lunedì 8 maggio 2017

Il primato della comunità sull'individuo*

Nella storia dell'uomo civilizzato la necessità complessiva della specie si è manifestata, soprattutto, nella forma parziale e ristretta del primato della comunità politica sull'individuo. Per illustrare questa tesi utilizzeremo "Il pensiero politico nei secoli" (1965) di U. Cerroni, elaborando un sintetico riepilogo storico.

Partiamo dagli antichi Greci: secondo il filosofo politico Platone, gli individui contano soltanto come membri di una comunità, alla quale devono necessariamente sottomettersi. Ne deriva la necessità di un ordinamento coercitivo che deve essere esercitato dalla comunità, attraverso i filosofi, nello Stato ideale. Scrive Platone: "La prima cosa difficile da comprendere è che una giusta politica deve badare non agli interessi del singolo ma di tutta la comunità. L'interesse comune infatti è ciò che dà validità allo Stato, quello individuale è ciò che tende a disgregarlo; difficile da comprendere è che torna a vantaggio di tutti e di ognuno, della totalità e della individualità di ambedue questi elementi dello Stato, il provvedere più alla comunità che al singolo".

Evidentemente Platone sapeva di rivolgersi a una società nella quale lo scetticismo individualista difficilmente era in grado di accettare il sacrificio dell'interesse personale all'interesse comune, e difficilmente era in grado di comprendere la soluzione platonica, ossia la necessità di provvedere più alla comunità che all'individuo.


Con Aristotele questa contraddizione sembra cadere, ma solo perché l'uomo diventa un "animale politico" che, al di fuori dello Stato, "è un essere al di sopra o al di sotto dell'umanità"; l'uomo soltanto nello Stato può conseguire "la perfezione inerente la sua natura". Perciò Aristotele considera l'individuo solo in quanto è appartenente alla vita pubblica: nella comunità, l'individuo opera come parte del tutto, senza contraddizione.

Questo individuo è il cittadino della Polis (condizione questa alla quale non appartengono le donne, i bambini e gli schiavi). Qualunque fosse stata la forma di governo della Polis, monarchia, aristocrazia o democrazia, l'importante era, per Aristotele, che prevalesse sempre l'utilità comune sull'interesse dei singoli individui o gruppi che potevano spezzare l'armonia dell'insieme.

Al tempo degli antichi Romani, Cicerone pose al primo posto la comunità: "Un solo proposito quindi tutti devono nutrire, che il vantaggio del singolo si identifichi con quello comune, perché se uno solo lo assume egoisticamente per sé, ogni umano consorzio ne viene distolto". Quindi, concepì l'individuo membro della comunità politica, senza contraddizione. Anzi, arrivò persino a concepire il principio della "società universale del genere umano". Ma occorre tenere presente che l'universalismo dei romani era solo un riflesso del loro reale espansionismo nel mondo allora conosciuto.

Con Seneca, nell'età imperiale, compare per la prima volta una diversa considerazione dell'individuo. In un'epoca nella quale un imperatore, Nerone, spogliava di ogni iniziativa personale i romani, facendo loro pesare un capriccioso e crudele dispotismo, il suo inascoltato consigliere, Seneca, cominciò a teorizzare per l'individuo la legittimità di isolarsi dalla comunità, di vivere ritirato per perseguire una personale saggezza  che non poteva essere mondana. L'individuo, che ha perso il suo ruolo politico come membro della comunità, e con ciò ogni possibilità di azione entro la comunità politica, inizia a rivolgersi a se stesso, al proprio intimo, per scoprire l'ozio e il tedio della vita.

Passando alle origini del Cristanesimo, troviamo, di nuovo, affermato il primato della comunità sull'individuo, ma in una forma nuova e di breve durata: la forma del comunismo primitivo. Ambrogio (340-397) scriveva: "Dio ha disposto che tutto si producesse a beneficio di tutti, e la terra fosse in un certo modo comune possesso. La natura ha dunque generato il diritto comune, l'usurpazione il diritto privato." Ambrogio accusò, di conseguenza, ricchi e potenti, e predicò il comunismo cristiano.

Ma con Ambrosiastro la musica cambia: il primato della comunità sull'individuo si manifesterà di nuovo nella forma ristretta del primato della comunità dei padroni e della sottomissione degli individui alle autorità costituite: "Siate sottomessi a tutte le autorità in carica; non c'è infatti autorità che non venga da Dio". E anche Paolo teorizzò una Chiesa autoritaria. Ambrosiastro lo cita spesso, come qui di seguito: "indicò ai padroni che essi sono veramente padroni, ma sono padroni solo per immagine; infatti sono padroni dei corpi, ma non delle anime. Solo padrone è il creatore dell'universo, il Dio invisibile che domina tanto sui corpi che sulle anime".

La Chiesa cristiana diventò autoritaria non appena equiparò il suo Dio a un padrone che domina sui corpi e sulle anime. E così l'individuo doveva essere doppiamente sottomesso: in quanto corpo, al suo padrone terreno, in quanto anima e corpo al padrone ultrattereno, Dio. La ragione dell'autoritarismo cristiano era, comunque, giustificata dalla necessità dell'ordine costituito. Aurelio (354-430) già affermava: "La pace della città è l'ordinata concordia di comandare e ubbidire dei cittadini. La pace della città celeste è la più ordinata  e la più concorde  società nel godere di Dio e nel godere in Dio a vicenda. La pace di tutte le cose è la tranquillità dell'ordine. L'ordine è la disposizione delle cose uguali e disuguali assegnando a ciascuna il suo posto".

Il teologo più importante del Medioevo, il principale teorico della "scolastica", Tommaso d'Aquino (1225-1277), visse il culmine della espansione di una Chiesa autoritaria, alla vigilia della decisiva contesa tra Bonifacio VIII e Filippo IV, nella quale sarebbe crollato l'ideale teocratico. Tommaso si appellò all'autorità di Aristotele anche su temi sociali e politici, riprendendo da lui la concezione della schiavitù per natura. Negando l'uguaglianza terrena, egli oppose ad essa la beatitudine celeste. Per la vita terrena teorizzò, invece, l'autorità dei padroni, dei re e, infine, l'autorità superiore di Dio che punisce i trasgressori. Quella di Tommaso è stata una concezione autoritaria sia per la vita terrena che per quella  ultraterrena.

Come scrive  Kelly: "Esiste anche nella creazione, come aspetto del principio d'ordine il principio di subordinazione, come ad esempio la subordinazione dell'individuo alla collettività, o degli obiettivi parziali a quelli principali. La creazione tutta, comprendente la gerarchia che discende da Dio attraverso gli angeli e poi attraverso gli uomini alle bestie, agisce  secondo il principio della subordinazione".

Tommaso d'Aquino, infine, teorizzò il primato del potere spirituale su quello temporale, secondo la tradizione teocratica, alla quale si contrappose la teoria  del primato imperiale ghibellino (Dante Alighieri, Marsiglio da Padova, Guglielmo d'Occam). Entrambe le concezioni sostennero, comunque, il primato della comunità sull'individuo nella forma della sottomissione degli individui alle autorità in carica.

Passarono alcuni secoli, durante i quali la Chiesa, lacerata da scismi e guerre di religione, non potendo evitare la formazione dei grandi Stati nazionali a monarchia assoluta, perse la sua partita con i principi, i re e gli imperatori. L'assolutismo contrappose la "ragion di Stato" a qualsiasi interferenza interna ed esterna alla volontà sovrana. La conseguenza fu che anche il rapporto comunità-individuo subì delle modificazioni. E' ciò che vedremo nel prossimo paragrafo.

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Tratto da  "Il caso e la necessità nella storia" (2003-2005).  Cap VI "Il rapporto individuo-comunità nella storia dell'uomo", primo paragrafo dal titolo "L'originaria concezione del primato della comunità sull'individuo"

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