sabato 12 novembre 2011

3) Globalizzazione e crisi

L'imprevisto boom delle dot-com

(Continuazione) Riassumiamo la ricostruzione dello studio di Grenspan sul "cambiamento tecnologico epocale", come ebbe a definirlo. Dopo aver esaminato i cicli economici a partire dalla fine degli anni '40, egli si rese conto che non c'era mai stato nulla del genere: il rapido boom della tecnologia informatica stava provocando una rapida obsolescenza tecnologica, senza risparmiare colossi come AT&T, IBM. ecc., e, come conseguenza, un rinnovamento continuo delle aziende della Silicon Valley. Molti furono i fallimenti. "Bill Gates, presidente della Microsoft, distribuì un bollettino ai suoi dipendenti intitolato "Tsunami Internet", paragonando Internet all'avvento del personal computer".

Fu questo nuovo fenomeno tecnologico a diffondere la teoria della "distruzione creativa" di Schumpeter, che divenne lo slogan delle dot-com. Il confronto tra Google e General Motors è significativo: la G.M. annunciò nel 2005 di dover licenziare 30.000 dipendenti e nel contempo trasferì miliardi di dollari verso fondi per finanziare pensioni e assicurazioni dei suoi dipendenti. Questi fondi, a loro volta, investirono il capitale nei titoli più promettenti, tra cui Google, che nel frattempo stava crescendo rapidamente.

Ma la nuova tecnologia informatica ebbe soprattutto un effetto dirompente nella ristrutturazione industriale e commerciale, aumentando la produttività e diminuendo i costi. In passato le oscillazioni del mercato tra domanda e offerta, non permettendo di prevedere in anticipo la domanda dei clienti, imponevano alle aziende industriali e commerciali costi elevati per lo stoccaggio di materie prime e di prodotti finiti in grandi magazzini. Con l'avvento di Internet è stato possibile produrre "just in time", grazie alla comunicazione in tempo reale fra i punti di vendita al dettaglio e la produzione, e fra gli spedizionieri e i trasportatori. Così è stato possibile non solo evitare i costi di stoccaggio, ma persino sbarazzarsi dei grandi magazzini e del personale in essi impiegato.

Il boom informatico, continua Greenspan, provocò anche la fine di certe professionalità come, ad esempio, il disegno tecnico in architettura, il design industriale, ecc.; e, sebbene incrementasse l'occupazione nel settore informatico, ebbe come effetto di rendere insicuro il posto di lavoro sia per gli operai che per il personale qualificato. Insomma, nel complesso, lo sviluppo impetuoso delle aziende informatiche rese più mobile, incerto e insicuro il posto di lavoro, pur riducendo il tasso di disoccupazione nel paese; ma fu soprattutto una manna per lo sviluppo economico complessivo e per le Borse.

Il Pil americano crebbe a ritmi elevati: nel 1996 +6%, e la Borsa continuò a crescere in modo apparentemente inarrestabile. Dice Greenspan che "la strategia normale prevedeva una stretta sui tassi di interesse, in modo da rallentare la crescita e soffocare l'inflazione sul nascere". Ma aggiunge che le conseguenze della nuova tecnologia rendevano i vecchi criteri obsoleti, anche perché questi criteri non riuscivano a valutare correttamente la crescita della produttività, sottostimandola. Per questi motivi egli attese, rinviando la stretta creditizia, nonostante la Borsa sembrasse impazzita.

Il 14 ottobre 1996 il Dow Jones superò quota 6000: rispetto al 1990 il mercato azionario era cresciuto del 60%. In poco più di un anno e mezzo il Dow Jones aveva superato tre traguardi: quota 4000, 5000 e 6000. Per Greenspan esisteva sempre il problema di stabilire se il mercato azionario fosse o non fosse sopravvalutato; perciò decise di dare una piccola scossa, accennando in un suo discorso pubblico a una "esuberanza irrazionale", locuzione coniata per quella occasione; e attese le conseguenze, che si manifestarono con un ribasso in borsa di 150 punti, subito recuperati. Fatte le somme, il 1996 si chiudeva con un attivo del 20%.

Quando il FOMC si riunì il 4 febbraio 1997, il Dow Jones era vicino a quota 7000, e molti membri del consiglio, ricorda Greenspan, temevano ormai lo sviluppo di una bolla azionaria. Quindi si decise di dare un segnale il 25 marzo, aumentando i tassi a breve termine dello 0,25%, portandoli al 5,5%. Risultato: tra marzo e aprile 1997 il Dow Jones calò del 7%, una perdita di quasi 500 punti. Ma la Borsa si riprese e a metà giugno raggiunse quota 7800. Da ciò il presidente della Fed trasse la seguente lezione: "non si può decidere quando un mercato è sopravvalutato, e non si possono combattere le forze di mercato". La conseguenza fu che il boom economico e della Borsa USA durò fino al 2000.

Nel frattempo gli USA avevano accumulato un eccedenza del bilancio. Il surplus fu di 70 miliardi di dollari nel 1998, di 124 nel 1999 e di 237 nel 2000. Insomma, negli Stati Uniti tutto sembrava andare a gonfie vele, mentre nel resto del mondo l) la crisi del 1997 aveva colpito i PVS asiatici più indebitati con l'Occidente, 2) il forte calo del prezzo del petrolio aveva prostrato la Russia, 3) l'Europa stentava a far decollare l'area euro tra lo scetticismo di Washington e l'euroscetticismo di alcune correnti politiche europee.

Lo scenario economico e politico mondiale e la sottovalutazione dello sviluppo cinese del quale ci si rese conto soltanto dopo la crisi del 2000, potevano illudere l'America d'essere sulla cresta dell'onda e di non avere più alcun concorrente temibile. Lo sviluppo di Internet e in generale dell'high tech le aveva dato non solo un vantaggio tecnologico invidiabile, ma anche la possibilità di deindustrializzare l'economia trasferendo la produzione nei PVS, soprattutto in Cina, ottenendo merci a costi infimi e la possibilità per i grandi gruppi economici americani di trasformarsi in società di marketing, volte a garantire uno shopping sfrenato e lauti profitti.

E la Cina? Il gigante demografico asiatico sembrava essersi assunto soltanto il ruolo di fornitore di un esercito industriale di riserva talmente vasto da far cadere il costo della forza lavoro mondiale, garantendo merci low cost in quantità tali da realizzare un eccesso di commercio e di profitti. E questo accadeva solo una decina di anni fa!

Potremmo dire che c'erano tutte le condizioni per coltivare un nuovo "sogno americano": il vecchio capitalismo poteva ringiovanire nella forma della "globalizzazione", e lo Stato che lo rappresentava come forma politica sovranazionale poteva considerare la propria egemonia inattaccabile e garantita nei tempi lunghi. C'è dunque da immaginare lo sconcerto e la delusione prodotti dagli eventi successivi: l'inizio del nuovo millennio si sarebbe incaricato di far cadere l'illusione di una egemonia USA assoluta, contrapponendole l'improvviso e grandioso sviluppo cinese e il decollo definitivo della Ue fondata sull'euro.

A questo punto, per comprendere come Washington reagì a un simile voltafaccia della storia, occorre riflettere sulle valutazioni di Greenspan relative alla manovra sul saggio d'interesse della Fed. Egli osserva che se le Borse non cedono nonostante successivi rialzi dei tassi, allora nascono problemi. Però aggiunge: "Non avevo alcun dubbio che, incrementando di 10 punti percentuali [il tasso di interesse], avremmo fatto scoppiare qualsiasi bolla da un giorno all' altro". "Ma, così facendo avremmo devastato l'economia, spazzando via proprio quella crescita che invece volevamo proteggere".

La questione posta da Greenspan è interessante perché permette di comprendere le leggi del capitalismo nella sua fase finale, senescente, e nel contempo di smascherare l'apparente contraddizione tra "liberismo" e "protezionismo". Ogni ripresa del ciclo capitalistico ha il vento in poppa; però, prima o poi, sfocia in una crisi; anzi, quanto più rapida è la crescita, tanto più improvvisa e grave è la crisi. E' questa l'anarchia del capitalismo che la sua senescenza, ovvero la "globalizzazione", accentua. Il liberismo la esalta e la glorifica, senza però poter evitare l'inevitabile crisi.

Di conseguenza, chi cerca di evitare la crisi manovrando i tassi d'interesse non agisce da liberista: volente o nolente la Fed, nella pratica, è keynesiana. Così, abbassando il tasso d'interesse favorisce la ripresa (se ci sono le condizioni); poi deve di nuovo alzarlo per evitare l'inflazione, come indicava Keynes. Agendo in questo modo la Fed, come banca centrale dello Stato sovranazionale, inevitabilmente condiziona il ciclo economico non solo americano ma anche mondiale. Però la pratica monetaria sui tassi d'interesse, non essendo fondata su leggi scientifiche di necessità, è soggetta al caso; perciò può avere conseguenze imprevedibili, sia per eccesso che per difetto. Nella visione di Keynes, è il movimento pendolare inflazione-deflazione.

Allora si comprende la contraddizione di un liberista che dirige una banca centrale come la Fed: in quanto liberista dovrebbe lasciare libero il mercato, ma per evitare l'inevitabile crisi o per condizionare il ciclo mondiale a favore dello stato sovranazionale, deve diventare keynesiano agendo sui tassi d'interesse. E così andò anche quella volta: la Fed intervenne tra la metà del 1999 e la metà del 2000, alzando, a piccoli passi, i tassi di interesse dal 4,7% al 6,5%. (Continua)

Scritto nel 2009

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