Cartesio (1596-1650) è l'iniziatore del metodo riduzionistico (deterministico e meccanicistico) della scienza moderna: è perciò da lui che partiamo per scoprire le ragioni del successo che questo metodo ha riscosso per tanti secoli, e continua ancora a riscuotere, pur non contribuendo affatto alla conoscenza dei reali processi naturali.
Nel saggio scritto nel 1628, "Regole per la guida dell'intelligenza", egli stabilisce alcune regole e distinzioni concettuali che definiscono sia il suo metodo che il suo obiettivo. Con la prima distinzione tra intuizione e deduzione, egli considera due modi di pensare, diversi nella forma ma eguali nel loro contenuto certo: l) l'intuizione, che non è "l'incostante attestazione dei sensi o l'ingannevole giudizio dell'immaginazione malamente combinatrice", "ma un concetto privo di dubbio", immediatamente evidente; 2) la deduzione, ossia "tutto ciò che viene concluso necessariamente da certe altre cose conosciute con certezza".
Se la certezza è l'obiettivo che egli crede di raggiungere con l'intuizione evidente e la deduzione necessaria, con la quinta regola stabilisce il nuovo metodo della riduzione dal complesso al semplice: "Tutto il metodo consiste nell'ordine e nella disposizione di quelle cose a cui deve essere rivolta la forma della mente, affinché si scopra qualche verità. E tale metodo osserveremo con esattezza, se ridurremo gradatamente le proposizione involute ed oscure ad altre più semplici, e poi dall'intuito di tutte le più semplici tenteremo di salire per i medesimi gradi alla conoscenza di tutte le altre".
Nel saggio scritto nel 1628, "Regole per la guida dell'intelligenza", egli stabilisce alcune regole e distinzioni concettuali che definiscono sia il suo metodo che il suo obiettivo. Con la prima distinzione tra intuizione e deduzione, egli considera due modi di pensare, diversi nella forma ma eguali nel loro contenuto certo: l) l'intuizione, che non è "l'incostante attestazione dei sensi o l'ingannevole giudizio dell'immaginazione malamente combinatrice", "ma un concetto privo di dubbio", immediatamente evidente; 2) la deduzione, ossia "tutto ciò che viene concluso necessariamente da certe altre cose conosciute con certezza".
Se la certezza è l'obiettivo che egli crede di raggiungere con l'intuizione evidente e la deduzione necessaria, con la quinta regola stabilisce il nuovo metodo della riduzione dal complesso al semplice: "Tutto il metodo consiste nell'ordine e nella disposizione di quelle cose a cui deve essere rivolta la forma della mente, affinché si scopra qualche verità. E tale metodo osserveremo con esattezza, se ridurremo gradatamente le proposizione involute ed oscure ad altre più semplici, e poi dall'intuito di tutte le più semplici tenteremo di salire per i medesimi gradi alla conoscenza di tutte le altre".
Il motodo riduzionistico serve, dunque, a Cartesio per ottenere l'intuizione evidente, da cui risalire alla conoscenza necessaria di ciò che è complesso. E per facilitare questo metodo, egli stabilisce, con la regola sesta, una ulteriore distinzione: quella tra la categoria dell'assoluto e la categoria del relativo. Per assoluto occorre intendere "tutto ciò che è considerato quasi indipendente, causa, semplice, universale, uno, eguale, simile, retta, e altre cose di tale specie". Per relativo, ciò che ne deriva, che può essere dedotto dall'assoluto: "tale è ogni cosa che si dice dipendente, effetto, composto, particolare, molti, ineguale, dissimile, obliquo, ecc." .
Cartesio ha dunque diviso, nelle due categorie di assoluto e relativo, concetti tra loro omogenei; ma la loro omogeneità deriva dal fatto che essi appartengono o alla causa assoluta, indipendente o all'effetto relativo, dipendente. Non c'è dunque da stupirsi dell'assenza dei concetti di caso e necessità. Senza questi concetti, però, i conti non tornano.
Vediamo subito: tra i concetti assoluti, omogenei alla causa, egli pone il semplice, l'uno, l'universale, ecc., mentre tra i concetti relativi, omogenei all'effetto, egli pone il composto, il particolare, i molti. Però, l'universale è, come i molti e il composto, qualcosa di derivato. Infatti è costretto a dire che "l'universale è più assoluto del particolare, perché ha natura più semplice, ma insieme può esser detto più relativo, perché dipende dagli individui per esistere".
In sostanza, l'universale, il composto, la specie, i molti dovrebbero essere omogenei all'effetto. La contraddizione in cui cade Cartesio deriva dal fatto che, come abbiamo già visto in Aristotele, la causa ha preso il posto del caso e l'effetto quello della necessità. Ma se consideriamo il reale rapporto caso-necessità: l'uno, il singolo, il semplice, ecc. appartengono alla sfera del caso, mentre l'universale, la specie, ecc. appartengono alla sfera della necessità. Il riduzionismo deterministico cartesiano pretende invece che l'uno sia l'universale, ovvero che il singolo, il semplice, siano qualcosa di certo immediatamente (ossia necessario).
Cartesio ha distinto il semplice dal composto, senza però aver compreso che il semplice rappresenta l'individuale singolare, mentre il composto (che in realtà è un complesso) rappresenta l'universale; e che al primo corrisponde il caso e al secondo la necessità. E' solo nella regola dodicesima che egli si decide finalmente a prendere in considerazione il caso e la necessità ma ciò che dice della necessità è una serie di banalità, e ciò che dice del nesso tra caso e probabilità è così striminzito che è sorto persino un problema di interpretazione, oggi non ancora risolto: se cioè le nozioni solo probabili "doctiores nos facit", oppure "doctiores non facit".
Abbiamo già osservato che Cartesio ha sempre avuto come scopo dichiarato la certezza scientifica, perciò non poteva prendere in seria considerazione la conoscenza soltanto probabile. Per lui la scienza consisteva soltanto nel vedere come le nature semplici concorrano insieme alla composizione di altre cose. E la soluzione è da lui trovata nel metodo riduzionistico: "Se desideriamo comprendere perfettamente una questione, essa deve venir separata il più possibile, e deve essere divisa mediante l'enumerazione in parti che siano le più piccole possibili". "Tutte le volte che la difficoltà consiste nell'oscurità del discorso" occorre ricercare "dalle cose le parole, dagli effetti le cause, o dalle cause gli effetti, o dalle parti il tutto oppure altre parti, o infine più cose insieme da coteste".
Col metodo riduzionistico, Cartesio ritenne di aver trovato il modo di determinare i singoli elementi semplici di un composto, dopo averli separati; e quindi, successivamente, di poter determinare il composto stesso, indagando come il semplice viene a comporsi. Per comprendere come sia giunto a questa soluzione, prendiamo in considerazione il "Discorso sul metodo".
Nel 1619, all'età di soli 23 anni, si propose di seguire pochi punti fermi, e per il resto mettere tutto in dubbio. "Dopo essermi così assicurato di queste massime e averle messe da parte insieme alle verità della fede che sono state sempre le prime fra le mie credenze, ritenni di poter cominciare, per tutto il resto delle mie opinioni, a disfarmenere liberamente". "Io non intendevo per questo d'imitar gli scettici, i quali dubitano per dubitare e affettano d'essere sempre irresoluti nel giudizio; ché anzi, tutti i miei propositi erano di raggiungere la certezza ... "
Dichiarando che il suo scopo è il raggiungimento della certezza, Cartesio vuole distinguersi dagli scettici, ma anche dai teologi dottrinari. Passano nove anni, senza che egli abbia preso "alcun partito intorno alle difficoltà più discusse tra i dotti, né cominciato a cercare i fondamenti di una filosofia più certa di quella comune". La giustificazione di questo ritardo è la seguente: se tanti uomini insigni, in un'epoca piena d'ingegni, non erano arrivati a soddisfare il suo desiderio di certezza, il compito doveva essere troppo grande per cimentarsi. Venuto, però, a sapere che correva la voce d'esserci riuscito, decide di tentare e si isola. Passeranno ancora altri otto anni, prima che egli fosse in grado di scrivere il "Discorso sul metodo".
Che cosa escogita per uscire indenne dallo Scilla dello scetticismo e dal Cariddi della dotta teologia? Punto di partenza, la supposizione del massimo inganno dei sensi: "supporre non esserci nessuna cosa che fosse quale essi ce la fanno immaginare". "Ma, subito dopo, mi accorsi -egli scrive- che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pure qualcosa. Per cui, dato che questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa che non avrebbero potuta scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazioni come il principio primo della mia filosofia".
La verità che Cartesio afferma di poter accogliere come principio primo, inattaccabile dagli scettici è che l'Io penso verifica l'Io sono. Ciò è inesatto: la premessa è che, se io penso, devo pure essere qualcosa, ma l'essere qualcosa è diverso dell'essere puro e semplice. Dall'Io penso si può solo dedurre tautologicamente l'essere pensante. Io penso, dunque sono un essere pensante.
Ora, questa certezza tautologica per la conoscenza scientifica è meno che niente. Che il singolo individuo si renda conto di essere un essere pensante, se è un pensatore, non ha alcun valore scientifico, perché questa certezza a posteriori non cambia l'imprevedibilità della esistenza singola soggetta ai capricci del caso, dal quale dipende se uno diviene un pensatore e non invece un oste o un ghiottone.
L'Io penso, dunque sono, è una delle due formulazioni utilizzate da Cartesio; l'altra è: Io dubito, dunque sono. Ma avrebbe potuto a maggior ragione dire: Io ignoro, dunque sono, perché tutto è nato dal fatto, da lui stesso ammesso, che egli non poteva essere certo di niente, di nessuna verità: ciò che equivale a una ammissione di ignoranza scientifica.
In definitiva, l'"Io penso, dunque sono" è una formulazione generica, mentre l'"Io penso, dunque sono un essere pensante" è una formulazione determinata, anche se tautologica. Per pensare occorre, infatti, essere un essere pensante e, viceversa, un essere è pensante perché pensa. Lo stesso possiamo dire per l'Io dubito, dunque sono... un essere che dubita; e l'Io ignoro, dunque sono ... un ignorante.
Il principio di Cartesio è un espediente tautologico fatto passare per una superba deduzione. Ciò che però smaschera l'autore è anche il rapido e frettoloso passaggio dall'Io penso (dubito), dunque sono, ossia dalla certezza del proprio generico essere, alla certezza dell'essere delle cose e persino dell'essere divino. Egli dice che, poiché il conoscere è più perfetto del dubitare, egli stesso, essere che dubita, non può essere perfetto, quindi continua: "mi proposi di cercare donde avessi appreso a pensare a qualcosa di più perfetto che io non fossi, e conobbi con evidenza che doveva essere da una natura realmente più perfetta di me". Così, tutta la certezza della conoscenza deriva da Dio, "perché tutto ciò ch'è in noi viene da lui".
Va sottolineato il fatto che, per dimostrare l'esistenza divina, Cartesio debba affermare la formulazione tautologica: Io dubito, dunque sono un essere che dubita, quindi imperfetto. Dio, invece, non dubita, possiede la conoscenza certa, è perfetto. Questo artificio logico è persino ingenuo. Un uomo che non fosse stato uno dei maggiori dotti del Seicento, ma un semplice oste, avrebbe potuto sostenere col metodo cartesiano: Io ristoro, dunque sono (un oste), ma, poiché la mia cucina non è perfetta, deduco l'esistenza di un oste perfetto: Dio. Al che, un cliente ghiottone avrebbe potuto aggiungere, seguendo la stessa logica, che Dio è il ghiottone più perfetto che esista.
Scherzi a parte, il metodo di Cartesio è soltanto un artificio specioso fondato su una deduzione tautologica che non dimostra niente e non può costituire un principio fondamentale della conoscenza. Consapevole del fatto che la conoscenza scientifica del suo tempo è opinabile e incerta, egli cerca una terza via tra i due estremi della dottrina dei teologi e l'incertezza degli scettici. Perciò escogita un "metodo" e un "principio". Ma il suo metodo, che parte dal dubbio per trovare un punto fermo nel Cogito, ergo sum, dal quale pervenire subito alla certezza della suprema divinità, è solo un'operazione ideologica che egli compie con un preciso scopo: coprirsi dai teologi e dagli scettici.
Ma che cosa doveva coprire, ossia difendere? Non certo il suo "metodo", che non va oltre la prima affermazione di princìpio, ma le sue trovate, le sue spiegazioni "scientifiche". Cosa questa, che Leibniz comprese molto chiaramente, e che denunciò in alcuni suoi scritti. Ci limitiamo, qui, a citare una lettera scritta a Thomasius, a soli 23 anni, dove sostenne: "In Cartesio non trovo altro che l'enunciazione di quel metodo: infatti, quando pone a trattare le cose in concreto, viene del tutto meno a quei severi propositi, scivolando a un tratto in ipotesi gratuite e strane". "Non mi vergogno, perciò, di affermare che trovo cose più giuste nei libri di Aristotele, che nelle meditazioni di Cartesio".
Per concludere: l'aver cercato un punto fermo, un principio fondamentale del suo metodo riduzionistico, nella formula dell'Io penso, dunque sono, non poteva mettere Cartesio al riparo da quella incertezza scientifica che dominava il suo secolo. L'idea più semplice si riduceva a un'affermazione o ambigua o semplicemente tautologica. L'idea più semplice, l'Io penso, dunque sono era pur sempre il punto di vista di un singolo individuo particolare, un pensatore di professione: condizione questa indeterminabile, imprevedibile a priori, perché soggetta al caso singolare.
Cartesio ha dunque diviso, nelle due categorie di assoluto e relativo, concetti tra loro omogenei; ma la loro omogeneità deriva dal fatto che essi appartengono o alla causa assoluta, indipendente o all'effetto relativo, dipendente. Non c'è dunque da stupirsi dell'assenza dei concetti di caso e necessità. Senza questi concetti, però, i conti non tornano.
Vediamo subito: tra i concetti assoluti, omogenei alla causa, egli pone il semplice, l'uno, l'universale, ecc., mentre tra i concetti relativi, omogenei all'effetto, egli pone il composto, il particolare, i molti. Però, l'universale è, come i molti e il composto, qualcosa di derivato. Infatti è costretto a dire che "l'universale è più assoluto del particolare, perché ha natura più semplice, ma insieme può esser detto più relativo, perché dipende dagli individui per esistere".
In sostanza, l'universale, il composto, la specie, i molti dovrebbero essere omogenei all'effetto. La contraddizione in cui cade Cartesio deriva dal fatto che, come abbiamo già visto in Aristotele, la causa ha preso il posto del caso e l'effetto quello della necessità. Ma se consideriamo il reale rapporto caso-necessità: l'uno, il singolo, il semplice, ecc. appartengono alla sfera del caso, mentre l'universale, la specie, ecc. appartengono alla sfera della necessità. Il riduzionismo deterministico cartesiano pretende invece che l'uno sia l'universale, ovvero che il singolo, il semplice, siano qualcosa di certo immediatamente (ossia necessario).
Cartesio ha distinto il semplice dal composto, senza però aver compreso che il semplice rappresenta l'individuale singolare, mentre il composto (che in realtà è un complesso) rappresenta l'universale; e che al primo corrisponde il caso e al secondo la necessità. E' solo nella regola dodicesima che egli si decide finalmente a prendere in considerazione il caso e la necessità ma ciò che dice della necessità è una serie di banalità, e ciò che dice del nesso tra caso e probabilità è così striminzito che è sorto persino un problema di interpretazione, oggi non ancora risolto: se cioè le nozioni solo probabili "doctiores nos facit", oppure "doctiores non facit".
Abbiamo già osservato che Cartesio ha sempre avuto come scopo dichiarato la certezza scientifica, perciò non poteva prendere in seria considerazione la conoscenza soltanto probabile. Per lui la scienza consisteva soltanto nel vedere come le nature semplici concorrano insieme alla composizione di altre cose. E la soluzione è da lui trovata nel metodo riduzionistico: "Se desideriamo comprendere perfettamente una questione, essa deve venir separata il più possibile, e deve essere divisa mediante l'enumerazione in parti che siano le più piccole possibili". "Tutte le volte che la difficoltà consiste nell'oscurità del discorso" occorre ricercare "dalle cose le parole, dagli effetti le cause, o dalle cause gli effetti, o dalle parti il tutto oppure altre parti, o infine più cose insieme da coteste".
Col metodo riduzionistico, Cartesio ritenne di aver trovato il modo di determinare i singoli elementi semplici di un composto, dopo averli separati; e quindi, successivamente, di poter determinare il composto stesso, indagando come il semplice viene a comporsi. Per comprendere come sia giunto a questa soluzione, prendiamo in considerazione il "Discorso sul metodo".
Nel 1619, all'età di soli 23 anni, si propose di seguire pochi punti fermi, e per il resto mettere tutto in dubbio. "Dopo essermi così assicurato di queste massime e averle messe da parte insieme alle verità della fede che sono state sempre le prime fra le mie credenze, ritenni di poter cominciare, per tutto il resto delle mie opinioni, a disfarmenere liberamente". "Io non intendevo per questo d'imitar gli scettici, i quali dubitano per dubitare e affettano d'essere sempre irresoluti nel giudizio; ché anzi, tutti i miei propositi erano di raggiungere la certezza ... "
Dichiarando che il suo scopo è il raggiungimento della certezza, Cartesio vuole distinguersi dagli scettici, ma anche dai teologi dottrinari. Passano nove anni, senza che egli abbia preso "alcun partito intorno alle difficoltà più discusse tra i dotti, né cominciato a cercare i fondamenti di una filosofia più certa di quella comune". La giustificazione di questo ritardo è la seguente: se tanti uomini insigni, in un'epoca piena d'ingegni, non erano arrivati a soddisfare il suo desiderio di certezza, il compito doveva essere troppo grande per cimentarsi. Venuto, però, a sapere che correva la voce d'esserci riuscito, decide di tentare e si isola. Passeranno ancora altri otto anni, prima che egli fosse in grado di scrivere il "Discorso sul metodo".
Che cosa escogita per uscire indenne dallo Scilla dello scetticismo e dal Cariddi della dotta teologia? Punto di partenza, la supposizione del massimo inganno dei sensi: "supporre non esserci nessuna cosa che fosse quale essi ce la fanno immaginare". "Ma, subito dopo, mi accorsi -egli scrive- che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pure qualcosa. Per cui, dato che questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa che non avrebbero potuta scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazioni come il principio primo della mia filosofia".
La verità che Cartesio afferma di poter accogliere come principio primo, inattaccabile dagli scettici è che l'Io penso verifica l'Io sono. Ciò è inesatto: la premessa è che, se io penso, devo pure essere qualcosa, ma l'essere qualcosa è diverso dell'essere puro e semplice. Dall'Io penso si può solo dedurre tautologicamente l'essere pensante. Io penso, dunque sono un essere pensante.
Ora, questa certezza tautologica per la conoscenza scientifica è meno che niente. Che il singolo individuo si renda conto di essere un essere pensante, se è un pensatore, non ha alcun valore scientifico, perché questa certezza a posteriori non cambia l'imprevedibilità della esistenza singola soggetta ai capricci del caso, dal quale dipende se uno diviene un pensatore e non invece un oste o un ghiottone.
L'Io penso, dunque sono, è una delle due formulazioni utilizzate da Cartesio; l'altra è: Io dubito, dunque sono. Ma avrebbe potuto a maggior ragione dire: Io ignoro, dunque sono, perché tutto è nato dal fatto, da lui stesso ammesso, che egli non poteva essere certo di niente, di nessuna verità: ciò che equivale a una ammissione di ignoranza scientifica.
In definitiva, l'"Io penso, dunque sono" è una formulazione generica, mentre l'"Io penso, dunque sono un essere pensante" è una formulazione determinata, anche se tautologica. Per pensare occorre, infatti, essere un essere pensante e, viceversa, un essere è pensante perché pensa. Lo stesso possiamo dire per l'Io dubito, dunque sono... un essere che dubita; e l'Io ignoro, dunque sono ... un ignorante.
Il principio di Cartesio è un espediente tautologico fatto passare per una superba deduzione. Ciò che però smaschera l'autore è anche il rapido e frettoloso passaggio dall'Io penso (dubito), dunque sono, ossia dalla certezza del proprio generico essere, alla certezza dell'essere delle cose e persino dell'essere divino. Egli dice che, poiché il conoscere è più perfetto del dubitare, egli stesso, essere che dubita, non può essere perfetto, quindi continua: "mi proposi di cercare donde avessi appreso a pensare a qualcosa di più perfetto che io non fossi, e conobbi con evidenza che doveva essere da una natura realmente più perfetta di me". Così, tutta la certezza della conoscenza deriva da Dio, "perché tutto ciò ch'è in noi viene da lui".
Va sottolineato il fatto che, per dimostrare l'esistenza divina, Cartesio debba affermare la formulazione tautologica: Io dubito, dunque sono un essere che dubita, quindi imperfetto. Dio, invece, non dubita, possiede la conoscenza certa, è perfetto. Questo artificio logico è persino ingenuo. Un uomo che non fosse stato uno dei maggiori dotti del Seicento, ma un semplice oste, avrebbe potuto sostenere col metodo cartesiano: Io ristoro, dunque sono (un oste), ma, poiché la mia cucina non è perfetta, deduco l'esistenza di un oste perfetto: Dio. Al che, un cliente ghiottone avrebbe potuto aggiungere, seguendo la stessa logica, che Dio è il ghiottone più perfetto che esista.
Scherzi a parte, il metodo di Cartesio è soltanto un artificio specioso fondato su una deduzione tautologica che non dimostra niente e non può costituire un principio fondamentale della conoscenza. Consapevole del fatto che la conoscenza scientifica del suo tempo è opinabile e incerta, egli cerca una terza via tra i due estremi della dottrina dei teologi e l'incertezza degli scettici. Perciò escogita un "metodo" e un "principio". Ma il suo metodo, che parte dal dubbio per trovare un punto fermo nel Cogito, ergo sum, dal quale pervenire subito alla certezza della suprema divinità, è solo un'operazione ideologica che egli compie con un preciso scopo: coprirsi dai teologi e dagli scettici.
Ma che cosa doveva coprire, ossia difendere? Non certo il suo "metodo", che non va oltre la prima affermazione di princìpio, ma le sue trovate, le sue spiegazioni "scientifiche". Cosa questa, che Leibniz comprese molto chiaramente, e che denunciò in alcuni suoi scritti. Ci limitiamo, qui, a citare una lettera scritta a Thomasius, a soli 23 anni, dove sostenne: "In Cartesio non trovo altro che l'enunciazione di quel metodo: infatti, quando pone a trattare le cose in concreto, viene del tutto meno a quei severi propositi, scivolando a un tratto in ipotesi gratuite e strane". "Non mi vergogno, perciò, di affermare che trovo cose più giuste nei libri di Aristotele, che nelle meditazioni di Cartesio".
Per concludere: l'aver cercato un punto fermo, un principio fondamentale del suo metodo riduzionistico, nella formula dell'Io penso, dunque sono, non poteva mettere Cartesio al riparo da quella incertezza scientifica che dominava il suo secolo. L'idea più semplice si riduceva a un'affermazione o ambigua o semplicemente tautologica. L'idea più semplice, l'Io penso, dunque sono era pur sempre il punto di vista di un singolo individuo particolare, un pensatore di professione: condizione questa indeterminabile, imprevedibile a priori, perché soggetta al caso singolare.
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo Teoria della Conoscenza" (1993-2002) Inedito