mercoledì 2 novembre 2011

Lezione 8° Marquard: un'apologia scettica del caso

Lo scettico Odo Marquard, in "Apologia del caso" (1991), scrive: "Uno dei peggiori nemici della libertà e della dignità dell'uomo sembra essere il caso. Ciò malgrado, vorrei quasi interporre una buona parola in favore del caso, in favore dell'accidentale. Parlerò forse, allora, contro la libertà e la dignità dell'uomo? Nient'affatto. Voglio solo dire che sarebbe segno di una mancanza di libertà se l'uomo, indegnamente, vivesse al di sopra dei propri mezzi: al di sopra della sua condizione di finitudine. L'uomo, lo voglia o no, dovrà riconoscere l'accidentale facendone l'apologia. Ecco la mia tesi".

L'apologia dell'accidentale e il "riconoscimento" del ruolo fondamentale del caso appartengono a un lontano passato, appartengono alla teoria di Epicuro, come abbiamo già visto. Marquard non fa che riproporre una concezione epicurea, perciò la sua tesi può essere considerata anarchica. Eppure, diversamente da Epicuro che considerava il caso come propizio per la libertà, Marquard parte dalla considerazione opposta del caso come uno dei peggiori nemici della libertà; ma poi capovolge la realtà perché, come vedremo, non è in grado di interpretarla come dialettica di caso e necessità.

Riguardo al rapporto caso-necessità, Marquard cerca lumi presso Aristotele, il quale "riconobbe l'accidentale come ciò che non è né impossibile, né necessario e dunque come ciò che potrebbe anche non essere o essere altrimenti. Questo accidentale-contingente- si costituì in problema sotto almeno tre aspetti: a) in quanto contrario del necessario, ovvero b) in quanto fondamento del necessario, ovvero c) in altri modi ancora".

Sotto il punto a), il problema è posto da Aristotele nei seguenti termini: "Si necessarium, unde contingens?" L'autore commenta: "Il caso è, sembra, la necessità non riuscita". Sotto il punto b) troviamo il problema opposto: "Si contingens, unde necessarium?" Tale domanda scrive Marquard, "è divenuta attuale dal punto di vista della teoria dell'evoluzione e complessivamente, se si dà il caos, donde poi l'ordine? La necessità è, sembra, la riuscita del caso". Infine, sotto il punto c) "I casi possono sorgere -anche ciò è stato visto da Aristotele per primo- per il fatto che catene di determinazione indipendenti fra loro s'incontrano inaspettatamente l'una con l'altra".

Chiediamoci: 1) se si concepisce solo la necessità, intesa come connessione di causa ed effetto, da dove viene il caso? Esso può essere soltanto la necessità non riuscita, oppure l'accidentale intersezione di due catene causali indipendenti (il determinismo poteva dare soltanto queste due risposte parziali e limitate, che non risolvevano il problema), 2) se, al contrario, si concepisce solo il caso, da dove viene la necessità? Essa appare come la riuscita del caso, ovvero -come si dice oggi- come "caso imbrigliato".

Da quando la scienza, soprattutto a partire da Darwin, si è resa conto delle variazioni casuali presenti nei più diversi processi naturali, si è chiesta con preoccupazione come potesse la necessità derivare dal caso. La risposta che la necessità è la riuscita del caso non risolve il problema. Soltanto concependo, per i singoli elementi (oggetti o individui), una casualità oggettiva che si rovescia dialetticamente nella necessità dei complessi di questi elementi, si può comprendere la derivazione della necessità dal caso e, viceversa, il rovesciamento della necessità in casualità.

Perciò, quando si sostiene che il caso sembra essere la necessità non riuscita, ciò ha senso solo se si tiene presente la dialettica singolo-complesso in connessione alla dialettica caso-necessità: ossia, solo se si parte dal presupposto della oggettiva casualità dei singoli elementi che si rovescia nella oggettiva necessità dei loro complessi. Allora, data la necessità di un complesso, questa per il singolo elemento è soltanto una possibilità che può anche non realizzarsi: solo in questo senso, il caso appare come una necessità non riuscita. Così la necessità della riproduzione della specie è per la singola coppia soltanto una possibilità che il caso può anche impedire. Ma, a sua volta, poiché la necessità della riproduzione di una specie si affida soltanto alla casuale riproduzione di singole coppie, qui la necessità appare come la riuscita del caso: affermazione che ha senso solo se si tiene presente che la necessità complessiva è sempre il rovesciamento della casualità singolare.

Per Marquard, come singoli individui, noi siamo soltanto "i nostri accidenti", ma come specie? Di fronte alla determinazione dell'azione dell'uomo, senza distinguere tra azione individuale e azione collettiva, il determinismo ha sostenuto il primato della scelta, l'indeterminismo il primato degli accidenti e l'eclettismo ha considerato sia l'uno che l'altro, incapace di trovare il nesso specifico. Queste tre posizioni continuano a sussistere nella teoria della conoscenza soltanto perché essa non ha mai preso in considerazione, finora, la distinzione tra singoli uomini e complessi di uomini. Quando, ad esempio, Marquard ci ricorda che l'uomo non può essere assoluto, perché è finito, perché la vita individuale è breve, egli vede soltanto l'individuo, il singolo, non vede la specie, il complesso.

Marquard scrive: "Dalla nascita, per un puro caso del destino, noi siamo condannati alla morte, vale a dire a quella brevità della vita che non ci lascia il tempo di liberarci a nostro piacimento da ciò che per caso già siamo. La nostra mortalità ci obbliga ad "essere", vale a dire a restare in prevalenza quel caso del destino che è per noi il nostro passato". L'autore attribuisce qui alla brevità della vita ciò che invece va ascritto a determinate circostanze casuali che ogni individuo eredita nascendo.

Infatti, come abbiamo appreso da Engels, è puramente casuale che si possa nascere appartenenti ad una data razza, etnia, religione, classe, nazione, ma non è affatto casuale che esista una specie umana divisa e che al suo interno confliggano diverse razze, etnie, religioni, classi, nazioni. E se qualcuno cerca di ribellarsi al duro fato, non accettando lotte ereditate, non trova di fronte a intralciarlo la brevità della vita, ma tutta una serie di dure necessità, cui spesso è costretto ad arrendersi per non soccombere, o, viceversa, soccombe per non essersi arreso.

Non vedendo la necessità collettiva, perché prende in considerazione soltanto il singolo individuo per il quale vale l'oggettiva casualità, Marquard ha buon gioco nel sottolineare la casualità "umana". E se i casi sono tanti, ampia appare la possibilità di scelta. Così lo scettico Marquard vede nella "policromia" dell'accidentalità la chance umana della libertà. Non vede che i tanti casi sono soltanto il modo di manifestarsi individuale della cieca necessità collettiva.

Vediamo di concludere: che cosa insegna lo scettico Marquard? La scepsi. E in che cosa consiste la scepsi? Nel "dubbio" che "lascia che due convinzioni antitetiche si scontrino fra loro in maniera tale da perdere così tanta forza che il singolo, come terzo ridente o piangente, se ne liberi". In senso scettico, la libertà è il confidare in molte potenze che agiscano in concorrenza reciproca, equilibrandosi a vicenda, così da garantire uno spazio di libertà consistente nello sfuggire alla presa di un'unica potenza.

La conclusione è conseguente: "E' dunque vantaggioso -in quanto effetto della libertà- per l'uomo l'avere molte (più d'una) convinzioni: non già nessuna e neppure una soltanto, bensì molte. Allo stesso modo, è vantaggioso per lui l'avere molte (più d'una) tradizioni e storie, nonché -Ahi!- molte anime nel petto: non già nessuna e neppure una soltanto, bensì molte".

L'apologia scettica del caso è in definitiva un inno all'opportunismo più sfrenato: l'uomo deve essere un Proteo convinto, a parte il grido di dolore per dover sopportare "molte anime nel petto". Ma ciò che insegna l'apologo dello scetticismo, con toni così elevati, è ciò che in maniera dimessa e spontanea ciascun individuo sociale persegue per non perdere le poche occasioni favorevoli e per evitare le numerose occasioni dannose, comportamento questo che non lo distingue da ogni altro individuo della propria specie o di altre specie animali, per il quale la decisione ultima della sopravvivenza è stabilita dal caso.

Perciò, per quanti sforzi si compiano, per quanti tentativi si facciano, per quanti progetti si preparino, per quanti doveri si pongano o vengano imposti, i singoli individui non possono impedire che l'ultima parola spetti al caso, a cominciare dalla loro nascita, per finire con la loro morte. All'opposto, non ci sono doveri, progetti, tentativi, sforzi che possano impedire, riguardo ai vari complessi di uomini, a cominciare dalla specie, per arrivare alle classi, ecc., che l' ultima parola spetti alla cieca necessità.

E questa, come dimostreremo nel volume dedicato alla società e alla storia umana, rimarrà l'inevitabile condizione della specie umana, fino a quando la sua società sarà fondata su rapporti e processi di tipo naturale (come il modo capitalistico di produzione e di scambio), che seguono la dialettica di caso e necessità. 

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo  Teoria della conoscenza (1993-2002) Inedito

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