venerdì 4 novembre 2011

Serendipity, ovvero l'illusione di interrogare il caso

La pagina culturale del Corriere della sera del 7 novembre 2002 riportava un ampio brano tratto da "Viaggi e avventure della Serendipity" di Robert K. Merton ed Elinor G. Barber, accompagnato da un commento di Alessandro Cavalli sull'idea base del sociologo Merton. Secondo Cavalli "Il 'caso' gioca un ruolo fondamentale, non solo nella scienza, ma in genere nelle vicende umane. La serendipity è appunto la scoperta inattesa, casuale, il dato anomalo dissonante, che mette in crisi quella che Kuhn avrebbe chiamato la scienza normale e che costringe al ripensamento e alla revisione di ciò che era dato per acquisito". Come vedremo, l'idea fondamentale di Merton non va oltre il riconoscimento del ruolo del caso e delle "conseguenze inattese", senza riuscire a trovare una soluzione che non sia il ritorno indietro all'etica e alla responsabilità individuale.

Il brano inizia così: "I problemi morali e intellettuali suscitati dalle felici scoperte accidentali sono simili e per certi aspetti importanti collegati alla spiegazione e giustificazione della buona e cattiva sorte in generale, in quanto tali felici scoperte accidentali sollevano il problema delle speranze e dei meriti legittimi". Come si vede, Merton non concepisce la serendipity come una questione di teoria della conoscenza, ma come una questione etica, relativa ai singoli individui, che egli affronta in maniera manichea: "E' destino dell'uomo riconoscere il bene e il male quando si presentano nel suo cammino, ed è suo destino, quale creatura in grado di valutare, cercare di stabilire la misura della sua responsabilità verso l'uno e l'altro".

Il fatto è che, nelle vicende individuali, il caso ci mette sempre lo zampino. Così "Il problema del bene e del male imprevisti è parte di un problema più generale: il fattore (!) imprevedibilità tocca in particolare gli uomini nella misura in cui essi attribuiscono particolare valore a un universo abitato da individui razionali". L'imprevedibilità del caso, ribattezzata serendipity secondo la solita abitudine di trovare neologismi invece che soluzioni, diventa il problema metafisico del bene e del male solo perché mette in discussione l'irrinunciabile illusione del determinismo riduzionistico di considerare "razionale" non l'universo degli individui, ma i singoli individui. Così torna a galla la vecchia storia che contrappose il pessimista Voltaire all'ottimista Leibniz, dopo il terremoto di Lisbona: "Morti premature e spaventose infermità, disastri naturali, la frustrazione degli sforzi da parte della "cattiva fortuna", tutti questi eventi -scrive Merton- sono in qualche misura incompatibili con i valori dell'uomo e per essere sopportabili devono essere spiegati, nella misura del possibile, e giustificati".

I tragici eventi, la "cattiva fortuna", ecc. non sono incompatibili con i valori dell'uomo nel suo complesso, sia esso l'intera specie umana oppure sue rilevanti frazioni, ma con il valore che il determinismo riduzionistico ha sempre attribuito al singolo uomo: quello di rappresentare il protagonista della storia. Così la pretesa di spiegare e giustificare le imprevedibili mostruosità e disgrazie che toccano i singoli individui o gruppi di individui entra in collisione con la casualità che ne costituisce l'unica ragione reale: se i tragici eventi e la "cattiva fortuna" sono imprevedibili e incontrollabili per la presenza del caso individuale, dove va a finire questa pretesa? E' così che l'incomprensione del reale ruolo del caso dà luogo al sorgere di una lunga serie di falsi problemi.

Ad esempio "il problema di scoprire un senso nella generale irrazionalità del mondo e nel modo in cui particolari individui divengono i fortunati beneficiari o le sfortunate vittime di quella irrazionalità". Ciò che Merton non riesce a intendere è che una cosa è la cieca necessità dei complessi del mondo, altra cosa è la casualità inerente i singoli. Così egli attribuisce al "mondo" quella irrazionalità dovuta al caso che rappresenta invece il principale attributo dei singoli individui. Egli non vede l'esistenza del rapporto contradditorio caso singolo - necessità complesso, rilevante per la teoria della conoscenza; egli riduce la questione del caso a una problematica meschina: il merito o la colpa individuale in relazione, rispettivamente, alla "fortuna" o alla "sfortuna".

"Le risposte che vengono fornite al problema generale della responsabilità dell'uomo per il bene e il male
-scrive Merton- sono collegate al più specifico problema della misura della sua responsabilità per il bene e il male inaspettati. Queste risposte possono, a loro volta, essere collegate all'ancor più specifico problema della sua responsabilità per il compimento di felici scoperte accidentali. Specialmente quando soffre acutamente per colpa dell'improvvisa sfortuna o quando è travolto da un inatteso colpo di fortuna, l'uomo non può fare a meno di domandarsi "perché?"."

Insomma, di fronte al caso che distribuisce capricciosamente "beni" e "mali" ai singoli individui, Merton prende in considerazione una domanda insensata, anche se individualmente spontanea, e pretende farsi carico della "spiegazione dell'origine della buona e cattiva sorte" domandandosi a sua volta "com'è che la fortuna e la sfortuna "capitano" agli uomini, e cos'ha fatto ciascun individuo per meritarsi il suo destino?" E ancora: "L'individuo merita esattamente quello che ottiene?" Tutte queste domande hanno una sola risposta: il caso. E la questione del merito deve essere sottratta al cieco caso, perché di mezzo c'è la cieca necessità complessiva .

Per rispondere alla domanda: l'individuo merita quello che ottiene? è sufficiente chiederci quale merito abbiano i nuovi nati della specie umana a nascere per l'80-90% nel "Sud" povero. Se è già il caso della nascita a stabilire chi debba cominciare a vivere da povero, come si può attribuirne la responsabilità agli individui? La responsabilità si trova là dove il sociologo individualista piccolo borghese non vuole guardare: nella cieca necessità di una specie umana divisa in un ristretto "Nord" opulento e in un vasto "Sud" povero.

Ma il sociologo non ci sta a considerarsi non responsabile della propria sorte fortunata, non accetta d'essere una comparsa casuale e irrilevante in un mondo dove la vera protagonista è la specie umana con le sue complessive condizioni economiche, sociali e politiche. A causa di questo rifiuto, il sociologo finisce col porsi una miriade di domande fittizie che non hanno risposte necessarie, perché riguardano singoli individui soggetti al caso. "Anche se non è facile giustificare tutto il bene e il male che colpiscono l'individuo -sostiene Merton-, non è del pari possibile far apparire gli sforzi umani in larga misura futili e le ricompense casuali. Superare l'apparente futilità e scoprire un ordine e una giustizia nelle ricompense rappresenta un eterno problema umano".

Ma questo è sempre stato un falso problema, risolto nell'unica maniera storicamente possibile: in maniera convenzionale e ideologica. Ora, questo falso problema sulla sorte dell'individuo, che non viene accettata come casuale, diventa, nell'epoca attuale "prevalentemente secolare", il problema di giudicare i meriti personali. Così Merton prende in considerazione i due casi estremi del "fortunato" e dello "sfortunato", per sostenere: "La compassione per lo sfortunato dipende, in modo implicito o esplicito, dalla dimostrabilità del fatto che nessuno sforzo o precauzione "ragionevoli" avrebbero potuto impedire la malasorte. L'ammirazione per il fortunato, dal canto suo, dipende dalla dimostrazione del fatto che non di "mera fortuna" si è trattato. Il disagio morale connesso alla mera fortuna è evidente quando l'individuo fortunato ricorda ai suoi "giudici" che, dopotutto, egli ha avuto la sua parte di sfortuna in passato: nell'economia generale, per così dire, giustizia è fatta".

Insomma, compassione per lo sfortunato e ammirazione del fortunato non sono altro che atteggiamenti convenzionali che presuppongono una contraddizione: nel primo caso si compatisce la sfortuna come malasorte, contro la quale lo sfortunato non poteva fare niente; nel secondo si ammira la fortuna non come buona sorte ma come una conseguenza del merito personale. Merton moralisticamente, per non scontentare gli sfortunati e i fortunati nel loro rispettivo punto debole, concede ai primi di poter scansare o almeno giustificare il demerito personale e ai secondi di potersi appellare al merito personale. Ma nella realtà della nostra società, è molto più facile che prevalga l'indifferenza e il disprezzo verso lo sfortunato proprio da parte di chi ammira il fortunato. E anche questo è un portato del vecchio e mai morto determinismo riduzionistico.

Riassumendo la questione, Merton pone una serie di domande che hanno a che fare con la valutazione dell'azione umana, posta tra l'incudine della dura necessità e il martello del capriccioso caso: "Se si sostiene che la buona e la cattiva fortuna si azzerano, che dire della responsabilità dell'individuo che ha incontrato entrambe? Meritava l'una o l'altra? O tutt'e due? O nessuna delle due? In che misura egli va giudicato per essersi conformato alle norme del duro lavoro e della competenza, e in che misura egli è vittima del fato?" Come si vede, qui è posto il problema del giudizio di merito sul comportamento e sull'azione individuale, giudizio complicato dalla presenza della "serendipity". 

Nel volume sulla dialettica caso-necessità nella storia, abbiamo trattato la questione della valutazione dell'azione umana giungendo alla conclusione che l'attività dell'uomo è necessariamente collettiva e organizzata, perciò il giudizio di merito riguarda principalmente l'organizzazione, per la quale l'individuo è solo un pezzo di ricambio. Così, mentre per l'organizzazione si può compiere una valutazione oggettiva, scientifica, riguardo al singolo individuo il giudizio di merito è ostacolato dal peso della casualità individuale. Ne deriva come conseguenza che attribuire all'individuo necessità, appartenenti al complesso cui egli è soggetto, significa caricarlo di  responsabilità che non gli appartengono.

Questo è l'errore continuamente compiuto dalle ideologie politiche, dalla morale e dalla religione, le quali pretendono dall'individuo obblighi che spesso egli non può adempiere per motivi che esulano dalle sue possibilità; e il mancato adempimento attira critiche e giudizi negativi che deprimono l'individuo immeritatamente. Ma anche quando la morale e la religione lo "consolano" attribuendo il fallimento a potenze superiori naturali o sociali, il risultato è sempre lo stesso: l'individuo si sente "incompreso" e chiuso in una rete di responsabilità e obblighi che non gli appartengono in quanto individuo, sempre in balìa di circostanze casuali da lui non volute.

A questo proposito, la conclusione del brano di Merton è molto rivelatrice: "Secondo queste dottrine religiose o secolari, il peso di una eccessiva fortuna o sfortuna è almeno in parte trasferito dall'individuo alle potenze superne, o alla natura umana, o ai processi sociali e, correlatamente, lo stigma del fallimento o del successo immeritato è reso in qualche misura meno bruciante". Ma, c'è una condizione che riporta il peso della serendipity interamente sulle spalle dell'individuo rendendogli la vita ancor più penosa. "Questa esenzione dalla responsabilità è subordinata (!) alla condizione che l'individuo ottimizzi (!) tutte le risorse a sua disposizione per compiacere (!) il suo Dio, o per trarre il massimo vantaggio dalla sua razionalità, o per controllare i processi storici (sic!) che influenzano il suo destino".

La condizione per essere esentati da responsabilità che non appartengono al singolo individuo, sono peggiori delle stesse attribuzioni di responsabilità: in questa insigne società capitalistica bisogna proprio fare di tutto per "compiacere", se si vuole avere successo o almeno evitare l'insuccesso o la critica negativa al proprio operato! E molti potrebbero raccontare che cosa ha significato per loro "compiacere", ottimizzando tutte le proprie risorse personali che avevano a disposizione!

Ma è soprattutto il richiamo alla possibilità che l'individuo possa ottimizzare le sue risorse, "per controllare i processi storici che influenzano il suo destino", che lascia stupefatti. La cieca necessità di questi processi storici si manifesta sugli individui come puro e semplice caso. Così, solo a un sociologo presuntuoso poteva venire in mente una simile assurdità dall'alto della sua cattedra! All'individuo va già bene se riesce a controllare quel poco che dipende da lui.

In conclusione, la serendipity di Merton è dunque solo un nome che sta al posto delle imprevedibili conseguenze del caso; ma il caso, separato dalla necessità, non ha alcun significato. Anche in relazione alla società umana, esiste una polarità dialettica caso-necessità che si manifesta come caso relativo ai singoli individui che si rovescia nella cieca necessità dei complessi umani, e viceversa.

Perciò, il caso spadroneggia sui singoli individui quanto la cieca necessità spadroneggia sulla specie umana; ed anzi, come abbiamo già sostenuto in altro luogo, la cieca necessità della specie dipende dal suo nesso con la casualità dei suoi singoli membri, e viceversa. Perciò, solo la riduzione del caso individuale e della conseguente cieca necessità della specie potrà permettere la necessità fondata sul rapporto di causa ed effetto nella direzione del raggiungimento dei fini voluti. Ma questo riguarda la storia futura, se mai la riguarderà.

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Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" (2005-2007)

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