sabato 27 maggio 2017

Premessa al pensiero moderno: il Caso Galileo e il ruolo della teologia*

Qui* consideremo il "Caso Galileo" più come premessa al ruolo epistemologico giocato dalla teologia che per il contributo di Galileo Galilei alla teoria della conoscenza; per questo motivo lo premettiamo ai capitoli che seguiranno. La tesi è la seguente: la teologia ha creato il "Caso Galileo" come caso esemplare, che fosse di monito a tutti gli scienziati col seguente messaggio: la scienza non può e non deve presumere di poter conoscere la realtà della natura, creazione della imperscrutabile e incommensurabile intelligenza divina; la scienza può e deve limitarsi a parlare, per supposizione, mediante ipotesi convenzionali.

Conferma questa tesi lo scienziato cristiano Duhem, per il quale la principale deroga da concezioni della teoria fisica accettabili per la teologia è il realismo. Così, secondo lui, giustamente Osiander corregge Copernico che afferma il moto reale della Terra attorno al Sole, e giustamente il cardinal Bellarmino critica Galileo affermando che sostenere il moto reale della Terra attorno al Sole "è una cosa molto pericolosa" che "rischia di nuocere alla fede".

Secondo Ficant**: "L'argomentazione Osiander-Bellarmino è chiara: il sistema di Copernico è una costruzione geometrica, alla stregua degli eccentrici e degli epicicli, né più né meno vera, benché senza dubbio più comoda". Ma Duhem va oltre, quando afferma: "Si è costretti ... a riconoscere e dichiarare oggi che la logica era dalla parte di Osiander e Bellarmino e di Urbano VIII, non dalla parte di Keplero e Galileo; che quelli avevano compreso l'esatta portata del metodo sperimentale e che a questo proposito questi si erano sbagliati". Così, conclude Ficant, Duhem può definire "realismo impenitente" quello di Galileo e "realismo intransigente" quello del Santo Uffizio.

Ma se Duhem può affermare questo, senza timore di smentita, è perché lo sviluppo successivo della fisica è avvenuto nella direzione del convenzionalismo, non del realismo. Così, la "ragione" di Duhem altro non è che la ragione del torto dei successori di Galileo, i quali hanno recepito il monito della condanna del realismo galileiano e hanno chinato la testa per non nuocere alla fede e per non incorrere nel biasimo della teologia.

venerdì 26 maggio 2017

Sofisticate giustificazioni del costruttivismo

E' arrivato il momento di comprendere la posizione di Soldani. Fin qui egli si è raramente scoperto e, nel trattare i vari autori, non si è sbilanciato più di tanto nel giudicare i loro contenuti, limitandosi ad apprezzare le idee più sofisticate e raffinate. Ora, per comprendere il pensiero dell'autore delle "Relazioni virtuose" occorre, dapprima, intendere il suo "marxismo". Facile per lui sostenere che gli scienziati hanno costruito attorno al pensiero di Marx una caricatura. Però, quando parla della "sua sofisticata concezione", sembra proprio voler ridurre il "grande tedesco" al livello degli autori dell'autopoiesi. Ma il pensiero di Marx era troppo profondo, materialista e dialettico per subire una simile sorte.

Soldani, invece, pretende assumere Marx per proprio uso e consumo senza entrare nel concreto, rimanendo nella propria prolissa e generica raffinatezza. E' perciò necessario fissarlo su dichiarazioni che abbiano qualche concretezza, come ad esempio qui di seguito: "Questo sofisticato set d'idee viene completamente dissolto nella scolastica e in sostanza accademica identificazione del pensiero di Marx con la presunta "tesi deterministica", "innalzata a emblema della sua spiegazione dell'uomo sociale".

Che Marx abbia avuto un "set d'idee" è puramente eufemistico, ma si potrebbe aggiungere: altro che set! Inoltre, che la sua concezione possa essere identificata con il determinismo è solo in parte vero. E' all'intera scuola marxista che, come abbiamo chiarito in altro luogo, può essere addebitata una fede assoluta nel determinismo in conseguenza del pensiero deterministico dell'Ottocento. Ma, mentre i seguaci di Marx ed Engels (compreso Lenin) si sono manifestati dei deterministi assoluti fondando le loro analisi sulla connessione causale di tutte le cose, immaginando di poterla conciliare con la logica dialettica, Marx nel Capitale non ha seguito criteri deterministi-riduzionisti, ma criteri statistici, ed Engels nella Dialettica della natura ha preso in seria considerazione la questione del rapporto caso-necessità, criticando il determinismo assoluto.

giovedì 25 maggio 2017

La scienza attuale e l'autopoiesi

Dice Soldani che, "consegnando tutto nelle mani del soggetto", privando la cultura dalla convalida oggettiva da parte del mondo fisico, "l'autopoiesi è probabilmente apparsa alle altre discipline troppo radicale ed estrema, giacché la sua enfasi pressoché esclusiva sul ruolo dell'osservatore... avrebbe... potuto aprire un varco" alla messa in discussione dell'egemonia e del predominio di una scienza corroborata "dalla logica astratta della matematica e dei suoi successi pragmatici". Insomma, la scienza ufficiale, dopo essere riuscita ad accreditarsi l'"immagine oggettiva della conoscenza" non sentiva "alcuna ragione impellente né tanto meno imperativa di cambiare paradigma in maniera così drastica".

E la concezione dei paradigmi di Khun non ha reso più valida l'alternativa tra una vecchia e una nuova concezione. Khun ha mostrato alcuni passaggi storici da vecchie concezioni ad altre nuove, ed è anche vero che la sua concezione ha permesso alla scienza successiva di accumulare così tanti paradigmi -in quasi mezzo secolo dall'uscita del suo libro- che non si capisce come potrà di nuovo accadere ad esempio ciò che è accaduto alla relatività generale, che ha sostituito la teoria di Newton come concezione fondamentale della cosmologia.

Ora, che la teoria di Maturana possa aver incontrato "una reazione ostile all'interno dell'establishment scientifico" dell'epoca, come lui stesso ha spiegato, va attribuito a una ragione più semplice anche se molto seria, perché vitale: accettare, da parte della comunità scientifica, l'autopoiesi e il costruttivismo sarebbe stato come consacrare ciò che, invece, doveva rimanere celato: il proprio convenzionalismo fittizio posto a fondamento di ogni teoria scientifica, come metodo ontologico e non soltanto come metodo pragmatico.

mercoledì 24 maggio 2017

Costruttivismo radicale e autopoiesi

Il titolo del capitolo 8 "Costruttivismo radicale e autopoiesi" e il titolo del primo paragrafo di questo capitolo, "Nascita di un nuovo paradigma scientifico: la critica dell'ontologia" mettono in campo il tema principale di Soldani. Noi sappiamo da Khun che se ogni paradigma serve a risolvere dei rompicapi, esso è anche esoterico, è solo per iniziati, ossia è compreso soltanto da una stretta cerchia di adepti che accetta senza discutere le regole del gioco.

Ora, nel caso del paradigma costruttivistico la prima peculiarità non vale, perché non serve a risolvere rompicapi, semmai a crearli  complicando la teoria della conoscenza; mentre vale la seconda, essendo roba per iniziati comprensibile soltanto a una stretta cerchia di adepti. Perciò eviteremo di addentrarci troppo, limitandoci a cogliere quegli aspetti che giustifichino storicamente le origini di questa concezione fallimentare.

Innanzi tutto, vien detto, si tratta di "un nuovo paradigma in merito all'acquisizione della conoscenza da parte del soggetto", ciò che rappresenta una rottura epistemologica col passato, rottura che si è consumata non contro l'epistemologia del passato, ma contro il guazzabuglio creato dagli autori del nuovo paradigma. E' vero che ognuno può interpretare come vuole, e in genere lo fa secondo la propria impostazione concettuale, ma se tutto dipendesse dal soggetto (e i soggetti sono tanti e tanti sono i modi di pensare), come si potrebbe pretendere un'interpretazione del passato così come esso è (stato), quando persino la possibilità di farlo è negata per principio?

lunedì 22 maggio 2017

"Melange" tra legge e caso: punto d'incontro tra litiganti

Che René Thom, teorico delle catastrofi, ne abbia fatto una questione personale con i teorici della Complessità e del Caos non deve apparire strano, perché era l'intera sua teoria (e la sua ostinazione a pretendere la causalità per spiegare "la tenuta e la longevità" degli oggetti naturali) che veniva messa in discussione. Per questo motivo egli detestava, soprattutto, gli "eccessi verbali" dei teorici del Caos.

Soldani, così, riassume la situazione che si era venuta a creare: "Ad avviso di Thom, infatti, la fascinazione per l'aleatorio, il caso e l'incerto si configurava come un'attitudine "antiscientifica per eccellenza" con una evidente "propensione al confusionismo". La "oltraggiosa glorificazione" del rumore e delle "fluttuazioni" nel dar vita all'organizzazione del mondo raggiungerebbe poi una sua vetta addirittura "mistica" nella filosofia di Henry Atlan, ed in ogni modo "l'ipostasi del caso" la si troverebbe anche nel "materialista Jacques Monod", il quale di fatto rinverdirebbe una tradizione "illegittima" che si fa risalire al Darwinismo".

Thom non aveva torto ad essere così critico nei confronti del "confusionismo" dei "caotici", perché il caso da solo è come la necessità da sola: entrambi, isolatamente, esistono soltanto nelle menti metafisiche: l'indeterminismo vede solo il caso dove il determinismo vede solo la necessità. Di conseguenza, il primo concepisce solo la probabilità e il secondo solo la causa. Ma ecco come si manifesta il pensiero metafisico del determinista Thom nella sintesi riassuntiva di Soldani: "se veramente le leggi della fisica avessero "un fondamento statistico" ci si troverebbe di fronte a una "bizzarra dialettica" davvero tra caso e necessità, in quanto "il caso, in sé negazione di qualsiasi ordine, andrebbe soggetto a leggi laddove spesso e volentieri il determinismo sfuma sotto una struttura statistica". In questo intreccio si ha a che fare, allora, solo con un "groviglio problematico" nel quale, per poter uscire, è meglio non entrare".

domenica 21 maggio 2017

Le ragioni del costruttivismo nella controversia tra determinismo e caso (Le Moigne)

Nell'ultimo capitolo del primo volume di Franco Soldani, possiamo trovare le ragioni che sostengono il "paradigma" del Costruttivismo. Il paragrafo che ci indirizza verso queste ragioni ha un titolo molto significativo: "La controversia tra determinismo e caso: i princìpi epistemologici della complessità e dell'ordine del mondo". E qui troviamo subito una proposizione rivelatrice che vale la pena  di prendere in considerazione, perché giunge fino a coinvolgere anche Marx nel costruttivismo per via di una parabola...

Scrive Soldani: "Si deve a Jean-Louis Le Moigne una prima sintesi organica dei princìpi guida di tale pensiero. A suo avviso, intanto la nascita del "nuovo paradigma" -il Costruttivismo, "inteso come un discorso sui fondamenti della conoscenza scientifica- ha origini multiple e antiche e risale perlomeno alle opere racchiuse in quello che lo studioso francese definisce "un triangolo d'oro": da Leonardo da Vinci a Vico e Valery, da Piaget a Simon e Morin. D'altro canto, in questa illustre genealogia storica "settimo tra cotanto senno", verrebbe da dire con Dante, viene incluso sintomaticamente anche Marx, che con la sua celebre parabola dell'ape e dell'architetto avrebbe dato "la più soddisfacente definizione" della nuova impostazione".

L'allusione all'ape e all'architetto concederebbe a Marx l'onore d'essere settimo in tale superba compagnia! Ma se Soldani, che in genere è molto prolisso, in questo caso si è accontentato soltanto di alludere alla "parabola", l'autore di questo blog preferisce, invece, andare a rivedere che cosa essa veramente insegna. A tale scopo è stato sufficiente prendere il Primo libro del Capitale e leggere la seconda pagina del primo paragrafo del quinto capitolo, dedicato al "Processo lavorativo e processo di valorizzazione". Vediamolo.

sabato 20 maggio 2017

La pretesa di costruire la realtà

Costruttivismo e autopoiesi

Devo andare indietro nel tempo con la memoria: era l'estate del 2009, il libraio editore che aveva pubblicato, ad Agosto, il mio breve saggio "Chi ha frainteso Darwin?", appena dopo la pubblicazione, tentò ripetutamente di rifilarmi libri che i miei interessi di studio e le mie scarse risorse finanziarie mi facevano rifiutare. Ma quando, un giorno, mi mostrò i due grossi volumi di Soldani* si sorprese molto per il mio rapido acquisto. Non sapeva che in quei grossi tomi c'era il riassunto di molti fallimenti teorici sulla questione del caso e della necessità -che soltanto chi, come me, aveva dedicato un quarto di secolo al problema, poteva comprendere.

Sebbene prolissi, i due volumi, avevano il pregio di trattare autori che avevano preso in considerazione, molto prima di me, la questione principale della teoria della conoscenza, il rapporto caso-necessità, senza però risolverlo. Affrontai questi volumi senza indugi. Risultato: un centinaio di pagine di sintesi dattiloscritte, con l'animo rappacificato come di chi aveva appena scoperto di non essere stato preceduto da nessuno nella soluzione dell'enigma.

Per puro caso, in questi giorni, ho ripreso in mano l'intero fascicolo e mi sono convinto che valesse la pena postarne almeno una piccola parte, però, significativa, e soprattutto abbastanza comprensibile e in grado di confermare che l'argomento del rapporto caso-necessità ha preoccupato parecchi studiosi, senza però essere stato risolto.

martedì 16 maggio 2017

Modi di pensare antiscientifici nella comunità scientifica

No, non è un raro paradosso, è la frequente realtà!

Un esempio di modo di pensare antiscientifico è quello insegnato nei manuali universitari, soprattutto in quelli di biologia, dove si insiste molto su analogie formali e superficiali. Un esempio tipico è quello di cercare che cosa hanno in comune cose tra loro molto diverse. Così, che cosa avranno mai in comune cose come "se stessi, un aspirapolvere e una patata"? Ce l'hanno, ce l'hanno assicurano gli autori della domanda: "assumono energia e materia dall'ambiente e la trasformano"! Complimenti! Occorre proprio insegnare ai futuri scienziati simili bazzeccole, ovvero come riconoscere ciò che accomuna cose tanto diverse, invece di scoprire che cosa distingue ciò che appartiene ai medesimi processi!

Facciamo degli esempi. Che cosa dintingue la forza dall'energia, ovvero l'attrazione dalla repulsione? Non c'è fisico, oggi, che lo sappia, anche perché questa non viene considerata una domanda valida quanto quella su ciò che le unisce. E che cosa unisce attrazione e repulsione? Da troppo tempo, la risposta è "tutto", perché l'una e l'altra vengono, persino, confuse tra loro.

Ma c'è di peggio, quando si tratta del modo di interpretare, ad esempio, la materia della vita, come fosse un assemblaggio di diversi meccanismi interconnessi, messi in azione o controllati da vari tipi di specialismi. In questo modo non si riflette più, ad esempio, sulla riproduzione sessuata, sui contrassegni di questo processo naturale, perché la pretesa soluzione è già data nella forma di metafora meccanicistica.

Torniamo a cose più leggere

Ogni tanto torno a spulciare le mie numerose cartelle. Questa volta sono tornato su quella che ospita i contributi di Boncinelli su "Le Scienze". Il mio commento, che solo oggi ho deciso di postare, è stato scritto il 5 gennaio 2011 dopo aver rivisitato "Le Scienze" dell'Ottobre 2009, ed essermi soffermato sulla Rubrica di Boncinelli intitolata "Biomeccanica e sviluppo".

"Nel Settecento tutto era visto in chiave di meccanica"
, scrive Boncinelli, mentre nella biologia e nella genetica di meccanica "non ci si è più occupati". Ma "Ecco che d'improvviso oggi fa capolino una spiegazione che si fonda in parte su uno stress meccanico".

Cosa possa essere uno stress meccanico nell'organismo vivente non è certo chiaro: una martellata su un piede è uno stress meccanico? Certo, ma il problema teorico è che in biologia non esistono meccanismi (e neppure in fisica) per la semplice ragione che soltanto l'uomo crea meccanismi. Non li crea, invece, la natura, ovvero, la materia sia vivente che non vivente. Ma la maggior parte degli scienziati, compreso Boncinelli, da quell'orecchio non vuol sentire.

domenica 14 maggio 2017

Engels sulla questione del saggio medio del profitto e del determinismo

Engels ha affrontato la difficile questione del saggio medio del profitto nella Prefazione e nelle Considerazioni supplementari al 3° libro del Capitale, prendendo lo spunto dalla critica del professor W. Lexis al 2° libro. Per Lexis -dice Engels- la soluzione della contraddizione tra la legge del valore di Ricardo-Marx e l'uniformità del saggio medio del profitto "è impossibile, se le varie specie di merci vengono considerate isolatamente e il loro valore viene posto uguale al loro valore di scambio e questo a sua volta uguale o proporzionale al prezzo". "A suo parere la soluzione è possibile soltanto alle seguenti condizioni: "che per le singole specie di merci si rinunci ad assumere a misura del valore il lavoro, che la produzione delle merci venga intesa nel suo complesso, e la sua distribuzione considerata per le classi dei capitalisti e degli operai nel loro complesso..."."

"Come si vede la questione qui è ben lungi dall'essere risolta -commenta Engels-, ma nel complesso è posta correttamente..." E non è un caso, visto che "In realtà la teoria di Lexis non è che una trascrizione di quella marxistica". Qui "non abbiamo a che fare con uno dei soliti economisti volgari che, come egli stesso ricorda, a parere di Marx "sono nella migliore delle ipotesi soltanto degli imbecilli senza speranza", ma con un marxista travestito da economista volgare".

Sebbene Lexis non arrivi a risolvere la questione del saggio medio del profitto, la sua impostazione è corretta, come riconosce Engels: infatti, non si può attribuire alle singole specie di merci ciò che appartiene al complesso delle merci: ossia che il lavoro è la misura del valore, ecc. Quando, però, Engels passa a considerare le critiche dei marxisti deterministi, le cose cambiano: nessuno di essi riesce ad essere corretto. Così Conrad Schmidt "cerca di far concordare i particolari della formazione del prezzo di mercato sia con la legge del valore che con il saggio medio del profitto". Il risultato trovato da Schmidt è che il "saggio medio del profitto si forma nonostante che" "i prezzi medi delle singole merci si determinano secondo la legge del valore". Engels giudica la costruzione  di Schmidt assai ingegnosa e conforme al metodo hegeliano, "però ha in comune con la maggior parte delle costruzioni hegeliane di non essere esatta".

Un altro autore marxista, citato da Engels, è P. Fireman, che arriva a sostenere: "Premesso tale sistema di produzione, per ogni singolo capitalista la massa del profitto dipende, essendo dato il saggio del profitto, dal volume del capitale". Se così fosse, avremmo una determinazione esatta del profitto intascato dal singolo capitalista, ma nella realtà ciò non avviene. Dunque, le contraddizioni da risolvere sono  due: la prima, che Engels formula con la seguente domanda: "come avviene la trasformazione del plusvalore, il cui volume è in rapporto al capitale impiegato?"; la seconda, che ciascun capitalista dovrebbe pretendere una quota di profitto proporzionale al capitale impiegato. La seconda contraddizione deriva dalla prima.

Scrive Fireman (citato da Engels): "In tutti i rami di produzione il cui rapporto tra... capitale costante e capitale veriabile è massimo, le merci sono vendute al di sopra del loro valore, mentre in quei rami di produzione il cui rapporto tra capitale costante e capitale variabile, ossia c:v, tocca una data grandezza media, le merci vengono vendute al loro vero valore... Una tale divergenza di singoli prezzi dai loro rispettivi valori costituisce una contraddizione con il principio di valore? Niente affatto. Giacché, per il fatto che i prezzi di alcune merci superano il loro valore  esattamente  di tanto quanto i prezzi di altre merci scendono al di sotto, la somma totale dei prezzi rimane uguale alla somma complessiva dei valori... e, in ultima istanza, la divergenza scompare". La divergenza sarebbe così "un fatto perturbatore"; "nelle scienze esatte un fatto perturbatore calcolabile non è mai considerato tale che possa infirmare la legge".

Engels dice che "effettivamente Fireman ha in tal modo messo il dito sul punto decisivo". Il fatto è che l'appello al fatto perturbatore è un ragionamento da determinista, che viene utilizzato quando il caso ostacola la pretesa connessione di causa-effetto. La vera difficoltà prodotta dal "saggio medio del profitto" di Marx fu una difficoltà di comprensione da parte del pensiero deterministico dell'Ottocento. Anche ammettendo che Engels avesse chiarito che la soluzione statistica avrebbe poi dovuto, necessariamente, sostituire la spiegazione deterministica, si sarebbe poi trovato nella imbarazzante situazione di dover fronteggiare da solo non soltanto il determinismo borghese, ma anche il determinismo dei marxisti, e nel momento in cui la teoria di Marx veniva attaccata da tutte le parti.  

Perciò non è un caso che Engels sia costretto ad ammettere: "Più di uno si aspettava  un vero miracolo e rimase deluso perché in luogo dell'attesa magìa si trova di fronte a una mediazione semplice e razionale, prosaicamente sensata, del contrasto". L'atteso miracolo, l'attesa magìa erano in sostanza l'attesa della spiegazione deterministica, la mediazione semplice e razionale era in realtà il frutto di una nuova impostazione difficile da digerire: la legge statistica. Se la prima avrebbe dovuto garantire la certezza del saggio del profitto in senso deterministico riduzionistico, ossia per il singolo capitalista, la seconda garantiva il saggio medio del profitto soltanto nel complesso per l'intera classe dei capitalisti.

E così Engels ha dovuto affrontare la delusione dei marxisti con molte cautele, nelle sue "Considerazioni supplementari". Dapprima prendendo in considerazione un economista felicemente deluso: "Il più felice  di questi delusi è naturalmente il ben noto illustre Loria. Egli ha finalmente trovato il punto di appoggio archimedeo dal quale  persino uno gnomo del suo calibro può sollevare e frantumare la compatta e gigantesca costruzione di Marx. Forse che, egli grida indignato, questa sarebbe la soluzione? Questa è pura mistificazione! Gli economisti, quando parlano di valore, parlano del valore che si stabilisce realmente nello scambio". "Del valore a cui le merci non si vendono, né possono vendersi mai, nessun economista che abbia fior di senno si è occupato e mai vorrà occuparsi... Coll'asserire che il valore a cui le merci non si vendono mai è proporzionale al lavoro in esso contenuto, che cosa egli ha fatto se non ripetere sotto forma invertita la tesi degli economisti ortodossi, che il valore a cui le merci si vendono realmente non è mai proporzionale al lavoro in esse impiegate? ... Ne punto vale a salvarla l'osservazione di Marx, che il prezzo totale delle merci coincide pur sempre, nonostante le divergenze dei prezzi dai valori singoli, col loro valore totale, ossia con la quantità di lavoro contenuto nella totalità delle merci stesse. Imperocché essendo il valore null'altro che il rapporto di scambio fra una merce e un'altra, il concetto stesso di un valore totale è un assurdo, un nonsenso... una contradictio in adjecto"."

Con quest'ultima argomentazione logica riduzionistica, Loria ha avuto buon gioco, ma soltanto contro i marxisti deterministi-riduzionisti, perché ponendosi sul loro terreno ha potuto giustificare il suo rifiuto della soluzione di Marx. La sua critica, perciò, può essere smontata soltanto affermando che il valore, come conseguenza del lavoro sociale medio, può valere solo per il complesso delle merci, non per le singole merci. Anche se Marx, nella sua indagine, è partito dai singoli scambi di merci, ogni volta ha mostrato che, a livello di questi singoli scambi, vale il caso, mentre la legge di necessità s'impone solo per il complesso degli scambi.

Sebbene Marx non abbia definito logicamente la differenza polare, qualitativa, esistente tra la necessità del complesso e la casualità dei singoli elementi, la sua soluzione presuppone, ed è comprensibile soltanto sulla base di questa distinzione. Ora, una cosa è scoprire una legge dialettica, un'altra è trarne tutte le conseguenze, soprattutto se fra queste irrompe prepotentemente il ruolo del caso al livello delle singole parti del tutto, le quali rappresentano l'oggetto di studio preferito dal riduzionismo deterministico.

Abbiamo già affrontato questo aspetto nel primo volume di Teoria della conoscenza, qui possiamo soltanto ribadire che l'analisi scientifica dei due più grandi scienziati dell'Ottocento, Darwin e Marx, ha fatto emergere il ruolo del caso in rapporto alla necessità, ma i tempi non erano ancora maturi per una chiarificazione logica definitiva. Il  metodo empirico di Darwin, per sua stessa ammissione, digiuno di conoscenza teorico filosofica, non fu sufficiente a stabilire un qualsiasi nesso logico tra il caso e la necessità, perciò egli rimase sconvolto dal "terribile pasticcio" prodotto dal caso. Al contrario, Marx padroneggiava il metodo dialettico, sapeva ragionare con i concetti polari, ma arrivare fino a fondare la sua "gigantesca costruzione" sulla cieca dialettica di caso e necessità non poteva essere, nell'Ottocento, secolo dominato dal determinismo riduzionistico, una faccenda da prendere alla leggera e, forse, neppure pensabile. Non è un caso che Marx non si sia dedicato a sviluppare la logica dialettica e che Engels solo in tarda età sia riuscito a intuire il nesso dialettico tra il caso e la necessità (nella "Dialettica della natura").

Per tutti questi motivi, anche Engels si trovò in difficoltà con Loria e, pur polemizzando duramente con lui, non poté liquidarlo dichiarando semplicemente che era stolto pretendere di determinare i singoli scambi tra le merci; e non poteva farlo perchè avrebbe dovuto sbarazzarsi del determinismo riduzionistico. Così Engels si appoggia a Schmidt: "Anche Schmidt ha le sue riserve formali a proposito della legge del valore. Egli la chiama una ipotesi scientifica fatta per spiegare il processo di scambio reale, ipotesi che, come punto di partenza teorico necessario, luminoso, inevitabile, ha dimostrato la sua validità anche per i prezzi di concorrenza, fenomeni che in apparenza sembrano esserne la contraddizione assoluta; senza la legge del valore, secondo il suo punto di vista, cade anche ogni conoscenza teorica del meccanismo (sic!) economico della realtà capitalistica".

Come si vede, per Schmidt, il modo di produzione capitalistico è un meccanismo; ma la concezione meccanicistica presuppone una scienza deterministica riduzionistica. E se questa non funziona, si possono concedere ipotesi che abbiano soltanto il valore di utili finzioni. "In una lettera privata che mi ha permesso di citare, -scrive Engels- Schmidt definisce la legge del valore, nella forma della produzione capitalistica, addirittura una finzione, anche se teoricamente necessaria. -Questa concezione, secondo il mio punto di vista, non è affatto  esatta. La legge del valore ha per la produzione capitalistica una importanza maggiore e ben più precisa di quella di una semplice ipotesi, senza parlare poi di una finzione sia pur necessaria".

Giustamente Engels respinge la "finzione utile" come necessità teorica, ma non può cogliere il punto fondamentale e cioè che essa è precisamente l'espediente mediante il quale il determinismo riduzionistico ha tentato di evitare il fallimento della ricerca di leggi scientifiche fondate su singole connessioni di causa ed effetto. Perciò egli si limita a osservare che "Sombart e Schmidt -l'illustre Loria mi è servito qui solo come un esemplare divertente di economista volgare- non tengono abbastanza in considerazione che non si tratta qui solo di un processo logico, ma di un processo storico e del suo riflesso interpretativo nel pensiero, la ricerca logica dei suoi nessi interni".

Se l'ipotesi-finzione è un puro processo logico, così come tutti i tentativi di spiegazione convenzionali, mentre la legge del valore e la legge del saggio medio del profitto rappresentano il risultato del "riflesso interpretativo" del processo storico capitalistico, si tratta poi di chiarire in che cosa consista "la ricerca logica dei suoi nessi interni". Ciò che è mancato è proprio questo chiarimento. Engels dice che "il passo decisivo si trova in Marx, III volume, pag 200: "Tutta la difficoltà consiste nel fatto che le merci non vengono scambiate semplicemente come merci, ma come prodotti di capitali, che in proporzione alla loro grandezza, o a parità di grandezza, pretendono una uguale partecipazione alla massa complessiva del plusvalore"."

Occorre qui osservare che la difficoltà ammessa da Marx fa diretto riferimento alla pretesa dei singoli capitali di partecipare al plusvalore in proporzione alla propria grandezza; così, anche le singole merci, per così dire, pretendono d'essere scambiate come prodotti di capitali. Entrambe le pretese hanno, però, come protagonisti singoli capitalisti e singoli pacchetti di merci. Perciò Marx qui si preoccupa di una difficoltà del pensiero riduzionistico, o meglio della difficoltà di far coesistere il metodo statistico con il metodo riduzionistico. Ma l'elaborazione teorica di Marx non era sufficiente a stabilire l'incompatibilità tra i due metodi. Per uscire dagli impicci, Engels ha pensato di risolvere la questione considerando l'intera faccenda in senso storico, relativamente al livello di sviluppo capitalistico, seguendo l'indagine di Marx. Per i nostri scopi ci limiteremo a un breve cenno.

Scrive Marx: "Lo scambio delle merci ai loro valori, o approssimativamente ai loro valori, richiede dunque un grado di sviluppo assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato livello di sviluppo capitalistico... Anche astraendo dall'azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo dal punto di vista teorico, ma anche storico, come il prius dei prezzi di produzione".

Assumendosi il compito di dimostrare, dal punto di vista storico, la validità della legge del valore, Engels compie una sintesi dello sviluppo storico della produzione e dello scambio delle merci, provando che "la legge del valore di Marx ha  dunque una validità economica generale per un periodo di tempo che va dall'inizio dello scambio che trasforma i prodotti in merci, fino al XV secolo della nostra era". In questo modo corregge Schmidt, ma non era questa la difficoltà principale da risolvere.

Ci spiegheremo con un esempio tratto dalla ricostruzione storica di Engels: lo scambio tra il contadino e l'artigiano in epoca medioevale., Secondo Engels: "Il tempo di lavoro speso" nei prodotti del contadino e dell'artigiano "non era solamente l'unica misura adatta alla determinazione quantitativa delle grandezze da scambiare: era assolutamente l'unica possibile"; e ciò perché il contadino conosceva abbastanza il tempo di lavoro richiesto per la fabbricazione degli oggetti che acquistava con lo scambio".

Ora, questa spiegazione non distingue tra singoli scambi e insieme di scambi, mentre la soluzione statistica è precisa: astrae dai primi e si fonda sui secondi; così, quanto maggiore  è il numero degli scambi, che crescono fino a diventare un fenomeno generalizzato, tanto più al caso dei singoli scambi segue la cieca necessità della media regolatrice che è puramente statistica e che, soprattutto, si impone indipendentemente dalla intelligenza e dalla consapevolezza dei soggetti che scambiano. Engels ha voluto provare che la legge del valore di Marx non era una semplice ipotesi, e per giunta fittizia, bensì un nesso logico interno al processo storico del capitalismo. Ma questa prova non dice nulla del carattere logico di questo nesso: non chiarisce il fondamento logico delle leggi obiettive dello sviluppo storico.

Per concludere su questo rilevante aspetto di teoria della conoscenza, citiamo un altro passo di Engels, là dove osserva che la grande industria "conquista definitivamente al capitale il mercato interno", "sopprime lo scambio diretto fra piccoli produttori, pone tutta la nazione al servizio del capitale". Così "livella i saggi del profitto dei diversi rami dell'industria e del commercio a un  saggio di profitto generale ed assicura finalmente all'industria, nel quadro di questo livellamento, il rango dovuto alla sua forza, sopprimendo la gran parte delle difficoltà che ostacolavano fino allora il trasferimento del capitale da un ramo all'altro. In tal modo si compie, per tutto lo scambio in generale, la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Questa trasformazione si compie dunque spontaneamente secondo delle leggi obiettive, senza che gli interessati se ne rendano conto o lo vogliano".

Engels ha sottolineato correttamente il concetto di "saggio di profitto generale" riferendolo a tutto lo "scambio in generale". Ma come avviene la trasformazione dei valori in prezzi di produzione? avviene spontaneamente, secondo leggi obiettive. Occorreva, però, stabilire che questa spontaneità altro non è che il caso relativo ai singoli produttori, alle singole merci, ai singoli scambi... e che le leggi obiettive sono leggi statistiche che rappresentano sempre la cieca necessità fondata sul caso. Per questo motivo il determinismo perdeva ogni diritto. La storia del processo di produzione e di scambio della merci può essere riflessa nel pensiero soltanto in termini di statistica del complesso. Solo così si può interpretare il livellamento del saggio di profitto, che vale in generale e complessivamente per la classe capitalistica, ma non per il singolo capitalista, abbandonato alla sua sorte casuale come ogni altro singolo individuo.

Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)

sabato 13 maggio 2017

La principale contraddizione della giurisprudenza

La legge generale concepita per i singoli individui

Aristotele aveva sostenuto che la legge giuridica generale può non comprendere casi concreti particolari: "Quando dunque le leggi parlino in generale, ma in concreto avvenga qualcosa che non rientri nell'universale, allora è cosa retta correggere la lacuna là dove il legislatore ha omesso o errato, parlando in generale; e ciò direbbe anche il legislatore stesso se fosse presente colà, e se avesse previsto la cosa, l'avrebbe regolata nella legge".*

La legge ha valore generale in quanto vale universalmente, cioè vale per il complesso degli uomini e, in quanto tale, è legge di necessità e di ordine. Ma, poiché viene applicata sui singoli individui, interviene in una sfera che è sotto il dominio degli infiniti casi. Questa è la principale contraddizione della giurisprudenza: che la legge di necessità e di ordine, in quanto è applicata ai singoli individui, è applicata a una sfera nella quale domina, al contrario, il caso e il disordine.

Aristotele, in teoria, ammetteva questa contraddizione solo per i casi particolari, ma nella pratica l'ammetteva in tutti i casi, quando sosteneva che la gente "preferisce un arbitro che guarda all'equità piuttosto che un giudice che deve attenersi rigorosamente alla legge; anzi, è per questo che è stata inventata la figura dell'arbitro".**

venerdì 12 maggio 2017

Il caso dei singoli individui e la necessità complessiva delle classi

Citando l'economista Ricardo, Marx ha sottolineato  che nel capitalismo la ricchezza è tutto e l'uomo è nulla. Dicendo che la ricchezza è tutto, si dice che ciò che s'impone necessariamente è l'interesse economico, il quale si manifesta come interesse specifico delle due classi che, rispettivamente, producono e si spartiscono la ricchezza:  la classe maggioritaria che possiede la forza lavoro per  produrre la ricchezza, senza usufruirne, e la classe minoritaria che possiede i mezzi di produzione e, con questi, il diritto di usufruire della ricchezza prodotta.

Nonostante questa opposizione antagonista di interessi, la classe maggioritaria sfruttata e quella minoritaria che sfrutta sono legate al medesimo destino: l'una ha bisogno dell'altra. Dunque, entrambe contano come protagoniste, personificando la necessità storica del capitalismo. Chi, invece, non conta è l'individuo, perché, sia esso sfruttato o sfruttatore, è dominato dal caso.

Allora, si può dire: nel capitalismo l'individuo è nulla perché la ricchezza complessiva è tutto. E, quindi, "tutto" è l'interesse della classi in relazione alla produzione e alla distribuzione della ricchezza. Dunque, anche qui ritroviamo il ruolo di comparsa dell'individuo, in quanto sottoposto indirettamente alla cieca necessità che si manifesta a lui come puro e semplice accidente casuale. Ancora una volta -e non poteva essere altrimenti, se si considera che il modo di produzione e di distribuzione capitalistico va considerato alla stregua di un processo naturale- la necessità del complesso si manifesta nell'individuo come caso, e, viceversa, l'azione casuale di molteplici singoli individui si manifesta nel complesso, ossia nelle classi, come cieca necessità.

giovedì 11 maggio 2017

La nascita del liberalismo borghese

Dopo due rivoluzioni borghesi della fine del Settecento e la controrivoluzione di inizio Ottocento, che restaurò le monarchie assolute nell'Europa continentale, iniziò, nel vecchio e nel nuovo mondo, l'epoca del liberalismo borghese. Scrive Cerroni: "Le indagini [del liberalismo] convergono sulla elaborazione teorica dei rapporti fra individuo e Stato e delle connesse libertà civili e politiche, nonché dei mezzi tecnici atti a "garantire" l'individuo contro l'arbitrio del potere e di un sistema di freni e di contrappesi capaci di limitare e regolare l'attività dello Stato".

Con il liberalismo, l'individuo diviene protagonista apparentemente necessario. Il reale arbìtrio, caratteristico dell'individuo chiuso in se stesso, nel proprio egoismo, soggetto ai capricci del caso, si oppone all'arbitrio del potere statale, che in realtà è assai meno arbitrario perché rappresenta pur sempre la necessità della comunità politica, per quanto ristretta essa sia.

Cominciamo ad esaminare le pretese del liberalismo, partendo da uno dei massimi teorici di questa dottrina, W. von Humboldt (1767-1835), prussiano di Postdam, ambasciatore a Parigi al momento dello scoppio della rivoluzione francese. Scrive Cerroni: "Humboldt mette in luce il primato individualistico nel modo moderno in forza del quale vita privata e vita pubblica divergono e la libertà della vita privata cresce a misura che diminuisce la libertà pubblica".

mercoledì 10 maggio 2017

La concezione deterministica di Rousseau sul rapporto individuo-comunità

Nel "Contratto sociale" e nell'"Emilio", J.J. Rousseau (1712-1778) ha teorizzato una soluzione del rapporto individuo-comunità, secondo la quale "ciascuno unendosi a tutti, non obbedisce tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima". In questo modo egli ha creduto di costruire l'"io comune", mediante il contratto di associazione che produce la "persona pubblica". Il contratto sociale si riduce a questo: "Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto". "Al posto della singola persona", "un corpo morale e collettivo".

Rousseau non ha potuto evitare di considerare il contrasto esistente tra la volontà (l'interesse) individuale e la volontà (l'interesse) collettivo; ma ha creduto di poterlo risolvere nel seguente modo: "ciò che l'uomo perde con il suo contratto sociale è la sua libertà naturale e un  diritto illimitato su tutto quello che lo tenta e che può essere  da lui raggiunto; ciò che egli guadagna  è la libertà civile e la proprietà di tutto quello che possiede".

martedì 9 maggio 2017

Il rapporto individuo-comunità nell'Assolutismo

Ciò che occorre sottolineare del potere assolutistico del Seicento è il concetto di sovranità come potere individuale assoluto: la volontà e l'interesse dell'individuo sovrano sono posti al di sopra della volontà e dell'interesse della comunità dei sudditi.

Il primo teorico dell'assolutismo, Jean Bodin (1529-1596), affermò il potere assoluto del monarca sulla sfera civile. Questo potere assoluto, riservato al sovrano, favorì il sorgere di una specifica forma di individualismo, quella del primato di un individuo sull'intera comunità. Ma, ancor più paradossalmente, il potere assoluto del sovrano ebbe un  effetto domino sulla corte e sulla società dei nobili, contribuendo a sviluppare un individualismo cortigiano accessorio, con qualità individuali quali la prudenza e l'astuzia, la diffidenza e la dissimulazione.

Come si espresse Gabriel Naudé, il mondo della politica divenne il mondo del successo individuale, nel quale la virtù del politico era la "prudenza mista" che "partecipa della frode e dell'inganno, le quali poi non sono altro che le caratteristiche proprie della politica, dello Stato e in generale del modo di condurre gli affari del governo", una virtù "la quale non ha altro scopo che quello di suggerire le vie più disparate e gli espedienti migliori e più opportuni per prepararci il successo".

lunedì 8 maggio 2017

Il primato della comunità sull'individuo*

Nella storia dell'uomo civilizzato la necessità complessiva della specie si è manifestata, soprattutto, nella forma parziale e ristretta del primato della comunità politica sull'individuo. Per illustrare questa tesi utilizzeremo "Il pensiero politico nei secoli" (1965) di U. Cerroni, elaborando un sintetico riepilogo storico.

Partiamo dagli antichi Greci: secondo il filosofo politico Platone, gli individui contano soltanto come membri di una comunità, alla quale devono necessariamente sottomettersi. Ne deriva la necessità di un ordinamento coercitivo che deve essere esercitato dalla comunità, attraverso i filosofi, nello Stato ideale. Scrive Platone: "La prima cosa difficile da comprendere è che una giusta politica deve badare non agli interessi del singolo ma di tutta la comunità. L'interesse comune infatti è ciò che dà validità allo Stato, quello individuale è ciò che tende a disgregarlo; difficile da comprendere è che torna a vantaggio di tutti e di ognuno, della totalità e della individualità di ambedue questi elementi dello Stato, il provvedere più alla comunità che al singolo".

Evidentemente Platone sapeva di rivolgersi a una società nella quale lo scetticismo individualista difficilmente era in grado di accettare il sacrificio dell'interesse personale all'interesse comune, e difficilmente era in grado di comprendere la soluzione platonica, ossia la necessità di provvedere più alla comunità che all'individuo.

domenica 7 maggio 2017

Le pretese verità deterministiche della conoscenza ufficiale

La maggior parte del corpo delle conoscenze create dall'uomo nel corso dei secoli e dei millenni è sempre stata il risultato di un compromesso tra la necessità pratica della conoscenza della realtà e la necessità teorica di nasconderla per motivi ideologici, politici, etici e religiosi. Perciò, chi ha voluto conoscere la realtà attraverso il corpo di conoscenze, creato nel corso dei secoli, ha dovuto, necessariamente, leggerla tra le righe, cosa possibile soltanto quando il convenzionalismo non si era ancora impossessato di tutto il campo della conoscenza.

Là dove, invece, è avvenuto, soprattutto con l'ausilio delle costruzioni matematiche, -e possiamo citare l'esempio della fisica, con la teoria della relatività, la teoria quantistica e la teoria delle stringhe-, tra le righe non c'è stato più nulla da leggere, perché la realtà è stata completamente svuotata, snaturata, annullata.

In altri campi, come nella storia, la necessità pratica di conoscere la realtà non poteva lasciare spazio al solo convenzionalismo, quindi non si è potuto evitare di trattare cose reali, quali, ad esempio, le crisi economiche e le guerre. Perciò, in questo ambito, possiamo trovare molti nessi nascosti tra le righe del convenzionalismo, che possono essere ricuciti per individuare la realtà degli accadimenti e l'ambito dei futuri scenari.

sabato 6 maggio 2017

Il genio nella storia

Non è un caso che Engels tratti la questione dei "grandi uomini" della storia dopo aver precisato il rapporto caso-necessità. Nella lettera a Starkenburg egli scrive: "Gli uomini fanno essi stessi la storia, ma sinora non la fanno, nemmeno in una determinata società ben delimitata, con una volontà generale, secondo un piano d'assieme. I loro sforzi si contrappongono gli uni agli altri, ed è questa la ragione per cui in ogni società di questo genere regna la necessità, di cui è complemento e forma di manifestazione il caso. La necessità, che s'impone qui attraverso il caso, è a sua volta, in fin dei conti, la necessità economica. Qui è il momento di trattare la questione dei grandi uomini. Il fatto  che il tale uomo, e precisamente egli, sia sorto in quel determinato momento, è naturalmente dovuta al puro caso".

Dopo aver continuato le sue considerazioni sulla necessità e sul caso, prendendo ad esempio personaggi storici, grandi condottieri, quali Napoleone e, prima ancora, Cesare, Augusto, Cromwell, ecc., Engels viene al punto del rapporto caso-necessità osservando che se la società umana facesse la sua storia secondo un piano, allora gli sforzi degli uomini concorderebbero  nella direzione voluta, moltiplicando i risultati voluti a beneficio del progresso della specie umana; ma, fino ad oggi, è prevalso il cieco rapporto caso-necessità, tipico di ogni processo naturale. Perciò, sottolinea Engels, gli sforzi degli uomini si contrappongono gli uni agli altri, e questa è la ragione per cui regna la cieca necessità che si manifesta attraverso il caso stesso.

venerdì 5 maggio 2017

Il "tipo ideale" di Weber: una razionalizzazione sociologica

La sociologia di Weber rappresenta il vano tentativo di razionalizzare il comportamento individuale casuale: il suo "tipo ideale" non rappresenta, infatti, altro che un ideale comportamento razionale del singolo individuo sociale, depurato dalla casualità. La differenza tra il "tipo ideale" di Weber e il "tipo puro" di Marx è, in primo luogo, la differenza che passa tra la determinazione del comportamento del singolo individuo, fittizia astrazione del caso, e la determinazione dell'individuo collettivo, reale astrazione della necessità. Per questo motivo la sociologia weberiana non appartiene al campo delle teorie scientifiche, ma allo sterminato campo delle costruzioni ideologiche.

Nella sua  maggiore opera, "Economia e Società", Weber si pone il problema dell'oggetto della sociologia: "la sociologia ... deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale, e quindi spiegarlo causalmente nel corso dei suoi effetti. Inoltre, per "agire", si deve intendere un atteggiamento umano (sia esso un fare o un tralasciare o un subire, di carattere esterno o interno), se e in quanto l'individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per agire "sociale" si deve intendere un agire che sia riferito [...] all'atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo".

La principale preoccupazione di Weber è stata quella di fondare una scienza che avesse come oggetto "deterministico", necessario e prevedibile, il comportamento del singolo individuo in rapporto al comportamento di altri singoli individui. Come si vede, questa impostazione teorica è nel contempo deterministica e riduzionistica: ovvero sacrifica il caso, l'accidentalità alla stregua di un disturbo, come se l'individuo, oggetto della sociologia, potesse comportarsi da oggetto di esperimento scientifico (ed è noto che gli esperimenti più riusciti, in ogni ramo della scienza, sono quelli nei quali il caso viene il più possibile neutralizzato), e non fosse, invece, un reale individuo vivente che parte da se stesso e va incontro, in ogni momento, a ogni sorta di eventi accidentali, dai quali il suo comportamento è condizionato spontaneamente, spesso in maniera irriflessa o ciecamente necessaria, come quando, ad esempio, un uomo aggredito uccide il suo aggressore sulla base soltanto di una immediatistica sensazione di pericolo per la propria vita.

giovedì 4 maggio 2017

Il ruolo dei singoli individui nella storia

Sempre nella lettera a Bloch, Engels precisa il ruolo dei singoli individui nella storia: "Ma per il fatto che le singole volontà -ognuna delle quali vuole quello che la spingono a volere la sua costituzione fisica e le circostanze esterne e in ultima istanza le circostanze economiche (o sue proprie personali, o generali e sociali)- non raggiungono quello che vogliono, ma si fondono in una media generale, in una risultante comune, per questo, non si può concludere che esse debbano essere fatte uguale a zero. Al contrario, ognuna contribuisce alla risultante ed è quindi compresa in  essa".

Se a queste precisazioni aggiungiamo i "risultati non voluti", possiamo sottolineare il paradosso secondo il quale le singole volontà, che sono comprese nella risultante, non soltanto non raggiungono sempre i risultati voluti singolarmente, ma non ottengono neppure risultati generali voluti come risultante. Engels non considera zero il contributo singolo, perché esso appartiene al risultato complessivo, alla media generale. Il caso del contributo singolo appartiene al processo storico. Inesistente, invece, deve essere considerato il nesso necessario tra le singole volontà. L'unico "nesso" qui esistente è la mancanza di nessi, ossia è il caso.

Il fondamento casuale della necessità nella storia

Nella lettera a Bloch, Engels chiarisce che: "Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me". Infatti, egli esclude che il fattore economico sia determinante. Determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale, ossia di tutto il complesso dei fenomeni sociali che riguardano la vita degli uomini in ogni epoca. Quello che viene considerato in genere, in senso deterministico, il fattore economico è, per Engels, la "situazione economica" di ogni epoca, che costituisce la base di partenza materiale di ogni generazione.

Poiché si tratta di generazioni concatenate, la base economica sarà sempre il punto di arrivo della generazione precedente e il punto di partenza della generazione successiva: generazioni che, nel loro operare, apportano continue modificazioni alla base economica, in un processo ininterrotto. La vita reale, consistendo in un complesso di fenomeni che sono la totalità dei risultati dell'attività umana, comprende sia il processo ininterrotto della base economica sia "le forme politiche della lotta di classe", "i suoi risultati", le "forme giuridiche" e persino "i riflessi di tutte queste lotte nel cervello di coloro che vi partecipano", ossia "i riflessi ideologici". Tutto questo, dice Engels, esercita la sua influenza "nel corso delle lotte storiche e in molti caso ne determina la forma in modo preponderante".

La conclusione è nota: "Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce con l'affermarsi come necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali". Tra parentesi Engels spiega che cosa debba intendersi per accidentale: "Sono cose e avvenimenti il cui legame intimo reciproco è così lontano e difficile da dimostrare che possiamo considerarlo come non esistente, che possiamo trascurarlo".

Si può qui notare che, sebbene Engels parli ancora un linguaggio deterministico, sostenendo l'affermazione della necessità in mezzo alla massa infinita di cose accidentali, in realtà si separa dal determinismo introducendo una nuova logica fondata sul rapporto caso-necessità. Infatti il nesso tra singole cose e tra singoli avvenimenti che riguardano la sfera economica, politica, giuridica e ideologica può essere trascurato solo se si presuppone che non esista alcun nesso necessario tra queste cose e tra questi avvenimenti presi singolarmente.

Esattamente come in natura, anche nella società è la massa infinita di singole accidentalità che costituisce la larga base della casualità. Ma che cosa dobbiamo considerare trascurabile e inesistente? Interpretando male Engels, si potrebbe dire, persino, che il caso è trascurabile e inesistente. Invece, per Engels, è il legame intimo tra cose e avvenimenti singoli che è inesistente e quindi può essere trascurato. Ciò che la conoscenza deve considerare inesistente, ossia inconcepibile, è la pretesa di trovare nessi necessari "nella massa infinita di cose accidentali".

Ma nella società, come nella natura, è proprio attraverso il caso relativo alla massa infinita di singole cose accidentali che si afferma la cieca necessità dei fenomeni e dei processi complessivi. In riferimento alla società, la necessità analizzabile scientificamente, mediante leggi, è l'economia. La produzione e la riproduzione della vita reale è, invece, il processo totale che contiene la legge essenziale (economica) e anche di più (le forme politiche, giuridiche, ideologiche).

"Se non fosse così
-scrive Engels- l'applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la soluzione di una semplice equazione di primo grado". Ecco la difficoltà dell'indagine storica! Che la necessità si manifesta attraverso il suo opposto, il caso; e il caso, a sua volta, si rovescia nella cieca necessità; che le forme preponderanti della storia sono date dall'alterno gioco delle forme politiche, giuridiche e ideologiche, e dai loro alterni risultati; che, infine, dall'azione reciproca tra tutte queste forme e tra queste e la produzione economica, si afferma il movimento economico come necessario.

Possiamo approfondire la difficile questione della ricostruzione storica continuando a leggere  la lettera a Bloch. Scrive Engels: "Noi facciamo noi stessi la nostra storia, ma innanzi tutto dietro premesse e in condizioni bel determinate. Tra di esse decidono, in ultima istanza, quelle economiche. Ma anche le condizioni politiche, ecc., anzi, persino la tradizione che ossessiona i cervelli degli uomini, esercitano una funzione, anche se non decisiva". Come esempio, egli riporta l'origine dello Stato prussiano per sostenere che soltanto con pedanteria si potrebbe affermare che proprio il Brandeburgo, tra i molti staterelli della Germania settentrionale, fosse destinato per necessità economica a unificare la Germania: se la necessità economica può spiegare comodamente il risultato finale, essa non può, però, spiegare come quel risultato sia saltato fuori.

Chiarito questo punto, Engels prosegue: "Ma la storia si fà in modo tale che il risultato finale balza sempre fuori da conflitti di molte volontà singole, di cui ciascuna viene determinata da una folla di condizioni speciali d'esistenza. Esistono dunque innumerevoli forze che s'incrociano, esiste un numero infinito di parallelogrammi di forza da cui nasce una risultante, l'avvenimento storico, che può essere considerato a sua volta come il prodotto di una forza che agisce come un tutto, in mondo incosciente e cieco. Perché ciò che risulta è qualcosa che nessuno ha voluto. Così la storia procede in guisa d'un processo naturale ed è anche sottoposta sostanzialmente alle stesse leggi di sviluppo".

Engels ha colto in pieno la difficoltà della scienza storica: a motivo della larga base della casualità relativa alle infinite singole volontà, la storia si comporta come un processo naturale e quindi è sottoposta alle stesse leggi di sviluppo. La storia è compendio di risultati non voluti da nessuno; eppure, diversamente dai processi della natura, infinite sono le singole volontà che, nel perseguire inifiniti scopi, "ottengono" risultati non voluti.

E con questo si rende evidente che l'autore di questo volume non ha scoperto nulla di nuovo, limitandosi a sviluppare le sue tesi dialettiche in un'epoca sufficientemente libera dai lacci deterministici, ma pur sempre sottoposta all'indeterminismo.

Tratto dalla "Dialettica caso-necessità nella storia" (2003-05)

mercoledì 3 maggio 2017

Ogni epoca storica ha il suo carattere e la sua illusione di eludere il caso

Nel primo capitolo de "L'ideologia tedesca", nel quale è illustrata la concezione materialistica della storia, possiamo trovare una fondamentale riflessione: ogni generazione eredita una massa di forze produttive, una massa di capitali e una massa di circostanze o forme di realizzazioni che danno uno specifico carattere a ogni epoca e che possono essere in parte modificate dalla nuova generazione. Perciò si può dire che le circostanze fanno gli uomini e che gli uomini fanno le circostanze. E, comunque, questo carattere rappresenta la base reale dell'epoca considerata.

E se ogni epoca ha un carattere che la contraddistingue, inteso come base materiale reale nella quale operano gli uomini della nuova generazione, è anche vero che ogni epoca ha le sue illusioni: immagina -dice Marx- d'essere determinata da motivi puramente "politici", "religiosi", "ideali". Ma la religione, la morale, la politica, l'ideologia sono solo le forme apparenti dei motivi reali. In definitiva, sostiene Marx, l'immagine, la rappresentazione illusoria che gli uomini di ogni epoca si fanno della loro prassi reale, viene concepita come l'unica forza determinante e attiva che domina l'attività pratica di questi uomini.

Mentre le reali forze motrici rappresentano la cieca necessità sorta sulla larga base della casualità, immaginare d'essere determinati da motivi politici, ideali, religiosi, ossia da motivi appartenenti alla sfera della coscienza, ha significato in ogni epoca l'illusoria eliminazione del caso. Gli uomini, in ogni epoca, si sono illusi di agire in maniera sempre necessaria e mai casuale.

martedì 2 maggio 2017

L'individualismo: una contraddizione storica

Questa è l'epoca dell'individualismo più esasperato ed esasperante,  in un mondo che dovrebbe essere preoccupato della propria sopravvivenza, minacciata da tre fondamentali pericoli: 1) la senescenza del capitalismo, ultima fase prima del suo "decesso",  2) una specie umana troppo numerosa per reggere il peso della morte del capitalismo, 3) il confronto tra continenti per l'egemonia mondiale, che, prima o poi, dovrà sopportare una vera guerra mondiale. Devo andare avanti?

Chiedo scusa perché sono partito dalla fine. Riavvolgiamo la pellicola e ripartiamo dall'inizio: dai due volumi di storia che ho scritto tra il 2003 e il 2008.  Poiché non sono in grado di pubblicarli, posso soltanto postarne una serie di paragrafi significativi, a cominciare da quelli che trattano degli individui, vittime e nel contempo carnefici della cieca necessità del passato, del presente e, inevitabilmente, del futuro.

Cominciamo dal paragrafo "L'individualismo cristiano: una contraddizione storica" (scritto per il volume: "La dialettica caso-necessità nella Storia" (2003-2005)

lunedì 1 maggio 2017

La concezione dialettica caso (singolo) - necessità (complesso)

La principale tesi di questo blog sostiene che solo la concezione dialettica, la quale parte dal caso relativo ai singoli elementi di un complesso che si rovescia nel suo opposto, nella necessità relativa al complesso stesso, è in grado di riflettere la reale evoluzione della materia. Ogni altro modo di concepire la connessione tra i quattro termini, singolo, complesso, caso, necessità, rappresenta un errore. Vedremo subito che, finora, nella storia del pensiero, nessuna combinazione tra di essi è stata trascurata, eccetto quella corretta.

1) La prima concezione, la più remota nel tempo, è quella che si è sbarazzata del caso riuscendo a concepire soltanto la necessità. Essa si è affermata fin dall'antichità nella forma della connessione di causa-effetto. Nella sua forma riduzionistica, essa parte dalla necessità relativa ai singoli costituenti e s'illude di poter determinare, come conseguenza, la necessità del complesso concepito come composto o meccanismo. Questa è la forma deterministica riduzionistica che, nella sua veste moderna, risale a Cartesio.

2) L'opposto del riduzionismo, all'interno del determinismo, è sorto in epoca molto più recente, assumendo il nome di olismo, concezione questa che parte dalla necessità relativa ai complessi, intesi ciascuno come un tutto: come un'organizzazione responsabile della necessità dei singoli elementi concepiti come parti del tutto.
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