Steven J. Dick in "Vita nel cosmo" (2008), all'inizio del sesto capitolo, cita quattro concezioni diverse sulla comparsa della vita. Vediamole:
l) "Abbiamo tutte le ragioni per ritenere che la comparsa della vita non sia un "fortunato incidente", ma un fenomeno del tutto normale, una componente intrinseca allo sviluppo evolutivo globale del nostro pianeta. La ricerca della vita fuori della Terra è quindi solo una parte di un problema più generale che la scienza si trova ad affrontare, l'origine della vita nell'Universo" (A.I. Oparin, 1975).
2) "Il rendersi conto appieno della quasi impossibilità della comparsa della vita ci riporta all'estrema improbabilità di quanto è avvenuto. E' per questo motivo che molti biologi ritengono che la comparsa del vivente sia stata un evento imprevedibile. La probabilità che questo evento quasi impossibile abbia avuto luogo più di una volta è incredibilmente bassa, anche se nell'Universo ci fossero milioni di pianeti" (Ernst Mayr, 1982).
3) "Da nessuna parte nello spazio o in nessuno di mille possibili mondi ci sarà un essere umano a condividere la nostra solitudine [...]. Di altri esseri umani altrove, al di là della Terra, non se troveranno mai" (Loren Eiseley, 1957).
4) "Dal punto di vista del determinismo e della contingenza vincolata che pervade la storia del vivente [...], la vita e il pensiero emergono non come risultati di uno strano incidente, ma come manifestazione naturale della materia, già iscritte nella struttura dell'Universo" (Christian De Duve, 1995).
l) "Abbiamo tutte le ragioni per ritenere che la comparsa della vita non sia un "fortunato incidente", ma un fenomeno del tutto normale, una componente intrinseca allo sviluppo evolutivo globale del nostro pianeta. La ricerca della vita fuori della Terra è quindi solo una parte di un problema più generale che la scienza si trova ad affrontare, l'origine della vita nell'Universo" (A.I. Oparin, 1975).
2) "Il rendersi conto appieno della quasi impossibilità della comparsa della vita ci riporta all'estrema improbabilità di quanto è avvenuto. E' per questo motivo che molti biologi ritengono che la comparsa del vivente sia stata un evento imprevedibile. La probabilità che questo evento quasi impossibile abbia avuto luogo più di una volta è incredibilmente bassa, anche se nell'Universo ci fossero milioni di pianeti" (Ernst Mayr, 1982).
3) "Da nessuna parte nello spazio o in nessuno di mille possibili mondi ci sarà un essere umano a condividere la nostra solitudine [...]. Di altri esseri umani altrove, al di là della Terra, non se troveranno mai" (Loren Eiseley, 1957).
4) "Dal punto di vista del determinismo e della contingenza vincolata che pervade la storia del vivente [...], la vita e il pensiero emergono non come risultati di uno strano incidente, ma come manifestazione naturale della materia, già iscritte nella struttura dell'Universo" (Christian De Duve, 1995).
Si tratta, con tutta evidenza, di due esempi di contrapposizioni diametrali sulla origine della vita. La prima contrapposizione riguarda Oparin/Mayr: il primo contrario al "fortunato incidente" dell'origine della vita sulla Terra, il secondo favorevole all'idea dell'evento fortunatissimo e irripetibile per la sua estrema improbabilità. La seconda contrapposizione riguarda Eiseley/De Duve: il primo esclude categoricamente che possa esistere altra vita (nella forma evoluta, umana) nell'universo, il secondo iscrive questa possibilità (della vita e del pensiero umano) nella struttura stessa dell'Universo.
Cominciamo dalla posizione di Oparin: il cosiddetto "fortunato accidente", da lui negato, sta per caso (fortunato) che non può essere escluso, altrimenti rimarrebbe soltanto la spiegazione deterministica fondata sul rapporto di causa ed effetto. Ma, nella realtà, la normalità della origine e della evoluzione della vita sulla Terra, di cui parla esplicitamente Oparin, è fondata non sul rapporto di causalità, bensì sul caso, un caso che non è separato dalla necessità come ha sempre preteso il determinismo. Dialetticamente, il caso dell'origine della vita si rovescia in necessità sulla base dei grandi numeri in gioco nell'universo: 10^22 stelle, tra le quali i sistemi solari che, seppure più rari, sono sempre sufficientemente numerosi da assicurare la cieca necessità della eccezionale rarità statistica.
Forse l'uomo non conoscerà mai il vero numero di questa eccezionalmente bassa frequenza statistica, quindi non saprà, forse mai, quanti pianeti nell'Universo hanno ospitato, stanno ospitando o ospiteranno la vita cosciente, e neppure quanti pianeti hanno visto, stanno vedendo o vedranno un'evoluzione solo parziale della vita (che non superi, ad esempio, lo stadio dei batteri e dei virus), ecc. Una cosa è però certa: la nostra esistenza, su un pianeta che abbiamo chiamato Terra, attesta che l'evoluzione della materia ha prodotto eccezionalmente anche la vita cosciente, che può essere definita come l'eccezione delle eccezioni statistiche. Insomma, i grandi numeri sono l'unica garanzia del rovesciamento del caso probabilistico nella necessità della frequenza statistica, quest'ultima nella forma della rarità, della eccezione.
Per questo motivo non può reggere neppure il pessimismo di Mayr, che pure conosceva bene i grandi numeri dai quali ha potuto emergere la specie umana: c'è voluta, sul nostro pianeta, l'estinzione di quasi un miliardo di specie perché sortisse l'uomo come eccezione delle eccezioni di un grande dispendio. L'errore metafisico di Mayr è stato perciò di aver concepito unicamente il probabile e il suo contrario, l'improbabile, così ha creduto nella assoluta improbabilità della vita. Ma questa conclusione pessimistica non ha alcun sostegno, neppure di ordine empirico, perché la scienza umana non è ancora e forse non sarà mai in grado di conoscere le frequenze statistiche relative alla garanzia di vita in altri pianeti e in epoche cosmologiche diverse.
Se poi passiamo alle affermazioni di Eisely, possiamo solo dire che rappresentano soltanto l'espressione di una opinione personale puramente soggettiva, piuttosto per ribadire la solitudine dell'uomo nell'universo, sostenuta con enfasi da Monod, che per ritrovarsi contrapposto a De Duve.
A sua volta De Duve, pur avendo avuto il problema, inconciliabile, di non voler rinunciare al determinismo pur non potendo evitare di considerare la contingenza, è arrivato alla conclusione che la vita e il pensiero sono già "iscritti nella struttura dell'univero", compiendo un atto di fede predeterministico che si commenta da solo.
Non rimane che dare la parola al pensiero dialettico, citando gli ultimi due capoversi delle "tesi del 1996", di un autodidatta, che stabiliscono le linee generali, essenziali, dell'evoluzione della materia fino all'uomo.
"E così l'uomo cosciente, il prodotto più elevato della natura, è saltato fuori dalla evoluzione con quella necessità statistica che ha per fondamento la casualità dei grandi numeri in gioco: senza una materia-energia praticamente infinita, senza uno sterminato Universo ciclico, senza miliardi di miliardi di stelle con relativi pianeti, senza i pressoché infiniti atomi, senza il grandioso numero di molecole organiche sul pianeta Terra, senza le centinaia di milioni di diverse specie che si sono succedute in questo pianeta, insomma senza questo enorme apparato, l'uomo, come risultato della evoluzione spontanea, inconsapevole e cieca della materia, sarebbe inconcepibile.
Rimarrebbe soltanto la spiegazione della creazione volontaria e cosciente. Insomma, non ci possono essere vie di mezzo: o tutto si spiega con la dialettica caso-necessità, che rende ragione del grande dispendio o tutto deve essere ricondotto alla creazione divina; ma, in questo caso, come spiegare il dispendio?"
Cominciamo dalla posizione di Oparin: il cosiddetto "fortunato accidente", da lui negato, sta per caso (fortunato) che non può essere escluso, altrimenti rimarrebbe soltanto la spiegazione deterministica fondata sul rapporto di causa ed effetto. Ma, nella realtà, la normalità della origine e della evoluzione della vita sulla Terra, di cui parla esplicitamente Oparin, è fondata non sul rapporto di causalità, bensì sul caso, un caso che non è separato dalla necessità come ha sempre preteso il determinismo. Dialetticamente, il caso dell'origine della vita si rovescia in necessità sulla base dei grandi numeri in gioco nell'universo: 10^22 stelle, tra le quali i sistemi solari che, seppure più rari, sono sempre sufficientemente numerosi da assicurare la cieca necessità della eccezionale rarità statistica.
Forse l'uomo non conoscerà mai il vero numero di questa eccezionalmente bassa frequenza statistica, quindi non saprà, forse mai, quanti pianeti nell'Universo hanno ospitato, stanno ospitando o ospiteranno la vita cosciente, e neppure quanti pianeti hanno visto, stanno vedendo o vedranno un'evoluzione solo parziale della vita (che non superi, ad esempio, lo stadio dei batteri e dei virus), ecc. Una cosa è però certa: la nostra esistenza, su un pianeta che abbiamo chiamato Terra, attesta che l'evoluzione della materia ha prodotto eccezionalmente anche la vita cosciente, che può essere definita come l'eccezione delle eccezioni statistiche. Insomma, i grandi numeri sono l'unica garanzia del rovesciamento del caso probabilistico nella necessità della frequenza statistica, quest'ultima nella forma della rarità, della eccezione.
Per questo motivo non può reggere neppure il pessimismo di Mayr, che pure conosceva bene i grandi numeri dai quali ha potuto emergere la specie umana: c'è voluta, sul nostro pianeta, l'estinzione di quasi un miliardo di specie perché sortisse l'uomo come eccezione delle eccezioni di un grande dispendio. L'errore metafisico di Mayr è stato perciò di aver concepito unicamente il probabile e il suo contrario, l'improbabile, così ha creduto nella assoluta improbabilità della vita. Ma questa conclusione pessimistica non ha alcun sostegno, neppure di ordine empirico, perché la scienza umana non è ancora e forse non sarà mai in grado di conoscere le frequenze statistiche relative alla garanzia di vita in altri pianeti e in epoche cosmologiche diverse.
Se poi passiamo alle affermazioni di Eisely, possiamo solo dire che rappresentano soltanto l'espressione di una opinione personale puramente soggettiva, piuttosto per ribadire la solitudine dell'uomo nell'universo, sostenuta con enfasi da Monod, che per ritrovarsi contrapposto a De Duve.
A sua volta De Duve, pur avendo avuto il problema, inconciliabile, di non voler rinunciare al determinismo pur non potendo evitare di considerare la contingenza, è arrivato alla conclusione che la vita e il pensiero sono già "iscritti nella struttura dell'univero", compiendo un atto di fede predeterministico che si commenta da solo.
Non rimane che dare la parola al pensiero dialettico, citando gli ultimi due capoversi delle "tesi del 1996", di un autodidatta, che stabiliscono le linee generali, essenziali, dell'evoluzione della materia fino all'uomo.
"E così l'uomo cosciente, il prodotto più elevato della natura, è saltato fuori dalla evoluzione con quella necessità statistica che ha per fondamento la casualità dei grandi numeri in gioco: senza una materia-energia praticamente infinita, senza uno sterminato Universo ciclico, senza miliardi di miliardi di stelle con relativi pianeti, senza i pressoché infiniti atomi, senza il grandioso numero di molecole organiche sul pianeta Terra, senza le centinaia di milioni di diverse specie che si sono succedute in questo pianeta, insomma senza questo enorme apparato, l'uomo, come risultato della evoluzione spontanea, inconsapevole e cieca della materia, sarebbe inconcepibile.
Rimarrebbe soltanto la spiegazione della creazione volontaria e cosciente. Insomma, non ci possono essere vie di mezzo: o tutto si spiega con la dialettica caso-necessità, che rende ragione del grande dispendio o tutto deve essere ricondotto alla creazione divina; ma, in questo caso, come spiegare il dispendio?"
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