sabato 8 aprile 2017

La logica capitalistica della necessità fondata sul caso

Abbiamo visto, nel precedente paragrafo, che la soluzione statistica del saggio generale del profitto non poteva appagare l'istanza deterministica dei contemporanei di Marx, delusa dal concetto di media. E non è riuscita a dissuaderli dalla pretesa di determinare le singole manifestazioni delle "oscillazioni incessanti", anche perché lo stesso Marx non ha fatto del concetto di media una questione di teoria della conoscenza, allo scopo di sostituire il determinismo con una nuova concezione della necessità fondata sul caso. Non ci resta, perciò, che approfondire il motivo di questa lacuna.

Nelle "considerazioni complementari" del capitolo 12* troviamo un passo nel quale l'analogia tra singolo capitalista e semplice azionista si trasforma in una identità: "L'idea fondamentale è quella del profitto medio, vale a dire che i capitali di pari grandezza devono dare nel medesimo spazio di tempo profitti uguali. Essa si fonda a sua volta sul principio che il capitale di ogni sfera di produzione deve partecipare, pro rata della sua entità, al plusvalore complessivo estorto agli operai dal capitale complessivo sociale; ossia che ogni capitale individuale deve essere considerato come una frazione del capitale complessivo, e che ogni capitalista non è in realtà che un semplice azionista dell'impresa complessiva della società, che partecipa al profitto complessivo in proporzione della sua quota di capitale".


Qui Marx sembra aver tacitato ogni dubbio personale sulla questione, ma questa interpretazione è inaccettabile, perché, se la classe dei capitalisti forma un tutt'uno necessario in relazione alla produzione del plusvalore e quindi del profitto complessivo, riguardo alla distribuzione individuale di questo profitto ognuno va per la sua strada... accidentata dal caso. La conseguenza sarebbe che una legge che regola necessariamente la produzione del plusvalore si rovescia nel suo opposto, nella irregolarità prodotta dal caso nella distribuzione del plusvalore nella forma di profitto.

La cosa non deve stupire: è una qualità, inerente la produzione capitalistica, la produzione complessiva del plusvalore, del profitto, e quindi del saggio medio del profitto in generale. Diversamente stanno le cose quando si prenda in considerazione la distribuzione del plusvalore nella forma del profitto. La distribuzione non è complessiva, è individuale! Così, è casuale che Tizio ne riceva di più e Caio di meno. Forzando l'analogia tra singolo capitalista e azionista, trasformandola in una identità, Marx, ragionando da determinista riduzionista, ha ritenuto di eliminare ogni equivoco, attribuendo carattere di necessità non solo al complesso dei capitalisti ma anche al singolo capitalista nei riguardi del profitto medio. Ma se si ragiona da deterministi riduzionisti i fatti sono due: o la necessità a livello dei singoli determina come somma la necessità a livello del complesso o, viceversa, la necessità a livello del complesso determina per divisione la necessità a livello dei singoli.

Quando Marx ragiona da determinista riduzionista può, come nell'esempio del singolo capitalista = azionista, attribuire la necessità al singolo per divisione, partendo dalla necessità del complesso. Ma può fare anche l'opposto. Nel cap. 19* dal titolo "Livellamento del saggio generale del profitto", troviamo questo passo: "Considerando le cose più da vicino si vede che le medesime condizioni che determinano il valore di una singola merce, si ripresentano qui come condizioni che determinano il valore dell'insieme delle merci di uno stesso tipo".

Abbiamo già visto che Marx, partendo dal confronto tra singole merci, non scopre subito relazioni necessarie. Tutt'altro: egli scopre solo alla fine la necessità statistica in relazione ai complessi di merci. Ancor più paradossale è che egli giustifichi la sua affermazione sostenendo che "questo si verifica perché la produzione capitalistica è per sua natura produzione in massa", e perché anche in altri modi di produzione la merce, persino quando è prodotta da molti singoli produttori, conta perché viene ammassata dai commercianti che la "vendono come prodotto comune" o "come un contingente più o meno considerevole". Ma proprio questa è la ragione che permette la necessità solo a livello complessivo!

Nel mio volume dedicato alla teoria della conoscenza**, trattando la concezione di Hegel, ho osservato che se chiamiamo effetto la necessità prodotta dal caso (come rovesciamento dialettico), il caso scompare e rimane la necessità deterministica, intesa come l'effetto prodotto da una causa. E' questo l'errore deterministico. Ma se concepiamo la "dialettica caso-necessità", la necessità è il rovesciamento del caso e viceversa, e ciò avviene soltanto perché la necessità è il cieco risultato statistico complessivo di un gran numero di singoli elementi soggetti al caso. Dunque, il caso relativo ai singoli numerosi elementi di un complesso si rovescia nella necessità statistica complessiva e, viceversa, la necessità statistica complessiva si rovescia nel caso relativo ai singoli numerosi elementi.

Soltanto con questa soluzione logica si elimina ogni equivoco, altrimenti si possono raggiungere anche risultati scientifici reali, ma non è possibile renderne ragione in maniera completa perché il determinismo reclamerà sempre la sua parte. Potremmo dire che l'invocazione del determinismo, nell'epoca del suo dominio sul pensiero umano (nell'Ottocento), ha sempre assillato menti geniali come Hegel, Marx, Engels, Darwin. E se è accaduto che queste menti geniali abbiano trovato soluzioni reali, è stato perché non sempre, nella loro indagine, hanno ascoltato il canto della sirena determinista.

Soprattutto Marx ed Engels, guidati dalla dialettica materialistica, non si sono fatti dominare dal determinismo nelle loro indagini empiriche, anche se nella teoria non sono riusciti a sbarazzarsene del tutto. E' ciò che possiamo verificare riprendendo uno degli ultimi capitoli del Capitale, il 48°, nel quale Marx tratta la "formula trinitaria", prendendo in considerazione come vero protagonista non il singolo capitalista e neppure la totalità dei capitalisti, ma il capitale complessivo: "Il capitale -e il capitalista è soltanto il capitale personificato che agisce nel processo di produzione soltanto come depositario del capitale- spreme nel processo di produzione sociale che gli corrisponde una certa quantità di pluslavoro dai produttori diretti, o operai. Pluslavoro che il capitale ricava senza equivalente e che rimane sempre, in sostanza, lavoro forzato, nonostante che possa apparire il risultato di un libero accordo contrattuale. Questo pluslavoro è rappresentato da un plusvalore, e questo plusvalore esiste in un plusprodotto".

Abbiamo riportato questo brano per sottolineare che il punto di partenza è il processo complessivo del capitale, il cui risultato assolutamente necessario è il serbatoio di plusvalore prodotto. Ma questo plusvalore, contenuto nella merce complessiva prodotta, deve essere realizzato. La circolazione delle merci permette la realizzazione del plusvalore nella forma di profitto. Ma una prima conseguenza è che il plusvalore non sembra semplicemente realizzarsi nella circolazione, sembrando sgorgare da essa. E ciò appare convalidato da due circostanze: "in primo luogo il profitto per alienazione, che dipende da truffa, furbizia, esperienza, abilità e migliaia di fattori che influiscono sul mercato, in secondo luogo dalla circostanza che qui, accanto al tempo di lavoro, compare un secondo elemento determinante, il tempo di circolazione. Questo opera sì soltanto come limite negativo della creazione di valore e plusvalore, ma appare come se fosse una causa [ecco il determinismo dominante!] altrettanto positiva quanto il lavoro stesso..."

Astraendo dalla seconda circostanza, che comporta un altro genere di riflessioni, e che dovremo affrontare in altro luogo, riguardo alla prima ci troviamo di fronte non a molteplici cause o fattori, ma alla molteplicità della sfera del caso chiamata concorrenza. E qui Marx coglie perfettamente nel segno, coerentemente con la dialettica caso-necessità: "Nella realtà però questa sfera è la sfera della concorrenza che, considerata nei suoi singoli avvenimenti, è dominata dal caso; in cui dunque la legge interna che si attua in questi casi, e che li regola, è visibile solo quando questi casi sono riuniti in gran numero; in cui dunque questa legge rimane invisibile e incomprensibile ai singoli agenti  della produzione".

Questa legge invisibile (soprattutto ai deterministi) è valida in generale e potrebbe essere espressa con le stesse parole di Marx per tutte le sfere del capitale complessivo mondiale. Il fatto che Marx non abbia generalizzato questa soluzione di metodo -ossia che i singoli sono dominati dal caso e il gran numero di essi, ovvero il complesso dei singoli è dominato da una legge interna regolatrice, la media statistica, che però è una cieca legge di necessità perché fondata sul caso dei grandi numeri- è la sola ragione per cui sono potuti sorgere e quivoci e dubbi, soprattutto riguardo alla soluzione del saggio medio del profitto.

*  "Il Capitale"

** "La dialettica caso-necessità -Teoria della conoscenza"

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