Il liberismo interventista di Greenspan
E' soltanto un apparente paradosso che un liberista possa presiedere una istituzione necessariamente interventista come la Federal Reserve Bord (Fed)? Come vedremo, nella globalizzazione, tanto il liberismo riguarda il mercato dei capitali, delle merci e soprattutto della forza lavoro, quanto l'interventismo riguarda la politica monetaria, petrolifera e militare. Entrambi possono convivere in simbiosi nella globalizzazione, fase economica resa possibile dallo sviluppo accelerato dell'Asia in generale e della Cina in particolare.
Il liberista Alan Greenspan ha presieduto la Fed dal 1987 al 2006, un ventennio nel quale si è affermata la globalizzazione del mercato mondiale, alla quale egli ha dedicato le sue memorie in "L'era della turbolenza", 2006. L'apparente paradosso lo riguarda personalmente, essendo un seguace del liberismo di Friedman (e di Adam Smith), costretto, come presidente della Fed, a intervenire continuamente sui tassi d'interesse, per "proteggere" il ciclo economico dalle crisi secondo i dettami di Keynes.
Per comprendere alcuni caratteri della globalizzazione, che permettono di ridimensionare la pretesa contrapposizione diametrale tra liberismo e protezionismo nell'"era della turbolenza", non dobbiamo fare altro che seguire Greenspan nella sua trascorsa attività di capo della Fed.
E' soltanto un apparente paradosso che un liberista possa presiedere una istituzione necessariamente interventista come la Federal Reserve Bord (Fed)? Come vedremo, nella globalizzazione, tanto il liberismo riguarda il mercato dei capitali, delle merci e soprattutto della forza lavoro, quanto l'interventismo riguarda la politica monetaria, petrolifera e militare. Entrambi possono convivere in simbiosi nella globalizzazione, fase economica resa possibile dallo sviluppo accelerato dell'Asia in generale e della Cina in particolare.
Il liberista Alan Greenspan ha presieduto la Fed dal 1987 al 2006, un ventennio nel quale si è affermata la globalizzazione del mercato mondiale, alla quale egli ha dedicato le sue memorie in "L'era della turbolenza", 2006. L'apparente paradosso lo riguarda personalmente, essendo un seguace del liberismo di Friedman (e di Adam Smith), costretto, come presidente della Fed, a intervenire continuamente sui tassi d'interesse, per "proteggere" il ciclo economico dalle crisi secondo i dettami di Keynes.
Per comprendere alcuni caratteri della globalizzazione, che permettono di ridimensionare la pretesa contrapposizione diametrale tra liberismo e protezionismo nell'"era della turbolenza", non dobbiamo fare altro che seguire Greenspan nella sua trascorsa attività di capo della Fed.
Un primo dato da prendere in considerazione è il seguente: la fase economica che va dal 1987 al 2006 "ha creato un enorme incremento di liquidità", in altre parole, una pletora di capitale monetario, in cerca di investimento, che ha prodotto -dice Greenspan- l'aumento dei prezzi di azioni, obbligazioni, case, immobili commerciali, ecc., ossia di tutto ciò che potesse essere richiesto e acquistato.
Questo è stato interpretato come la "riscoperta del potere del capitalismo di mercato". Secondo Greenspan, "dopo essere stato obbligato a ritirarsi a causa dei suoi fallimenti negli anni Trenta e della successiva espansione dell'interventismo statale negli anni Sessanta, [il libero mercato] è lentamente riemerso come forza possente a partire dagli anni Settanta giungendo a pervadere quasi tutto il mondo".
Fu la crisi del 1974 a dare l'avvio a un nuovo ciclo, attraverso la ristrutturazione del capitalismo mondiale, ma l'origine di tutto ha ben poco di liberistico, perché la fine dei cambi fissi, decretata a Bretton Woods (1971), se produsse una apparente Iiberalizzazione dei cambi, produsse anche la successiva politica monetaria e petrolifera della amministrazione Nixon a partire dal 1973, cui seguì la fase dell'enorme incremento del prezzo del petrolio e della speculare svalutazione del dollaro (moneta, nel frattempo, divenuta sostituto dell'oro come riserva mondiale, a sancire l'oggettiva necessità dell'egemonia mondiale americana).
Questo è stato interpretato come la "riscoperta del potere del capitalismo di mercato". Secondo Greenspan, "dopo essere stato obbligato a ritirarsi a causa dei suoi fallimenti negli anni Trenta e della successiva espansione dell'interventismo statale negli anni Sessanta, [il libero mercato] è lentamente riemerso come forza possente a partire dagli anni Settanta giungendo a pervadere quasi tutto il mondo".
Fu la crisi del 1974 a dare l'avvio a un nuovo ciclo, attraverso la ristrutturazione del capitalismo mondiale, ma l'origine di tutto ha ben poco di liberistico, perché la fine dei cambi fissi, decretata a Bretton Woods (1971), se produsse una apparente Iiberalizzazione dei cambi, produsse anche la successiva politica monetaria e petrolifera della amministrazione Nixon a partire dal 1973, cui seguì la fase dell'enorme incremento del prezzo del petrolio e della speculare svalutazione del dollaro (moneta, nel frattempo, divenuta sostituto dell'oro come riserva mondiale, a sancire l'oggettiva necessità dell'egemonia mondiale americana).
Quello americano, nel Novecento, fu un effettivo interventismo protezionistico diretto, prima, militarmente, contro le pretese egemoniche della Germania nazista e del Giappone imperiale negli anni Trenta, poi, con la politica monetaria e petrolifera, contro la loro eccessiva ripresa economica negli anni Sessanta. Così, a partire da Bretton Woods, l'egemonia, in precedenza conquistata con il potere delle armi, doveva essere rinsaldata con il potere monetario nel momento in cui le due potenze sconfitte militarmente tornavano a concorrere economicamente con gli Stati Uniti. Tutto questo con il liberismo puro, economico, ha poco a che vedere.
Riguardo all'uso della politica monetaria e petrolifera, che si combinò nel "petrodollaro", abbiamo già visto in altro luogo. Qui possiamo solo osservare che per Greenspan la connessione dollaro, petrolio e finanza è un vero tabù, cui non accennare mai, non fosse per altro motivo che per nascondere l'inevitabile ridimensionamento del liberismo di Friedman: dove se ne andrebbe, infatti, a finire il libero mercato, se il presidente della Fed ammettesse che l'egemonia mondiale ha permesso agli Stati Uniti di fare il bello e il cattivo tempo manovrando anche il rapporto dei prezzi dollaro-petrolio? Ma questo è ciò che avviene dal 1973 ad oggi.
La crisi delle borse del 6 Ottobre 2008 rappresenta una conferma del fatto che anche nella globalizzazione, nel periodo del libero mercato globale, la politica imperialistica non può lasciar fare, senza intervenire per condizionare il ciclo economico, anche a rischio di agevolare o per lo meno facilitare le crisi come risultato spesso non voluto. Per questo è utile ricostruire, sulla scorta delle memorie di Greenspan, anche le due crisi capitate durante il suo mandato, quella del 1987 e quella del 2000, situate temporalmente tra la crisi del 1974 e quella attuale del 2008.
Greenspan ricevette il mandato per presiedere la Federal Reserve Bord nel 1987, poco prima del termine della seconda amministrazione Reagan (1985-1988). La Fed è una organizzazione molto complessa, costituita da diversi comitati, tra i quali il principale è il FOMC (Federal Open Market Commitee), "il potente organismo che controlla il tasso di interesse sui fondi federali, una leva fondamentale nella politica monetaria USA". Se si aggiunge che il FOMC è costituito dai sette governatori della Fed e dai presidenti delle dodici banche regionali del sistema bancario americano, si possono comprendere i suoi poteri.
Si tratta, a tutti gli effetti, del principale comitato d'affari bancario-monetario mondiale, appartenente alla potenza egemone, inevitabilmente interventista con la leva fondamentale della politica monetaria e protezionista con la manovra sui tassi d'interesse che, come vedremo, hanno conseguenze e non sempre quelle volute sul ciclo economico mondiale.
Dunque, il liberismo della globalizzazione e l'interventismo della Fed convivono in simbiosi: la politica monetaria USA controlla il liberismo subordinandolo alla politica monetaria della Fed, a sua volta subordinata alla strategia egemonica di Washington. Naturalmente, ciò non vuole dire primato incontrastato della politica di egemonia, diciamo piuttosto che questo è il "meccanismo" ideato dalla superpotenza sovranazionale.
Ma che questo "meccanismo" sia esso come i meccanismi artificiali creati dall'uomo, che producono risultati voluti, o sia invece un processo di tipo naturale, che produce risultati non voluti, è un'altra faccenda che assomiglia, comunque, a una bilancia squilibrata, nella quale il piatto del risultato non voluto è sempre il più pesante.
Quando Greenspan diventò presidente della Fed "l'espansione dell'epoca reaganiana era entrata nel quarto anno e, sebbene l'economia prosperasse, mostrava anche chiari segni di instabilità", ricorda l'autore, che aggiunge: il ciclo continuò indisturbato fino al 1987. Ma, per evitare un aumento di inflazione, la Fed decise di aumentare il costo del denaro alzando i tassi d'interesse. La borsa reagì perdendo il 6% la prima settimana e il 12% la seconda. La terza si aprì con una perdita del 22,5%, una perdita maggiore di quella del venerdi nero del '29. Come si vede, la crisi fu "un risultato non voluto". (Continua)
Scritto nel 2009