposto indirettamente alla cieca necessità che si manifesta a lui come puro e semplice accidente casuale. Ancora una volta -e non poteva essere altrimenti, se si considera che il modo di produzione e di distribuzione capitalistico va considerato alla stregua di un processo naturale- la necessità del complesso si manifesta nell'individuo come caso, e, viceversa, l'azione casuale di molteplici singoli individui si manifesta nel complesso, ossia nelle classi, come cieca necessità.
Se questa è la condizione reale dell'individuo nel capitalismo, non meno reale è stato il caso individuale nei precedenti modi di produzione, sebbene in alcuni di essi l'individuo si trovasse, fin dalla nascita, determinato o come schiavo o come padrone, o come servo della gleba o come nobile. Ma questa determinata appartenenza a una classe ha sempre avuto un fondamento casuale, in primo luogo nella nascita, e poi, in seguito, in tutte quelle circostanze mutevoli della vita individuale che potevano trasformare gli schiavi in ricchi liberti, ecc.
Ora, che cosa ha impedito per tanti secoli di comprendere la reale dialettica caso-necessità nei processi naturali e sociali? Proprio il fatto che la comprensione di questa dialettica avrebbe costretto a stabilire, una volta per tutte, che l'individuo singolo appare in questi processi soltanto come una comparsa casuale che conta soltanto come atomo accidentale di un complesso necessario. Ma gli imperatori, i re, i papi e i nobili, i letterati, i filosofi, i teologi, gli scienziati, ecc. non potevano accettare di rappresentare, essi stessi, presi singolarmente, dei casi e, presi complessivamente, una cieca necessità.
Eppure la storia millenaria dell'uomo mostra quanto sia aleatorio, accidentale e mutevole, in una parola, casuale il destino di ogni singolo individuo, sia egli un semplice servo della gleba o un grande imperatore. Ma il compito di meditare sui rapporti naturali e sociali è sempre stato affidato a una piccola comunità di individui, gli studiosi; e, come abbiamo già considerato nel primo volume di "Teoria della conoscenza", i singoli studiosi, divenuti tali in seguito a circostanze casuali -e la cui produzione teorica è dipesa anch'essa da una miriade di circostanze casuali-, hanno sempre creduto, al contrario, di poggiare saldamente sulla solida base della necessità.
Del resto. che cosa avrebbero potuto fare? Riconoscere il proprio modesto ruolo di comparse sottoposte ai capricci del caso? E riconoscere che la stessa cosa doveva valere anche per i re, gli imperatori, i papi che li finanziavano? Ciò non è accaduto e non poteva accadere. Non poteva accadere anche perché sarebbe stato come affermare che la sorte dei singoli individui di una classe, di un popolo, ecc., in relazione alla spartizione dei beni della produzione, dei bottini di guerra, ecc, era affidata soltanto ai capricci del caso, alla stessa maniera del gioco dei dadi.
Nel feudalesimo, dove ognuno nasceva già determinato o come servo della gleba, garzone, ecc. o come feudatario, nobile, ecclesiastico ecc., è il momento della nascita che può essere equiparato al lancio dei dadi: se esce servo della gleba, la giocata è persa e non c'è altra partita da giocare se non quella della fuga, piena di rischi. Nel capitalismo, invece, soprattutto delle origini, il momento della nascita poteva far vincere o perdere la prima giocata, ma poi non era detto che la sorte non potesse trasformare il figlio di un operaio in un capitalista, sia pure come rarità statistica.
Il soldato, che, dall'antichità al medioevo, ha spesso giocato ai dadi la sua paga, esprimeva in tal modo l'idea che se il caso lo aveva posto in quella miserabile situazione, potesse anche trarlo fuori. Dal caso pretendeva almeno una chance. Ma poi, paradossalmente, si lasciava sedurre dall'idea di poter imbrigliare, dominare il caso, vuoi con abilità, vuoi per mezzo di trucchi. Ed è su questa illusione che è sorta la teoria delle probabilità, come tentativo di dominare il caso.
Ma con la stessa illusione, ancor prima, a partire almeno da Epicuro, si è immaginato il caso come occasione di libertà, in opposizione alla ferrea necessità deterministica democritea, fondata sulla connessione di causa-effetto. Se la connessione di causa ed effetto ha dominato per secoli le scienze naturali, la connessione caso-libertà ha dominato da tempo immemorabile le cosiddette scienze umanistiche, la letteratura e la storia umana, dove l'osservazione di casi favorevoli (occasioni accidentali che permettevano ad alcuni di liberarsi dalla miseria, di progredire socialmente, di divenire liberti arrichiti, favoriti di nobili e re, infine, di accumulare fortune solcando mari e oceani, ecc.) ha fatto sì che il caso apparisse persino una manna liberatoria.
Ma, al pari della connessione deterministica democritea di causa-effetto, la connessione indeterministica epicurea di caso-libertà è sempre stata collegata al merito personale, all'idea di abilità e astuzia personale. Perciò i favori della fortuna sono sempre apparsi meritori. Se di necessità virtù, anche di caso virtù. Allora, se nella concezione deterministica l'agire del singolo individuo è responsabile delle conseguenze, nella concezione indeterministica si ammette la circostanza favorevole come puramente casuale, ma si continua ad attribuire le conseguenze dell'agire al singolo individuo che, per così dire, sa agguantare la fortuna. Nella prima concezione l'individuo domina la necessità, nella seconda imbriglia il caso.
Entrambe, concezioni unilaterali, affermano il protagonismo dell'individuo o non vi rinunciano. Ma per affermare il protagonismo individuale devono tacere sul principale contrassegno della dialettica caso-necessità, e cioè che solo pochi fortunati, le eccezioni statistiche, sono i favoriti dalla sorte, mentre la maggior parte ci rimette o sta solo a guardare.
Se la storia è sempre stata scritta come storia di re, imperatori, ecc., la letteratura è sempre stata narrazione di vicende riguardanti individui resi protagonisti straordinari, eccezionali, soltanto dal caso. Solo pochi scrittori, e tra questi il grande -stavo per dire geniale- Balzac, hanno saputo rappresentare individui medi, tipici rappresentanti di classi sociali, con i loro interessi fondamentali, le cui individualità e i cui interessi personali entrano in collisione con gli interessi di altri individui, producendo risultati da nessuno voluti, ancora una volta casuali, che conducono a ogni forma di coscienza e di esistenza, fino agli estremi opposti della mostruosità e dell'eroismo.
Soltanto in questo tipo di trattazione delle singole vicende umane, la cieca necessità delle classi e l'imprevedibile caso individuale appaiono per quello che sono: i due poli della dialettica caso-necessità che le società umane, fino ad oggi, non hanno potuto o saputo fare altro che subire, mascherare e persino abbellire!
Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)
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