mercoledì 23 novembre 2011

I] Hume: la causalità per consuetudine e il rifiuto del caso

In questo paragrafo prendiamo in considerazione il pensiero di Hume (1711-1776) in relazione ai concetti di caso e necessità e di causa ed effetto, utilizzando le sue "Ricerche sull'intelletto". Nella sezione II, "L'origine delle idee", egli riconduce le idee alle impressioni, secondo il metodo della riduzione di Cartesio, ossia considerando le idee complesse riconducibili alle idee semplici, le quali, a loro volta, considera copie di precedenti sensazioni o sentimenti; però non esclude che esistano anche idee che non sono trasmesse dai sensi.

Ciò che conta per Hume è distinguere le idee dalle impressioni così da eliminare ogni confusione; perciò, precisa: "Tutte le idee, specialmente quelle astratte, sono naturalmente deboli e oscure (...). Al contrario, tutte le impressioni, cioè tutte le sensazioni, sia esterne che interne, sono forti e vivide; i limiti fra di esse sono esattamente determinati, né è facile cadere in qualche errore ed equivoco nei loro riguardi".

Nella sezione III, "L'associazione di idee", egli scrive: "Le idee semplici, comprese nelle idee complesse, sono legate insieme da qualche principio universale, che opera allo stesso modo in tutti gli uomini". E, come Cartesio, egli reputa il principio di causa ed effetto la principale connessione fra le idee semplici. Ma è sulla natura e sulla validità del principio di causalità che si distingue da Cartesio e dagli altri filosofi del Seicento e del Settecento, proponendo la sua soluzione scettica.

Innanzi tutto, dobbiamo vedere come Hume arriva a considerare la necessità del principio di causalità e a stabilirne il carattere soggettivo. Nella sezione IV, "Dubbi scettici sulle operazioni dell'intelletto", egli opera la seguente distinzione: "Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni di idee e materie di fatto. Alle relazioni di idee appartengono le scienze della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica; e, in breve, qualsiasi affermazione che sia certa sia intuitivamente che dimostrativamente". Le materie di fatto, invece, "non si possono accertare nella stessa maniera, né l'evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario non può mai implicare contraddizione e viene concepito dalla mente con la stessa facilità e distinzione che se fosse del pari conforme alla realtà".

Introducendo le "materie di fatto", Hume si distingue da Cartesio, perché, in relazione ad esse, non ammette più la certezza intuitiva. Ora, se a riguardo delle "materie di fatto" viene a mancare quella certezza che appartiene alle "relazioni di idee", diventa "materia degna di attenzione il ricercare quale sia la natura della evidenza che ci assicura di una qualsiasi reale esistenza e di un qualsiasi fatto, al di fuori della presente testimonianza dei sensi o dei ricordi della memoria". E, come esempio, indica la differenza che passa tra il quadrato dell'ipotenusa e il sorgere del sole: il quadrato dell'ipotenusa, uguale alla somma del quadrato dei cateti, è una relazione certa, dedotta geometricamente, mentre che il sole sorga ogni giorno è un fenomeno che appare a noi e non un fatto assolutamente certo in maniera evidente.

Come evitare questa incertezza di principio? A chi affidare il compito di garantire l'evidenza certa dei fenomeni appartenenti alle "materie di fatto"? E' qui che entra in campo la connessione di causa ed effetto, ma in un senso nuovo e particolare. "Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Soltanto per mezzo di questa relazione possiamo andare al di là della evidenza della memoria e dei sensi". Così, dice Hume, se noi troviamo una macchina in un isola deserta, ne concludiamo che in quell'isola una volta vi sono stati degli uomini, sulla base della relazione macchina = effetto, uomo = causa.

Da dove deriva, allora, la connessione di causa ed effetto? Non dall'a priori ma dall'esperienza, "quando troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente congiunti tra loro". Ciò perché nessun oggetto "manifesta, per mezzo delle qualità, che appaiono ai sensi, né le cause che le hanno prodotte, né gli effetti che sorgeranno da esso; né la ragione può mai, senza l'aiuto dell'esperienza, trovare alcuna inferenza riguardante esistenze reali e materie di fatto". Perciò, conclude, non è possibile "che la mente trovi mai l'effetto nella supposta causa, nemmeno con l'induzione e con l'esame più accurato, perché l'effetto è talmente differente dalla causa, e per conseguenza non può venire scoperto".

Insomma, se la connessione di causa ed effetto, l'unica connessione fondamentale ammissibile, non può essere determinata mediante induzione, che a sua volta è l'unica via ammessa dal metodo riduzionistico, su quale principio può essere fondata la conoscenza delle "materie di fatto", ossia la conoscenza scientifica?

Hume parte dalla consueta idea che la causa è la determinazione diretta di un effetto: così una palla da biliardo, colpendo un'altra palla ferma, la mette in moto. Ma dice che, ragionando a priori, le due palle potrebbero restar ferme dopo l'urto. Secondo lui è la ripetuta osservazione del fenomeno che ci permette di considerare la prima palla in moto come causa, e il movimento trasmesso alla seconda palla come effetto. Non a priori, dunque, inferiamo la connessione di causa ed effetto, ma per consuetudine.

Naturalmente, quando abbiamo affermato che la prima palla è la causa del movimento della seconda palla, ne sappiamo meno di prima dell'urto e della trasmissione del movimento. Ma per Hume le "sorgenti ultime e i princìpi sono del tutto preclusi all'attenzione e alla ricerca umana. L'elasticità, la gravità, la coesione delle parti, la comunicazione del movimento per impulso: queste sono probabilmente le cause ultime e i princìpi che noi si possa mai scoprire in natura; e possiamo considerarci abbastanza contenti se, per mezzo di ricerche e di ragionamenti accurati, c'è possibile seguire lo sviluppo dei fenomeni particolari fino a quei princìpi generali o fino alle loro vicinanze".

Come si vede, quelle che Hume chiama cause ultime sono in realtà fenomeni complessi della natura che devono essere ancora svelati. Quindi, la connessione empirica dell'effetto con la causa, e viceversa, non esprime altro che la nostra ignoranza.

Egli si limita, invece, a sottolineare l'apparenza dei ragionamenti fondati sulla relazione di causa ed effetto. E quando ci si chiede "qual'è il fondamento di tutti i ragionamenti e di tutte le conclusioni concernenti questa relazione, si può solo rispondere con una sola parola: "l'esperienza". E ancora, si chiede: "qual'è il fondamento di tutte le conclusioni derivate dall'esperienza?" Secondo lui, dire: "Ho trovato che quel determinato oggetto è stato seguito da quel determinato effetto", e dire: "Prevedo che altri oggetti che sono, in apparenza simili, saranno seguiti da effetti simili", non ha valore di inferenza razionale, perché tra le due proposizioni manca il ragionamento che le colleghi, il medio che le ponga in connessione.

Possiamo riassumere con le parole dello stesso Hume: "Abbiamo detto che tutti gli argomenti riguardanti l'esistenza sono fondati sulla relazione di causa ed effetto; che la conoscenza di questa relazione deriva completamente dall'esperienza; e che tutte le nostre conclusioni intorno all'esperienza si fondano sulla supposizione che il futuro sia conforme al passato". Perciò da "cause che ci appaiono simili attendiamo effetti simili; questa è la somma di tutte le nostre conclusioni sull'esperienza". Ma, ritorna "ancora la questione: su quale corso di argomentazioni è fondata questa inferenza? Dov'è il medio, dove sono le idee interpretative che congiungono proposizioni tanto distanti l'una dall'altra?" (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume Primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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