lunedì 21 novembre 2011

Le metafore nella scienza fisica: veli pietosi stesi sull'ignoranza umana

Nel libro di Silvio Bergia, "Dal cosmo immutabile all'universo in evoluzione" (1993), si può trovare una lista di metafore fondamentali della fisica, a cominciare dalla più antica: il meccanicismo, ossia "la tendenza a concepire il cosmo" "come una gigantesca macchina, che di volta in volta ripropone una delle macchine archetipe della fase particolare di sviluppo tecnico e produttivo".

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, in ogni epoca l'uomo ha concepito l'universo (e la natura) alla stregua di una macchina, ma ha potuto farlo solo assimilandolo a un qualche meccanismo da lui stesso, nel frattempo, prodotto. Cosi, se oggi è l'era del computer, meccanismo molto complesso e raffinato, nelle epoche passate, come vedremo, ci si dovette accontentare di molto meno. In questo modo, comunque, l'universo ha dovuto cambiare varie fogge durante il periodo millenario dello sviluppo della tecnologia umana. Ma queste diverse fogge non hanno mai potuto riflettere forme reali, essendo soltanto delle metafore stese, come veli pietosi, sull'ignoranza umana.

Il libro di Bergia è interessante, da questo punto di vista, perché ci permette di riassumere le diverse metafore, a partire dall'antico pensiero greco. Rimanendo nell'ambito generale del meccanicismo, possiamo cominciare con la metafora particolare della ruota del vasaio: "Anassimandro non spiegò il movimento del Sole con l'azione di una ruota di carro che si usa per il trasporto, ma con l'azione di una ruota che gira senza mutare posizione: cioè a dire la ruota del vasaio". Giustamente Bergia osserva: "un antico filosofo della natura (...) non poteva elevarsi sopra il livello tecnico della epoca. Egli doveva, necessariamente, tentare di interpretare i mutamenti che avvengono spontaneamente in natura alla luce di quei cambiamenti che l'uomo stesso era, a quel tempo, capace di produrre".

Un'altra metafora particolare che ha avuto importanza soprattutto nel pensiero moderno è quella dell'orologio. Bergia cita Koyré, per il quale il passaggio "dal mondo del pressapoco all'universo della precisione", va attribuito all'orologio. "L'orologio meccanico mutò la comprensione che l'uomo aveva del suo mondo, mutò la filosofia del tempo e diede così un contributo alla grande rivoluzione scientifica del secolo decimosettimo". A Newton i corpi celesti apparivano compiere le loro evoluzioni con cronometrica regolarità: "E' in questo contesto che nasce la metafora fondata sul funzionamento di un orologio: la concezione del sistema dei cieli come una grande macchina a orologeria, avente in Dio il celeste orologiaio, fu molto seducente per gli uomini di scienza del Seicento e del Settecento".

Con il progresso della tecnica e la produzione di nuove macchine crebbe il numero di metafore. Poteva, dunque, mancare la macchina a vapore? Scrive Bergia: "Il modello di macchina che fornisce la metafora del funzionamento dell'universo muta ancora nell'Ottocento, il secolo di Darwin e delle macchine a vapore". E. Cardwell ("Tecnologia, scienza e storia" 1976, citato) osserva: "Se ai filosofi del Seicento l'universo appariva alla stregua di un gigantesco meccanismo a orologeria, ai pensatori dell'Ottocento parve avere molti degli attributi propri della macchina a energia termica". Ma non per questo la metafora del meccanismo a orologeria fu abbandonata, tanto è vero Che Lord Kelvin "segnalò che, se l'universo era qualcosa come "un singolo meccanismo finito", si sarebbe "scaricato come un orologio, per poi fermarsi per sempre"."

L'autore, dopo aver passato in rassegna le vecchie e ben note metafore con le quali ci si illudeva di riflettere la natura e l'universo, prende in considerazione le metafore più recenti: "E mentre sarebbe fuori luogo suggerire un accostamento fra il big bang e quella particolare macchina che è un ordigno termonucleare, non c'è dubbio che l'universo primordiale sia stato concepito da autori come Gamow come una sorta di fucina per processi di fusione". E ancora: "Non senza relazione con questa concezione è quella che deriva dall'assimilazione dell'universo a un fluido termodinamico in espansione adiabatica".

"Andrà infine menzionato l'ultimo episodio della serie, quello che riguarda l'impatto sulla concezione cosmologica della fisica delle particelle elementari": ecco "l'universo diventare una sorta di laboratorio per la fisica delle alte energie (mentre poi questa, con le sue leggi, determinerebbe a sua volta condizioni imprescindibili per la dinamica evolutiva dell'universo). Ciò si ricorda solo per indicare una sorta di continuità negli atteggiamenti, pur nella evidente differenza delle situazioni, continuità che si afferma oggi con l'assimilazione dell'universo, con tutti i distingui del caso, a un laboratorio di fisica delle particelle elementari".

Se, fin qui, abbiamo visto l'evoluzione dei numerosi archetipi nell'ambito della metafora meccanicistica, ovvero in seno alla concezione del meccanicismo, andiamo ora a vedere un'altra fondamentale metafora attribuita alla natura (e all'universo): quella dell'ordine geometrico. Scrive Bergia: "Un secondo tema è individuato nella tendenza ad attribuire al cosmo una semplicità logica e geometrica trascendente la sfera delle apparenze". Tutto inizia, nel pensiero occidentale, dalle sfere di cristallo di Aristotele per rappresentare l'ordine geometrico del "cosmo" (nome che, come ricorda Bergia, in greco significa appunto "ordine").

L'autore cita Kuhn, per il quale Copernico, Galileo e Keplero erano convinti che fosse possibile scoprire in natura regolarità aritmetiche e geometriche semplici. Ma già prima Platone stabilì i princìpi della geometrizzazione. "Questo atteggiamento -aggiunge- è addirittura alla base della cosmologia moderna, che sussiste, come vedremo, solo in quanto si accetti l'idea fondamentale che l'universo è, su scale sufficientemente grandi, omogeneo e isotropo".

Per finire, Bergia prende in esame la concezione che sostiene tutte le metafore viste in precedenza: il principio di causalità attribuito alla natura e all'universo: "Da ultimo vorrei parlare della necessità ricorrente, evidentemente assai sentita nelle varie epoche, di risalire a ritroso, nella storia o nell'essere del cosmo, di causa in causa, fino a quella che possa essere considerata una causa prima".

Ciò che si può osservare, a questo punto, è che l'autore ha preso in considerazione tre temi fondamentali, tra loro connessi, della teoria convenzionale e metaforica della conoscenza umana, ma lo ha fatto capovolgendo l'ordine logico e temporale. Rovesciando, dapprima abbiamo il fondamento principale, il principio di causalità, poi l'ordine geometrico, infine il meccanicismo. Questo è l'ordine logico che permette di comprendere l'essenza dell'antropomorfismo e dell'antropocentrismo: ossia la tendenza ad attribuire alla natura modalità che appartengono all'uomo, alla sua attività, ai suoi prodotti e al suo pensiero.

E' l'uomo che ha tratto dalla propria attività il principio di causalità, è l'uomo che ha creato l'ordine geometrico e i suoi meccanismi sulla base di tale principio, ma poi ha compiuto l'errore infantile di attribuire alla natura le proprie creazioni. E' stato un errore inconsapevole, favorito da un'altra sua creazione: la religione.

Troppo debole, fragile e bisognoso di soccorso per concepire direttamente la natura a propria immagine e somiglianza, l'uomo ha dapprima attribuito alle divinità le proprie fragili qualità potenziate e ingigantite; quindi ha creato nella sua mente il sommo orologiaio, la causa prima; infine, ha trasmesso alla natura questi attributi divinizzati, ottenendo l'ordine naturale, assoggettato alle più diverse metafore geometriche e meccaniche. 

L'impostazione teorica infantile della specie umana, che da più di due millenni si è bloccata nella contrapposizione diametrale tra la causa di Democrito (che ha preso il sopravvento nella scienza) e il caso di Epicuro (che ha fatto solo da guastafeste), non potendo produrre una reale conoscenza della natura, doveva necessariamente accontentarsi del proprio progresso tecnologico, a fronte di una natura incompresa.

Scritto nel 2008

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