Non sorprende il fatto che l'incomprensione del rapporto dialettico caso-necessità in biologia si sia manifestata con reiterati tentativi di eludere ora il caso, ora la necessità, ora l'uno e l'altra, nell'illusione di potersi sottrarre alla difficile questione. Darwin ha lasciato in eredità alla biologia una concezione ambigua della selezione non avendo risolto il "terribile pasticcio" del rapporto caso-necessità. Per Mayr, invece, Darwin avrebbe offerto "il modo di evitare il dilemma del caso e della necessità". C'è in queste parole il programma di un biologo che ha tentato di eludere la difficile questione della biologia, cercando una soluzione che rappresentasse la terza via tra la concezione fondata sul caso e la concezione fondata sulla necessità.
In "Biologia ed evoluzione" (1982), Mayr scrive "Sia la maggioranza dei filosofi sia gli altri oppositori di Darwin non hanno capito che la selezione naturale costituiva una terza soluzione, indipendente, del problema della casualità del cambiamento evolutivo". A questo proposito cita Sewall Wright, per il quale, "il processo darwiniano della interazione continua tra un processo aleatorio e un processo selettivo non è una mediazione tra il caso puro e il determinismo puro, ma, per le conseguenze, è qualitativamente del tutto diverso da entrambi". Come vedremo, nessuno può eludere la dialettica caso-necessità, neppure chi ha creduto di trovare una terza soluzione interpretando il "processo darwiniano" con i nuovi strumenti dell'informatica.
Mayr critica quelle che, secondo lui, sono due interpretazioni unilaterali della teoria di Darwin: la prima che sottolinea gli "aspetti violenti", distruttivi, la seconda che sottolinea la "deificazione" della natura, in quanto mira al miglioramento dei singoli organismi. Abbiamo già considerato che, in effetti, Darwin, non essendo stato in grado di risolvere il rapporto caso-necessità, fu costretto a operare vari distinguo sia sugli aspetti distruttivi della natura sia sul suo finalismo benefico nei confronti dei singoli organismi. Ma abbiamo anche visto che, riguardo al primo punto, si tratta della principale manifestazione della legge del dispendio -che né Darwin né alcun altro biologo come Mayr, ha compreso- e, riguardo al secondo punto, si tratta della principale conseguenza della mancata soluzione del rapporto caso-necessità: ossia l'inevitabile conservazione del finalismo, perché nessun biologo potrà mai sbarazzarsi definitivamente del finalismo finché non avrà risolto il suddetto rapporto.
Dal punto di vista metodologico, abbiamo già osservato che la soluzione del rapporto caso-necessità si trova nel rapporto probabilità-frequenza statistica. Mayr non comprende, però, questo rapporto; quindi non vede la soluzione; per lui la statistica si risolve in pura e semplice probabilità, la quale non determina la necessità. Infatti, scrive: "Prima di tutto la selezione naturale opera in modo statistico e, poiché non è assolutamente vero che sopravviva soltanto il migliore, si limita a dire che gli individui ben adattati hanno più occasioni e più probabilità di sopravvivere degli individui che, in un modo o nell'altro, presentino imperfezioni".
Ma, limitarsi a sottolineare la probabilità è meno di niente per la scienza, perché la probabilità rappresenta il lato casuale del rapporto polare: ciò che conta, per la scienza, è la frequenza relativa. Non vedendo la soluzione statistica del rapporto caso-necessità, Mayr inventa un processo a due tappe che è soltanto un gioco di prestigio per ammettere e contemporaneamente negare il caso. La prima tappa, egli dice, "è la produzione di una quantità di variazioni genetiche praticamente inesauribile grazie alla mutazione e alla ricombinazione". Questa tappa è sotto il dominio del caso: "Si può spiegare la causa della mutazione a livello molecolare, ma questa mutazione si dà "a caso", senza rispetto per le effettive necessità dell'organismo".
E' vero: le mutazioni sorgono a caso e senza alcuna considerazione per la necessità del singolo organismo. Può sembrare paradossale, ma è proprio questa mancanza di riguardo del caso che permette, come risultato non voluto, una evoluzione multiforme in tutte le direzioni possibili. Mutazioni che avessero avuto riguardo per le necessità dei singoli organismi, avrebbero fermato l'evoluzione fin dai primordi. Occorre, invece, un enorme dispendio, senza alcun riguardo per l'esistenza di numerosi singoli organismi, perché ogni volta prenda forma vitale l'eccezione statistica della sopravvivenza.
Affrontando la "seconda tappa" della selezione, Mayr sostiene molto giustamente che, per ogni generazione, soltanto una minima parte degli organismi sopravvivono, ma non sa comprendere il fondamento casuale di questo dispendio. Infatti, dice che "la sopravvivenza e la riproduzione non sono fenomeni accidentali", perché, secondo lui, ogni individuo è unico, con caratteristiche uniche, e quindi chi possiede caratteristiche favorevoli ha maggiori probabilità di apportare un contributo al pool genico delle generazioni successive. E conclude: "In altre parole, la seconda tappa del processo della selezione naturale, cioè la selezione, è un fattore contrario al caso".
Come si vede, Mayr sembra essere riuscito a sbarazzarsi del caso, confinandolo nella prima tappa, mentre nella seconda egli pone la selezione vera e propria che "è un fattore contrario al caso". Il contrario del caso (si dovrebbe dire: l'opposto dialettico) è la necessità, ma Mayr non lo vuole ammettere, perché lui tenta disperatamente di sbarazzarsi di entrambi i poli della difficile questione: sia il caso che la necessità.
E, infatti, conclude: "Si capisce ora perché il processo della selezione naturale si è posto al di fuori della vecchia alternativa caso-necessità": "la selezione naturale è simultaneamente un processo casuale senza per questo essere determinato". Ma se un processo casuale non può essere determinato, sarà necessariamente caotico. Però Mayr crede di più alle sue illusioni che alla logica, per cui crede che il caso non sia più un problema essendo stato confinato nella prima tappa, e rimanga, quindi, soltanto, il problema di sbarazzarsi del determinismo (ossia della necessità deterministica).
Perciò scrive: "La selezione non può essere deterministica per due ragioni: 1) i criteri che regolano la selezione sono in linea di massima nuovi ad ogni generazione poiché l'ambiente è fino a un certo punto nuovo ad ogni generazione, 2) In secondo luogo, il materiale disponibile per la selezione è anch'esso nuovo ad ogni generazione giacché, appunto, ad ogni generazione compare, a causa della ricombinazione genetica, un nuovo gruppo di individui unici. Così è evidente che la selezione non può essere deterministica".
Dalle argomentazioni di Mayr risulta evidente che "la selezione non può essere deterministica" solo perché le "novità", come lui le chiama, appartengono alla sfera del caso. E quindi siamo da capo: per sbarazzarsi della necessità deterministica, Mayr ha dovuto fare appello al caso, anche se non lo ha potuto nominare per non contraddirsi apertamente. Del resto, non può essere altrimenti: se caso e necessità non vengono concepiti dialetticamente come polarità, o l'uno o l'altra rispunterà fuori nel momento meno opportuno. E così, appena si afferma che la selezione è un "fattore contrario al caso", il caso rispunta fuori come preteso "fattore" di "novità".
Annaspando nelle sue contrarietà, Mayr cerca di uscirne fuori appoggiandodi all'autorità del premio Nobel, Jacob, citandolo: "La selezione naturale dà una direzione nei cambiamenti, orienta il caso e produce lentamente, progressivamente strutture più complesse, nuovi organismi e nuove specie. Le novità provengono dall'associazione, prima non riconosciuta, di materiale antico. Creare è ricombinare".
Se fosse questa la selezione naturale, non si distinguerebbe dall'allevamento delle razze animali. La natura, quindi, imiterebbe il modo di operare dell'uomo. Mayr e Jacob non fanno che trasformare l'analogia con l'allevamento, utilizzata da Darwin, nel reale modo di produzione naturale. Ma, così facendo, non si può evitare di trasferire alla natura quel finalismo che è la specifica peculiarità dell'allevamento guidato dall'uomo. Mayr giunge, invece, fino al punto di negare l'evidenza, pretendendo che la concezione della selezione naturale "non è deterministica né finalistica, ma scopre soltanto (sic!) soluzioni sfruttando circostanze a proprio vantaggio".
Dopo aver sostenuto che la selezione naturale, orientando il caso, producendo sempre nuove combinazioni, verificandone persino il valore adattivo e scoprendo persino soluzioni a proprio vantaggio, è creativa, come fa, poi, Mayr a negare il finalismo e il determinismo implicito in questa concezione? Un qualsiasi allevatore, facendo appello alla sua sola esperienza pratica, potrebbe assicurarci che se la selezione naturale operasse in tal modo sarebbe la stessa cosa del suo allevamento, dove il caso è orientato nella direzione voluta per fini prefissati, stabiliti ogni volta che si sceglie una varietà e se ne scartano altre.
Nella teoria scientifica, negare non significa dire no, come il ladro che, preso col malloppo, nega d'aver rubato. Mayr può negare fin che vuole, ma la sua posizione sfocia nel più rigido determinismo: se Darwin fu accusato, e con qualche ragione, di aver deificato la natura, Mayr, a maggior ragione, può essere accusato d'aver deificato la selezione naturale perché l'ha considerata il deus ex machina della evoluzione. Non a caso egli è posto tra i "selezionisti" contrapposti ai "finalisti".
Interessante, a questo punto, verificare il fallimento della concezione di Mayr con l'argomento dell'estinzione, da lui stesso preso in considerazione. Dovendo difendere la sua tesi dall'obiezione che la selezione naturale, nel dirigere l'evoluzione, va incontro a molti insuccessi, Mayr cita come insuccesso più palese l'estinzione delle specie e si chiede persino perché la selezione non l'abbia impedita "considerando che le specie estinte sono mille o diecimila volte superiori alle specie attuali viventi". E, dopo aver fornito questo dato che testimonia il gigantesco dispendio biologico, Mayr si chiede se non sarebbe stato meglio evitare tanta distruzione "piuttosto che sviluppare, ad esempio , la coda del pavone che ha raggiunto una così rara perfezione".
Insomma, la selezione naturale, come deus ex machina della evoluzione, fa proprio un brutta figura: sarebbe come se un allevatore, per creare un capo eccezionale, dovesse distruggerne mille o diecimila. Di fronte a questo "Mistero" di inefficienza della selezione naturale, Mayr si chiede sconsolato: "Potrebbe uno studio più accurato risolvere il problema dell'ambivalenza della selezione naturale?" La risposta è laconica: "Forse".
L'aver escogitato la "terza via" per eludere il rapporto caso-necessità, così da sottrarsi alle contraddizioni irrisolte della teoria di Darwin, non è servito ad altro che a far sbattere il naso contro il problema dell'"ambivalenza" della selezione naturale, che impedisce a Mayr di giustificare la sua impostazione selezionistica. E soltanto un modo di pensare meschino e masochistico può trovare consolazione nel fatto che "l'estinzione delle specie come fatto indubitabile, può essere imbarazzante per i selezionisti, ma lo è ancora di più per i finalisti. Infatti, come potrebbe estinguersi un ceppo filetico se possedesse una tendenza estrinseca verso la perfezione?"
Ma il dispendio che si manifesta nelle estinzioni delle specie non si concilia né con la finalistica tendenza alla perfezione, né con la pretesa che la selezione naturale sia capace di orientare l'evoluzione delle specie. E non sappiamo quale delle due tesi sia più imbarazzata dal dispendio, dato che sia l'una che l'altra vengono ugualmente smentite Ma si può dire di più: entrambe sono accomunate dal medesimo destino, quello di scambiarsi le parti: infatti, come i finalisti non possono negare del tutto la selezione, così i selezionisti non possono negare del tutto il finalismo, giacché, se lo negano nella forma teleologica, lo affermano nella forma teleonomica.
In "Evoluzione e varietà dei viventi" (1983), Mayr riporta una delle obiezioni dei finalisti: "Ma tutti questi adattamenti sono così finalizzati che ci deve essere una forza interna finalistica". E controbatte: "Ci opponiamo categoricamente (sic!) a questo modo di pensare. Un individuo può avere uno scopo ma la linea dell'evoluzione no. Non c'è, infatti, assolutamente alcuna necessità, alcuna scusa, per considerare un adattamento come prova di finalità".
Per capire che cosa intenda Mayr con la sua opposizione categorica, citiamo quest'altro passo: "I portatori dell'informazione ben riuscita saranno i progenitori della generazione successiva. L'individuo sarà capace di agire finalisticamente perché dotato dell'informazione giusta. Esso è "programmato" come un computer elettronico che si permette di difendersi dalle vicissitudini dello sviluppo e della vita. Tuttavia questo tipo di programma per la "vita" di una linea evolutiva non esiste".
Insomma, Mayr nega il finalismo per le linee evolutive, ovvero per i complessi di organismi, specie, generi, ecc., mentre lo afferma per i singoli organismi, in quanto portatori di un programma. Mediante il programma, egli determina il singolo organismo e lo determina finalisticamente nella forma teleonomica. Ecco l'errore di fondo della concezione teleonomica: considerare selezione finalizzata dal programma quella che è, in realtà, la sorte casuale dei singoli organismi nel groviglio della natura. Quando si sostiene che ogni individuo è dotato di programma, si dimentica che, ad ogni nuova generazione, soltanto un piccolo numero di nuovi nati sopravvive. Per Darwin questo dato di fatto doveva giustificare la lotta per la sopravvivenza, mentre, di fatto, rappresenta la principale manifestazione della legge del dispendio in biologia. Così, se dovessimo ammettere i "programmi", dovremmo esclamare: quanti programmi individuali sprecati!
La soluzione definitiva di Mayr è la seguente: "Il prodotto della selezione è l'adattamento, e l'adattabilità degli organismi e la loro utilizzazione dell'ambiente migliora di generazione in generazione, fino a sembrare così perfetta da dare l'impressione di essere il prodotto di un piano. In parole povere, la soluzione del paradosso di Darwin è che la selezione naturale trasforma l'incidente in un piano". Insomma, Mayr non ha saputo, neppure, interpretare i suoi stessi erronei argomenti. Nella sua concezione non è l'incidente casuale che si traforma in un piano necessario, perché il piano c'è già, essendo un presupposto, ma esisterebbe soltanto a livello dei singoli organismi come loro fittizio programma.
In "Biologia ed evoluzione" (1982), Mayr scrive "Sia la maggioranza dei filosofi sia gli altri oppositori di Darwin non hanno capito che la selezione naturale costituiva una terza soluzione, indipendente, del problema della casualità del cambiamento evolutivo". A questo proposito cita Sewall Wright, per il quale, "il processo darwiniano della interazione continua tra un processo aleatorio e un processo selettivo non è una mediazione tra il caso puro e il determinismo puro, ma, per le conseguenze, è qualitativamente del tutto diverso da entrambi". Come vedremo, nessuno può eludere la dialettica caso-necessità, neppure chi ha creduto di trovare una terza soluzione interpretando il "processo darwiniano" con i nuovi strumenti dell'informatica.
Mayr critica quelle che, secondo lui, sono due interpretazioni unilaterali della teoria di Darwin: la prima che sottolinea gli "aspetti violenti", distruttivi, la seconda che sottolinea la "deificazione" della natura, in quanto mira al miglioramento dei singoli organismi. Abbiamo già considerato che, in effetti, Darwin, non essendo stato in grado di risolvere il rapporto caso-necessità, fu costretto a operare vari distinguo sia sugli aspetti distruttivi della natura sia sul suo finalismo benefico nei confronti dei singoli organismi. Ma abbiamo anche visto che, riguardo al primo punto, si tratta della principale manifestazione della legge del dispendio -che né Darwin né alcun altro biologo come Mayr, ha compreso- e, riguardo al secondo punto, si tratta della principale conseguenza della mancata soluzione del rapporto caso-necessità: ossia l'inevitabile conservazione del finalismo, perché nessun biologo potrà mai sbarazzarsi definitivamente del finalismo finché non avrà risolto il suddetto rapporto.
Dal punto di vista metodologico, abbiamo già osservato che la soluzione del rapporto caso-necessità si trova nel rapporto probabilità-frequenza statistica. Mayr non comprende, però, questo rapporto; quindi non vede la soluzione; per lui la statistica si risolve in pura e semplice probabilità, la quale non determina la necessità. Infatti, scrive: "Prima di tutto la selezione naturale opera in modo statistico e, poiché non è assolutamente vero che sopravviva soltanto il migliore, si limita a dire che gli individui ben adattati hanno più occasioni e più probabilità di sopravvivere degli individui che, in un modo o nell'altro, presentino imperfezioni".
Ma, limitarsi a sottolineare la probabilità è meno di niente per la scienza, perché la probabilità rappresenta il lato casuale del rapporto polare: ciò che conta, per la scienza, è la frequenza relativa. Non vedendo la soluzione statistica del rapporto caso-necessità, Mayr inventa un processo a due tappe che è soltanto un gioco di prestigio per ammettere e contemporaneamente negare il caso. La prima tappa, egli dice, "è la produzione di una quantità di variazioni genetiche praticamente inesauribile grazie alla mutazione e alla ricombinazione". Questa tappa è sotto il dominio del caso: "Si può spiegare la causa della mutazione a livello molecolare, ma questa mutazione si dà "a caso", senza rispetto per le effettive necessità dell'organismo".
E' vero: le mutazioni sorgono a caso e senza alcuna considerazione per la necessità del singolo organismo. Può sembrare paradossale, ma è proprio questa mancanza di riguardo del caso che permette, come risultato non voluto, una evoluzione multiforme in tutte le direzioni possibili. Mutazioni che avessero avuto riguardo per le necessità dei singoli organismi, avrebbero fermato l'evoluzione fin dai primordi. Occorre, invece, un enorme dispendio, senza alcun riguardo per l'esistenza di numerosi singoli organismi, perché ogni volta prenda forma vitale l'eccezione statistica della sopravvivenza.
Affrontando la "seconda tappa" della selezione, Mayr sostiene molto giustamente che, per ogni generazione, soltanto una minima parte degli organismi sopravvivono, ma non sa comprendere il fondamento casuale di questo dispendio. Infatti, dice che "la sopravvivenza e la riproduzione non sono fenomeni accidentali", perché, secondo lui, ogni individuo è unico, con caratteristiche uniche, e quindi chi possiede caratteristiche favorevoli ha maggiori probabilità di apportare un contributo al pool genico delle generazioni successive. E conclude: "In altre parole, la seconda tappa del processo della selezione naturale, cioè la selezione, è un fattore contrario al caso".
Come si vede, Mayr sembra essere riuscito a sbarazzarsi del caso, confinandolo nella prima tappa, mentre nella seconda egli pone la selezione vera e propria che "è un fattore contrario al caso". Il contrario del caso (si dovrebbe dire: l'opposto dialettico) è la necessità, ma Mayr non lo vuole ammettere, perché lui tenta disperatamente di sbarazzarsi di entrambi i poli della difficile questione: sia il caso che la necessità.
E, infatti, conclude: "Si capisce ora perché il processo della selezione naturale si è posto al di fuori della vecchia alternativa caso-necessità": "la selezione naturale è simultaneamente un processo casuale senza per questo essere determinato". Ma se un processo casuale non può essere determinato, sarà necessariamente caotico. Però Mayr crede di più alle sue illusioni che alla logica, per cui crede che il caso non sia più un problema essendo stato confinato nella prima tappa, e rimanga, quindi, soltanto, il problema di sbarazzarsi del determinismo (ossia della necessità deterministica).
Perciò scrive: "La selezione non può essere deterministica per due ragioni: 1) i criteri che regolano la selezione sono in linea di massima nuovi ad ogni generazione poiché l'ambiente è fino a un certo punto nuovo ad ogni generazione, 2) In secondo luogo, il materiale disponibile per la selezione è anch'esso nuovo ad ogni generazione giacché, appunto, ad ogni generazione compare, a causa della ricombinazione genetica, un nuovo gruppo di individui unici. Così è evidente che la selezione non può essere deterministica".
Dalle argomentazioni di Mayr risulta evidente che "la selezione non può essere deterministica" solo perché le "novità", come lui le chiama, appartengono alla sfera del caso. E quindi siamo da capo: per sbarazzarsi della necessità deterministica, Mayr ha dovuto fare appello al caso, anche se non lo ha potuto nominare per non contraddirsi apertamente. Del resto, non può essere altrimenti: se caso e necessità non vengono concepiti dialetticamente come polarità, o l'uno o l'altra rispunterà fuori nel momento meno opportuno. E così, appena si afferma che la selezione è un "fattore contrario al caso", il caso rispunta fuori come preteso "fattore" di "novità".
Annaspando nelle sue contrarietà, Mayr cerca di uscirne fuori appoggiandodi all'autorità del premio Nobel, Jacob, citandolo: "La selezione naturale dà una direzione nei cambiamenti, orienta il caso e produce lentamente, progressivamente strutture più complesse, nuovi organismi e nuove specie. Le novità provengono dall'associazione, prima non riconosciuta, di materiale antico. Creare è ricombinare".
Se fosse questa la selezione naturale, non si distinguerebbe dall'allevamento delle razze animali. La natura, quindi, imiterebbe il modo di operare dell'uomo. Mayr e Jacob non fanno che trasformare l'analogia con l'allevamento, utilizzata da Darwin, nel reale modo di produzione naturale. Ma, così facendo, non si può evitare di trasferire alla natura quel finalismo che è la specifica peculiarità dell'allevamento guidato dall'uomo. Mayr giunge, invece, fino al punto di negare l'evidenza, pretendendo che la concezione della selezione naturale "non è deterministica né finalistica, ma scopre soltanto (sic!) soluzioni sfruttando circostanze a proprio vantaggio".
Dopo aver sostenuto che la selezione naturale, orientando il caso, producendo sempre nuove combinazioni, verificandone persino il valore adattivo e scoprendo persino soluzioni a proprio vantaggio, è creativa, come fa, poi, Mayr a negare il finalismo e il determinismo implicito in questa concezione? Un qualsiasi allevatore, facendo appello alla sua sola esperienza pratica, potrebbe assicurarci che se la selezione naturale operasse in tal modo sarebbe la stessa cosa del suo allevamento, dove il caso è orientato nella direzione voluta per fini prefissati, stabiliti ogni volta che si sceglie una varietà e se ne scartano altre.
Nella teoria scientifica, negare non significa dire no, come il ladro che, preso col malloppo, nega d'aver rubato. Mayr può negare fin che vuole, ma la sua posizione sfocia nel più rigido determinismo: se Darwin fu accusato, e con qualche ragione, di aver deificato la natura, Mayr, a maggior ragione, può essere accusato d'aver deificato la selezione naturale perché l'ha considerata il deus ex machina della evoluzione. Non a caso egli è posto tra i "selezionisti" contrapposti ai "finalisti".
Interessante, a questo punto, verificare il fallimento della concezione di Mayr con l'argomento dell'estinzione, da lui stesso preso in considerazione. Dovendo difendere la sua tesi dall'obiezione che la selezione naturale, nel dirigere l'evoluzione, va incontro a molti insuccessi, Mayr cita come insuccesso più palese l'estinzione delle specie e si chiede persino perché la selezione non l'abbia impedita "considerando che le specie estinte sono mille o diecimila volte superiori alle specie attuali viventi". E, dopo aver fornito questo dato che testimonia il gigantesco dispendio biologico, Mayr si chiede se non sarebbe stato meglio evitare tanta distruzione "piuttosto che sviluppare, ad esempio , la coda del pavone che ha raggiunto una così rara perfezione".
Insomma, la selezione naturale, come deus ex machina della evoluzione, fa proprio un brutta figura: sarebbe come se un allevatore, per creare un capo eccezionale, dovesse distruggerne mille o diecimila. Di fronte a questo "Mistero" di inefficienza della selezione naturale, Mayr si chiede sconsolato: "Potrebbe uno studio più accurato risolvere il problema dell'ambivalenza della selezione naturale?" La risposta è laconica: "Forse".
L'aver escogitato la "terza via" per eludere il rapporto caso-necessità, così da sottrarsi alle contraddizioni irrisolte della teoria di Darwin, non è servito ad altro che a far sbattere il naso contro il problema dell'"ambivalenza" della selezione naturale, che impedisce a Mayr di giustificare la sua impostazione selezionistica. E soltanto un modo di pensare meschino e masochistico può trovare consolazione nel fatto che "l'estinzione delle specie come fatto indubitabile, può essere imbarazzante per i selezionisti, ma lo è ancora di più per i finalisti. Infatti, come potrebbe estinguersi un ceppo filetico se possedesse una tendenza estrinseca verso la perfezione?"
Ma il dispendio che si manifesta nelle estinzioni delle specie non si concilia né con la finalistica tendenza alla perfezione, né con la pretesa che la selezione naturale sia capace di orientare l'evoluzione delle specie. E non sappiamo quale delle due tesi sia più imbarazzata dal dispendio, dato che sia l'una che l'altra vengono ugualmente smentite Ma si può dire di più: entrambe sono accomunate dal medesimo destino, quello di scambiarsi le parti: infatti, come i finalisti non possono negare del tutto la selezione, così i selezionisti non possono negare del tutto il finalismo, giacché, se lo negano nella forma teleologica, lo affermano nella forma teleonomica.
In "Evoluzione e varietà dei viventi" (1983), Mayr riporta una delle obiezioni dei finalisti: "Ma tutti questi adattamenti sono così finalizzati che ci deve essere una forza interna finalistica". E controbatte: "Ci opponiamo categoricamente (sic!) a questo modo di pensare. Un individuo può avere uno scopo ma la linea dell'evoluzione no. Non c'è, infatti, assolutamente alcuna necessità, alcuna scusa, per considerare un adattamento come prova di finalità".
Per capire che cosa intenda Mayr con la sua opposizione categorica, citiamo quest'altro passo: "I portatori dell'informazione ben riuscita saranno i progenitori della generazione successiva. L'individuo sarà capace di agire finalisticamente perché dotato dell'informazione giusta. Esso è "programmato" come un computer elettronico che si permette di difendersi dalle vicissitudini dello sviluppo e della vita. Tuttavia questo tipo di programma per la "vita" di una linea evolutiva non esiste".
Insomma, Mayr nega il finalismo per le linee evolutive, ovvero per i complessi di organismi, specie, generi, ecc., mentre lo afferma per i singoli organismi, in quanto portatori di un programma. Mediante il programma, egli determina il singolo organismo e lo determina finalisticamente nella forma teleonomica. Ecco l'errore di fondo della concezione teleonomica: considerare selezione finalizzata dal programma quella che è, in realtà, la sorte casuale dei singoli organismi nel groviglio della natura. Quando si sostiene che ogni individuo è dotato di programma, si dimentica che, ad ogni nuova generazione, soltanto un piccolo numero di nuovi nati sopravvive. Per Darwin questo dato di fatto doveva giustificare la lotta per la sopravvivenza, mentre, di fatto, rappresenta la principale manifestazione della legge del dispendio in biologia. Così, se dovessimo ammettere i "programmi", dovremmo esclamare: quanti programmi individuali sprecati!
La soluzione definitiva di Mayr è la seguente: "Il prodotto della selezione è l'adattamento, e l'adattabilità degli organismi e la loro utilizzazione dell'ambiente migliora di generazione in generazione, fino a sembrare così perfetta da dare l'impressione di essere il prodotto di un piano. In parole povere, la soluzione del paradosso di Darwin è che la selezione naturale trasforma l'incidente in un piano". Insomma, Mayr non ha saputo, neppure, interpretare i suoi stessi erronei argomenti. Nella sua concezione non è l'incidente casuale che si traforma in un piano necessario, perché il piano c'è già, essendo un presupposto, ma esisterebbe soltanto a livello dei singoli organismi come loro fittizio programma.
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