Conclusioni sull'era della turbolenza
(Continuazione) Le motivazione che spinsero il presidente della Fed ad alzare i tassi, a suo dire, sono varie e non manca neppure quella dell'"atterraggio morbido". Ma, ancora una volta, l'inatteso risultato non voluto confermò l'anarchia del capitalismo e l'imprevedibilità delle politiche monetarie: ad essere penalizzati furono i titoli NASDAQ che, da marzo a dicembre, persero il 50% del loro valore. La rivoluzione informatica tradiva così le aspettative americane di un vantaggio tecnologico fondamentale per la perpetuazione dell'egemonia USA.
Ma per comprendere le successive mosse di Washington, dopo la crisi del 2000, che prevalsero sull'interventismo monetario della Fed assoggettandolo all'interventismo petrolifero e militare, occorre considerare un altro aspetto: la previsione della scomparsa del debito pubblico e dell'accumulo di troppi anni di elevato surplus di bilancio. Questa eventualità disorientò i membri del FOMC perché, scrive Greenspan, "La nostra principale leva di politica monetaria era la compravendita di buoni del Tesoro, le cambiali dello zio Sem. Se il debito fosse diminuito, i titoli sarebbero scarseggiati, per cui avremmo dovuto cercare nuovi strumenti per agire. Per quasi un anno, i più esperti economisti e operatori della Fed avevano cercato di individuare quali altri titoli avremmo potuto comprare e vendere".
E così saltò fuori uno studio di 380 pagine a dimostrare che non esisteva nulla che potesse rimpiazzare i buoni del Tesoro USA per dimensioni, liquidità e, soprattutto, per assenza di rischio. Occorreva imparare ad amministrare un complesso portafogli di obbligazioni, titoli, crediti, ecc. senza la stessa sicurezza dei buoni del Tesoro. Allora, è forse un caso o una cieca necessità, che le cose si siano messe in modo tale aumentare il debito pubblico americano in una misura mai vista prima?
E' tempo di tirare le conclusioni: l'11 settembre 2001 "capitò" in un momento nel quale tutte le illusioni di una facile perpetuazione della egemonia USA, sostenuta da una supremazia economica e tecnologica, erano crollate non solo per il crollo dei titoli NASDAQ, ma soprattutto per l'improvviso, inatteso e imprevisto sviluppo impetuoso della Cina in concomitanza con la definitiva consacrazione dell'Unione Europea: l'euro. E così, fallite tutte le previsioni, l'America decideva di affidarsi di nuovo alle sorti ancora più incerte e aleatorie delle sue pratiche politiche fondate sulla "specularità" dollaro-petrolio e sulle armi.
Gli ultimi scampoli della presidenza Greenspan alla Fed, come punto di riferimento autorevole delle decisioni strategiche, si incentrarono sul pericolo opposto all'inflazione: la deflazione. I tassi di interesse, nell'ottobre 2002, erano scesi, a forza di tagli, all'1,25%, indice di eccesso di liquidità in cerca di investimento. Come egli scrive: "Dal 2003, tuttavia, la paralisi economica e il ritardo del tasso di inflazione continuavano da così tanto tempo che la Fed dovette prendere in considerazione un pericolo di natura esotica (!): la deflazione", che stava paralizzando da parecchi anni l'economia giapponese.
Il presidente della Fed era sconvolto dall'emergere di questa eventualità. La deflazione, come sapeva bene Keynes, significava caduta dei profitti e, come sapeva ancora meglio Marx, significava caduta del saggio generale del profitto. I tassi d'interesse furono portati all'l% nel tentativo di provocare un boom inflazionistico, in un momento di stagnazione e di licenziamenti. Nel frattempo i risparmiatori, delusi della Borsa, si lanciarono in un'orgia immobiliare con conseguente rischio di crisi. L'Economist, seguendo l'andamento dei prezzi immobiliari in venti nazioni, stimò che fra il 2000 e il 2005 il valore delle proprietà nei paesi sviluppati era aumentato da 40.000 a oltre 70.000 miliardi di dollari. Negli USA questo incremento riguardò soprattutto le villette unifamiliari (8.000 miliardi di dollari).
Ma l'aspetto più rilevante fu che, dopo l'analisi sul vantaggio del deficit pubblico, i surplus vennero prontamente eliminati con gli aumenti della spesa pubblica, a seguito delle leggi approvate dopo l'11 settembre a favore della sicurezza del paese e del rafforzamento della difesa, e a seguito delle spese militari sostenute nella guerra contro l'Iraq.
Per nascondere la realtà dell'interventismo militare finalizzato a una ripresa del ciclo, Greenspan sottostima il contributo del costo della guerra e delle misure antiterrorismo alla creazione del nuovo disavanzo. Egli è più propenso a incolpare i repubblicani di aver tradito i princìpi liberisti con scelte di spese incontrollate, con abusi di finanziamenti verso progetti di parte, aumento di corruzione e soggezione alle lobby. Un esempio per tutti il caso Enron: "I repubblicani al Congresso persero la retta via. Abbandonarono i princìpi a favore del potere. Alla fine non ebbero né gli uni né l'altro, meritavano di perdere". Ciò che persero fu la maggioranza al congresso.
Ma è lo stesso Greenspan che deve ammettere, a malincuore, una deroga al primato economico liberista, dicendo che se si lasciasse fare alla "mano invisibile" della globalizzazione, la leadership politica sarebbe un dettaglio poco rilevante. Ma "dall'11 settembre non è così. Chi tiene le redini del governo è importante eccome". Dimentica però di spiegare in che senso.
Era importante perché veniva a prevalere la pratica statale interventista: nella fattispecie la pratica militare funzionale alla perpetuazione della egemonia unilaterale USA, mentre la pratica interventista monetaria della Fed passava in second'ordine. Comunque, entrambe hanno poco a che vedere con la "mano invisibile" del liberismo smithiano. Ma se la vogliamo intendere come anarchia capitalistica che non guarda in faccia nessuno, allora "la mano invisibile" della globalizzazione ha premiato ciecamente lo sviluppo tecnologico informatico americano, del quale poi hanno beneficiato tutti gli altri paesi compresa la Cina, ma ha premiato soprattutto lo sviluppo cinese.
Oggi, a sette anni di distanza, non solo l'America non ha migliorato la sua posizione egemonica, non essendo riuscita a intaccare minimamente lo sviluppo cinese e asiatico, ma è costretta ad affidarsi ancora all'incerta pratica della Fed e a una crisi che assomiglia a quella degli anni '70: la crisi del 1974 capitò infatti, come quella del 2008, dopo alcuni anni di prezzi del petrolio alle stelle, di valore del dollaro alle stalle e di disavanzo americano irrefrenabile, infine dopo una guerra in M.O.
All'opposto, le altre due crisi, quella del 1987 e quella del 2000 capitarono in un periodo nel quale i prezzi del petrolio erano alle stalle, il valore del dollaro alle stelle e le guerre hanno seguito, non preceduto, i crolli in borsa (l° guerra in Iraq nel 1991, 2° guerra in Iraq nel 2003). Occorre, quindi, prendere in considerazione queste differenze se si vuole comprendere l'ultima crisi: il lunedì nero del 2008.
scritto nel 2009
[A questa indagine su "L'era della turbolenza" di Greenspan, seguirono altri tre scritti sulla crisi del 2008, già postati in questo blog sotto il titolo di "Deja vu: crollo delle borse" I, II, III]
Gli ultimi scampoli della presidenza Greenspan alla Fed, come punto di riferimento autorevole delle decisioni strategiche, si incentrarono sul pericolo opposto all'inflazione: la deflazione. I tassi di interesse, nell'ottobre 2002, erano scesi, a forza di tagli, all'1,25%, indice di eccesso di liquidità in cerca di investimento. Come egli scrive: "Dal 2003, tuttavia, la paralisi economica e il ritardo del tasso di inflazione continuavano da così tanto tempo che la Fed dovette prendere in considerazione un pericolo di natura esotica (!): la deflazione", che stava paralizzando da parecchi anni l'economia giapponese.
Il presidente della Fed era sconvolto dall'emergere di questa eventualità. La deflazione, come sapeva bene Keynes, significava caduta dei profitti e, come sapeva ancora meglio Marx, significava caduta del saggio generale del profitto. I tassi d'interesse furono portati all'l% nel tentativo di provocare un boom inflazionistico, in un momento di stagnazione e di licenziamenti. Nel frattempo i risparmiatori, delusi della Borsa, si lanciarono in un'orgia immobiliare con conseguente rischio di crisi. L'Economist, seguendo l'andamento dei prezzi immobiliari in venti nazioni, stimò che fra il 2000 e il 2005 il valore delle proprietà nei paesi sviluppati era aumentato da 40.000 a oltre 70.000 miliardi di dollari. Negli USA questo incremento riguardò soprattutto le villette unifamiliari (8.000 miliardi di dollari).
Ma l'aspetto più rilevante fu che, dopo l'analisi sul vantaggio del deficit pubblico, i surplus vennero prontamente eliminati con gli aumenti della spesa pubblica, a seguito delle leggi approvate dopo l'11 settembre a favore della sicurezza del paese e del rafforzamento della difesa, e a seguito delle spese militari sostenute nella guerra contro l'Iraq.
Per nascondere la realtà dell'interventismo militare finalizzato a una ripresa del ciclo, Greenspan sottostima il contributo del costo della guerra e delle misure antiterrorismo alla creazione del nuovo disavanzo. Egli è più propenso a incolpare i repubblicani di aver tradito i princìpi liberisti con scelte di spese incontrollate, con abusi di finanziamenti verso progetti di parte, aumento di corruzione e soggezione alle lobby. Un esempio per tutti il caso Enron: "I repubblicani al Congresso persero la retta via. Abbandonarono i princìpi a favore del potere. Alla fine non ebbero né gli uni né l'altro, meritavano di perdere". Ciò che persero fu la maggioranza al congresso.
Ma è lo stesso Greenspan che deve ammettere, a malincuore, una deroga al primato economico liberista, dicendo che se si lasciasse fare alla "mano invisibile" della globalizzazione, la leadership politica sarebbe un dettaglio poco rilevante. Ma "dall'11 settembre non è così. Chi tiene le redini del governo è importante eccome". Dimentica però di spiegare in che senso.
Era importante perché veniva a prevalere la pratica statale interventista: nella fattispecie la pratica militare funzionale alla perpetuazione della egemonia unilaterale USA, mentre la pratica interventista monetaria della Fed passava in second'ordine. Comunque, entrambe hanno poco a che vedere con la "mano invisibile" del liberismo smithiano. Ma se la vogliamo intendere come anarchia capitalistica che non guarda in faccia nessuno, allora "la mano invisibile" della globalizzazione ha premiato ciecamente lo sviluppo tecnologico informatico americano, del quale poi hanno beneficiato tutti gli altri paesi compresa la Cina, ma ha premiato soprattutto lo sviluppo cinese.
Oggi, a sette anni di distanza, non solo l'America non ha migliorato la sua posizione egemonica, non essendo riuscita a intaccare minimamente lo sviluppo cinese e asiatico, ma è costretta ad affidarsi ancora all'incerta pratica della Fed e a una crisi che assomiglia a quella degli anni '70: la crisi del 1974 capitò infatti, come quella del 2008, dopo alcuni anni di prezzi del petrolio alle stelle, di valore del dollaro alle stalle e di disavanzo americano irrefrenabile, infine dopo una guerra in M.O.
All'opposto, le altre due crisi, quella del 1987 e quella del 2000 capitarono in un periodo nel quale i prezzi del petrolio erano alle stalle, il valore del dollaro alle stelle e le guerre hanno seguito, non preceduto, i crolli in borsa (l° guerra in Iraq nel 1991, 2° guerra in Iraq nel 2003). Occorre, quindi, prendere in considerazione queste differenze se si vuole comprendere l'ultima crisi: il lunedì nero del 2008.
scritto nel 2009
[A questa indagine su "L'era della turbolenza" di Greenspan, seguirono altri tre scritti sulla crisi del 2008, già postati in questo blog sotto il titolo di "Deja vu: crollo delle borse" I, II, III]