mercoledì 23 novembre 2011

II] Hume: la causalità per consuetudine e il rifiuto del caso

(Continuazione) Nella sez V "La soluzione scettica", Hume coglie finalmente il nocciolo della questione: non si può dire "soltanto perché a un avvenimento, in un caso, ne precede un altro, che perciò uno è la causa e l'altro è l'effetto. La loro congiunzione può essere arbitraria e casuale". E allora come uscirne fuori? La soluzione di Hume sarebbe oggettivamente statistica se non fosse soggettivistica: infatti, dice: "noi traiamo da un centinaio di casi un'inferenza che non riusciamo a trarre da un solo caso". Ma, concludendo che "tutte le inferenze dell'esperienza, dunque, sono effetti di consuetudine non di ragionamento", egli sostituisce a un dato oggettivo statistico, un concetto soggettivo, psicologico: l'abitudine.

Insomma, il filosofo scozzese, illuminista scettico, dice giustamente che ciò che appare una relazione di causa ed effetto può essere una connessione puramente casuale. Ma se il "caso" si ripete "cento volte", allora si tratta di abitudine (e non di statistica!), grazie alla quale inferiamo la relazione di causa-effetto. Si può confrontare questa soluzione con le osservazioni critiche di Leibniz a riguardo delle "inferenze empiriche": Leibniz ricorda i cani addestrati, che si attendono qualcosa "per esperienza", ad esempio, di ricevere cibo; mentre nella realtà la previsione può essere affatto sbagliata. Quindi, osserva: "Ma poiché spesso accade che tali cose siano compiute solo accidentalmente, gli empirici spesso s'ingannano, proprio come le bestie, nel senso che ciò che si attendono non accade" (Lettera sulla necessità e sulla contingenza, 19 dicembre 1707).

Al contrario, per Hume, la consuetudine diventa un principio: "La consuetudine, dunque, è la grande guida della vita umana. E' questo quell'unico princìpio che ci rende utile l'esperienza e che ci fa attendere, per il futuro, un seguito di avvenimenti simile a quello che ci si è presentato nel passato. Senza l'influsso della consuetudine saremmo del tutto ignoranti di ogni materia di fatto al di fuori di ciò che è immediatamente presente nella memoria ed ai sensi!"

Se il mondo esterno fosse costituito di cose immutabili, l'abitudine potrebbe anche essere "la grande guida", ma il mondo è costituito di oggetti e situazioni che si modificano continuamente, perciò l'abitudine può portare a conclusioni arbitrarie. Invece, per Hume la consuetudine permette la corrispondenza delle nostre idee con il corso della natura: "Qui c'è, dunque, una sorta di armonia prestabilita fra il corso della natura e la successione delle nostre idee; e sebbene i poteri e le forze che governano la natura ci siano del tutto ignoti, tuttavia i nostri pensieri e le nostre concezioni hanno sempre seguìto, come vedremo, lo stesso ordine delle altre opere della natura. La consuetudine è quel principio che ha reso effettiva tale corrispondenza, così necessario alla sussistenza della specie ed al governo della condotta in ogni circostanza ed evenienza della vita umana" .

Astraendo dalle arcane forze della natura, possiamo affermare che fa bene il filosofo dello scetticimo a parlare di corrispondenza tra i nostri pensieri e le opere della natura. Ma questa corrispondenza è oggettiva e statistica, mentre per lui è soggettiva e per abitudine. L'errore di Hume è stato quello di porre la soggettiva consuetudine al posto della oggettiva statistica. La conseguenza è quella che abbiamo individuata in Leibniz: il caso prende il posto della necessità. Se Hume non vede questa conseguenza è solo perché egli rifiuta l'oggettiva casualità: "per quanto non vi sia al mondo qualche cosa come il caso, la nostra ignoranza della causa reale d'ogni avvenimento ha lo stesso influsso sull'intelletto e genera una simile sorta di credenza od opinione".

Può sembrare strano che l'illuminista scettico assuma una posizione che in seguito verrà attribuita al determinismo assoluto: e cioè che il caso è generato dalla nostra ignoranza delle cause. Sembrerà, però, meno strano, se ricordiamo che il capostipite di tutti i deterministi, Democrito, era uno scettico. Come Democrito, Hume rifiuta il caso, e lo fa nella sez VI "Della probabilità".

Prendendo in considerazione il lancio del dado, egli scrive: "Sembra evidente che, quando la mente attende di scoprire l'avvenimento che può risultare dal lancio di un tale dado, considera l'uscita di ciascuna faccia ugualmente probabile; e questa è la vera natura del caso, di mettere tutti gli avvenimenti particolari ai quali si riferisce completamente sullo stesso piano". Se il caso significa eguali possibilità di avvenimenti antagonisti, significa solo che ciascun avvenimento ha uguali possibilità di realizzarsi, e quindi dipenderà dal caso che in un lancio si avveri solo una possibilità.

Quindi, Hume si chiede: che cosa accade a un dado che abbia più facce con la stessa figura o numero? E risponde: "Questo concorrere di parecchie prospettive in un determinato avvenimento produce immediatamente, per un inspiegabile bisogno della natura (sic!), il sentimento di credenza e fa prevalere quell'avvenimento nei confronti dell'avvenimento antagonista, che può contare su un numero minore di prospettive e che si presenta alla mente con minor frequenza". Hume non considera la frequenza come oggettiva conseguenza di un complesso di eventi, come ad esempio una serie di lanci di un dado, tutti egualmente possibili; ma, considerando la situazione particolare di un numero di facce dello stesso tipo, maggiore di altre, gli attribuisce una maggiore prevalenza, per "sentimento di credenza", ovvero per una soggettiva aspettativa.

A questo punto, paragona alla "probabilità del caso" la "probabilità delle cause": "Colla probabilità delle cause, le cose vanno allo stesso modo che colla probabilità del caso. Vi sono delle cause che sono del tutto uniformi e costanti nel produrre un determinato effetto;...". "Ma vi sono altre cause, di cui s'è notato che sono più irregolari e incerte"; e adduce come esempio il diverso effetto soporifero che l'oppio ha su ciascun individuo. Dal fatto che ciascun individuo reagisce diversamente all'oppio, Hume intuisce l'impossibilità della connessione necessaria, ma non giunge alla conclusione della casualità relativa ai singoli. Così, riguardo alla ricerca della connessione necessaria, non sa dove trovarla.

Egli dice che "si cercherebbe invano un'idea di potere o di connessione necessaria in tutte le fonti da cui potremmo supporre che sia derivata". Ma poi anche lui, come Cartesio e Leibniz, la cerca nei singoli oggetti ed eventi, pur dovendo ammettere di non poterla trovare: "Risulta che, nei semplici casi dell'operare dei corpi, non possiamo mai, colla nostra ricerca spinta fino all'estremo, scoprire qualcosa che non sia un evento che tiene dietro un altro evento, senza che ci riesca di comprendere forza o potere alcuno per il cui mezzo agisca la causa, né connessione alcuna fra la causa e il suo supposto effetto". La conclusione è recisa: "Sicché, nell'insieme, non ci si presenta, in tutta la natura, un solo caso di connessione che sia concepibile da parte nostra".

In definitiva, Hume ha scoperto, con molto anticipo sui fisici quantistici, l'indeterminazione del singolo oggetto, evento, mentre ha attribuito una relativa capacità di determinazione ai complessi di eventi. Infatti scrive: "Ma quando una specie particolare di eventi è stata congiunta a un'altra sempre, in tutti i casi, non abbiamo più alcuno scrupolo di predire l'uno in base all'apparire dell'altro, né di adoperare quel ragionamento che unico può darci sicurezza in qualunque questione di fatto o di esistenza. Allora noi chiamiamo un oggetto causa e l'altro effetto". E così immaginiamo una connessione strettamente necessaria, ma questa connessione, conclude, sorge soltanto dall'abitudine. (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume Primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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