martedì 9 maggio 2017

Il rapporto individuo-comunità nell'Assolutismo

Ciò che occorre sottolineare del potere assolutistico del Seicento è il concetto di sovranità come potere individuale assoluto: la volontà e l'interesse dell'individuo sovrano sono posti al di sopra della volontà e dell'interesse della comunità dei sudditi.

Il primo teorico dell'assolutismo, Jean Bodin (1529-1596), affermò il potere assoluto del monarca sulla sfera civile. Questo potere assoluto, riservato al sovrano, favorì il sorgere di una specifica forma di individualismo, quella del primato di un individuo sull'intera comunità. Ma, ancor più paradossalmente, il potere assoluto del sovrano ebbe un  effetto domino sulla corte e sulla società dei nobili, contribuendo a sviluppare un individualismo cortigiano accessorio, con qualità individuali quali la prudenza e l'astuzia, la diffidenza e la dissimulazione.

Come si espresse Gabriel Naudé, il mondo della politica divenne il mondo del successo individuale, nel quale la virtù del politico era la "prudenza mista" che "partecipa della frode e dell'inganno, le quali poi non sono altro che le caratteristiche proprie della politica, dello Stato e in generale del modo di condurre gli affari del governo", una virtù "la quale non ha altro scopo che quello di suggerire le vie più disparate e gli espedienti migliori e più opportuni per prepararci il successo".

In questo modo, il Seicento rappresentò la prima e la più esagerata, manifestazione di individualismo, fino al limite del narcisismo che si pavoneggiava, e non solo metaforicamente, nei suoi piumaggi colorati. Ora, l'individuo aveva finalmente la sua sfera d'azione: il teatro della sua recita, nel quale poteva essere se non il protagonista, almeno un comprimario o anche una semplice comparsa, mentre il bene comune, il bene pubblico finiva nel retroscena. Ora, il successo individuale diventava l'obiettivo principale, mentre la comunità era ridotta a popolino che doveva essere soltanto governato, in quanto "bestia pazza dalle molte teste" .

Nel generale predominio dell'individualismo, fino alla forma estrema del narcisismo, si ergeva su tutti l'individualismo narcisista sovrano, la cui ragione, superiore a tutte le altre ragioni, divenne la "ragion di Stato", che Botero così definisce: "La ragion di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio". Ma Naudé, dopo averlo citato, commenta: "Questa definizione non è, pertanto, così esatta, a mio giudizio, come quella secondo cui ragion di Stato è ciò che deroga dal diritto comune a vantaggio dell'interesse pubblico". Meglio sarebbe stato sostenere, a mio avviso, che il vantaggio dell'interesse pubblico non poteva che sottomettersi all'interesse del sovrano assoluto.

Ma andiamo avanti: se l'individualismo assoluto in un primo momento sorge come individualismo sovrano, poi si riverbera sulla corte dei nobili e, giù giù, fino all'ultimo stalliere. Ma in seguito, la cruenta lotta tra la la monarchia inglese e la nuova classe borghese produsse un'altra forma di assolutismo, quella del Lord Protettore, giustificata teoricamente dalla concezione del grande Leviatano di Hobbes. Ma non passò molto tempo ancora che un'altra rivoluzione, questa volta pacifica, la "Gloriosa rivoluzione" di Guglielmo D'Orange, produsse un'altra concezione, quella di Locke, nella quale l'individualismo assunse un nuovo aspetto, quello borghese, più moderno e pratico, senza orpelli, prodotto dal nascente capitalismo: era nato l'individualismo borghese.

Se per Grozio (1583-1645), "madre del diritto naturale è la stessa natura umana, la quale, anche se non avessimo bisogno di nulla, ci porterebbe a  desiderare i mutui rapporti di società"**, per Hobbes (1588-1669), invece, non esiste una tendenza naturale ad associarsi, ma due tendenze naturali contrapposte: "una di naturale bramosia, per la quale ognuno  reclama per sé solo l'uso delle cose comuni; l'altra di ragione naturale, per la quale ognuno cerca di evitare la morte violenta come il  maggior male della natura". Secondo la prima tendenza, "Homo Homini Lupus", ma la paura della morte, "questo temibile nemico della natura (sic!) determina il diritto di conservazione come diritto assoluto di natura".

E' per evitare le conseguenze della prima tendenza, il "Bellum omnium contra omnes", la guerra di tutti contro tutti, che nasce il patto di unione degli individui, però come patto di soggezione a un sovrano. Ora, indipendentemente dalle ragioni pretestuose addotte da Hobbes, importante è la sua conclusione: il dominio dello stato sull'individuo. La forma del dominio è il "grande leviatano", il gigantesco meccanismo dello Stato, la cui "anima artificiale, che dà vita e moto a tutto il corpo", è il potere assoluto dell'individuo sovrano.

Hobbes elimina ogni contraddizione tra comunità e individuo perché la sua concezione deterministica riduzionistica garantisce una corrispondenza meccanica artificiale tra la condizione dell'individuo, per il quale "il primo fondamento del diritto naturale è che ciascuno tuteli la propria vita e le propria membra per quanto è in suo potere", e il potere dell'individuo sovrano per il quale "nello stato naturale dell'umanità, un potere certo e irresistibile dà il diritto di signoreggiare e comandare a quelli che non possono opporre resistenza". La comunità sembra così scomparire: ciò che rimane è una faccenda tra individui!

Ma se ogni contraddizione tra individuo e comunità sembra essere, ormai, risolta è solo perché l'assolutismo di Hobbes ha ridotto l'umanità a individualità. Lo Stato non rappresenta più il bene comune, sia pure ristretto alla comunità dei possidenti, lo Stato è ormai come "una persona, la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui...". "Il maggior potere che dagli uomini si può trasferire in un solo uomo si chiama assoluto". Insomma, la volontà e il potere di tutti i singoli individui vengono assolutizzati a volontà e potere di uno solo. Come abbiamo già osservato, l'assolutismo del Seicento diede inizio all'individualismo come concezione che esaltava per la prima volta il primato dell'individuo, attribuendolo a uno speciale individuo, il sovrano. Inoltre, i vari rapporti di potere che si instaureranno nelle corti sovrane d'Europa seguiranno un modello di individualismo che potremmo chiamare cortigiano-burocratico.

Con John Locke (1632-1704), l'individualismo assunse un'altra forma, quella del primato dell'individuo borghese. A questo proposito, Solari scrive: "Quelle aspirazioni individualistiche che Grozio aveva cercato di armonizzare colle finalità dello Stato e Hobbes si era illuso di comprimere subordinandole al potere incondizionato del sovrano, troveranno con Locke non solo il primo riconoscimento, ma le forme giuridiche adatte ad esprimerle. Locke è il fondatore dell'individualismo empirico, il più adatto a fornire un sistema di idee e di programma di azione alla borghesia inglese vittoriosa divenuta la classe dominante e destinata a reggere le sorti del paese".

"Per Locke ciò che dà origine e attualmente costituisce una società politica, non è nient'altro che il consenso di un  gruppo di uomini liberi, capaci di una maggioranza, a riunirsi e incorporarsi in tale società. Ed è questo, e questo soltanto, che ha dato e può aver dato origine a ogni governo legittimo di questo mondo".


Se nella teoria di Hobbes si riflette la cruenta rivoluzione di Cromwell, che si concluse con il potere assoluto del Lord protettore, la teoria di Locke riflette la pacifica "gloriosa rivoluzione" di Guglielmo d'Orange che si concluse con il potere costituzionale. Nel primo caso, un potere sovrano e assoluto riassumeva in un solo individuo la volontà di tutti i singoli individui; nel secondo, la volontà di tutti i singoli individui si è riassunta nella volontà della maggioranza. La contraddizione tra individuo e comunità si ripresentava irrisolta.

Con Leibniz (1646-1716), cristiano protestante di Lipsia, è l'individuo che resta in primo piano perché rappresenta la necessità per volontà divina, mentre la comunità è ridotta ad aggregato casuale. Giustamente Cerroni osserva: "La dottrina monadologica di Leibniz non è che una consacrazione metafisica dell'individualismo, il quale non ha nel Leibniz un semplice significato etico  o giuridico ma è il principio stesso della realtà: ovvero della realtà necessaria". Per Leibniz, infatti, il mondo è costituito di un numero indefinito di individualità o atomi immateriali (monadi) che associandosi variamente originano aggregati: la necessità spetta alle singole monadi, gli aggregati sono puramente casuali. Come avevamo visto in altra sede, Leibniz ha rovesciato i rapporti caso-necessità, singolo-complesso, attribuendo la necessità al singolo e il caso al complesso.

L'unica voce discorde dall'individualismo del '600 fu quella di Baruch Spinoza (1632-1677), non a caso sostenitore della necessità complessiva in un'epoca in cui il riduzionismo cartesiano aveva attribuito la necessità al singolo elemento del cosiddetto composto. Spinoza ripropose alla sua maniera la vecchia concezione del primato della comunità sull'individuo. "Per diritto di natura, adunque, intendo le stesse leggi naturali o le regole secondo cui tutte le cose accadono, cioè la potenza stessa della natura; perciò il diritto di tutta la natura e di ciascun individuo coincide con la sua potenza. Tutto ciò che ciascuno fà secondo le leggi della sua natura è conforme al sommo diritto della natura, egli ha tanto diritto in natura per quanto vale la sua potenza".

Fondando il diritto sul potere, Spinoza sostenne, riguardo allo Stato, che "come l'individuo allo stato naturale, così lo Stato ha tanti diritti, quanto è la sua potenza. Perciò ogni cittadino ha un diritto tanto minore quanto più lo Stato è più forte di lui (...) e così esso non ha diritto se non a ciò che può rivendicare per il comune decreto dello Stato". Di conseguenza, per Spinoza, il potere assoluto dello Stato si manifesta come la dura necessità della volontà collettiva che sottomette a sé i singoli individui. Gli individui non contano, non hanno diritti individuali, hanno il solo dovere dell'obbedienza a leggi razionali, ossia funzionali alla sopravvivenza dello Stato. Di nuovo, la necessità del complesso, della comunità politica, viene posta in primo piano e annulla l'individualità. Potremmo dire che in questo modo anche Spinoza ha eliminato la contraddizione individuo-comunità, ma lo ha fatto in maniera opposta a quella di Leibniz.

* Nota   Dovendo mettere troppe note, ho preferito non metterne nessuna.

Tratto da "Il caso e la necessità nella storia" 2003-2005

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