La preoccupazione per la crescita demografica della popolazione mondiale che, come abbiamo visto, dipende dalle aree sottosviluppate e in via si sviluppo, dove si concentra la maggioranza dei poveri, diede luogo, negli anni Settanta, a teorizzazioni e sperimentazioni fallimentari sul contenimento demografico. L'esempio più noto fu la posizione espressa da Lester R. Brown, che nel 1974 pubblicò "I limiti della popolazione mondiale", indicando nel sottotitolo, "Una strategia per contenere la crescita demografica", l'illusoria possibilità di intervento sui paesi poveri con politiche di controllo demografico.
L'autore partì dalle stime delle Nazioni Unite, che per il 2000 prevedevano tre ipotesi sulla popolazione mondiale: 1) minima, di 6 miliardi di individui; 2) media, di 6,5 miliardi; 3) massima, di 7 miliardi. E sostenne che persino l'ipotesi minima (ipotesi che si è poi realizzata) doveva essere considerata irrealistica a causa delle tensioni ecologiche, economiche, sociali e politiche che avrebbe prodotto.
Brown si diceva preoccupato soprattutto per la scarsità delle risorse energetiche, alimentari e delle materie prime. Il consistente aumento dei prezzi dei cereali e del petrolio nei primi anni Settanta fu immediatisticamente ed erroneamente attribuito alla scarsità naturale delle risorse. Ad esempio, nel 1972, le riserve petrolifere mondiali nel sottosuolo erano state valutate in 670 miliardi di barili. Se consideriamo che oggi, dopo oltre 30 anni di forte consumo di petrolio nel mondo, si calcolano riserve superiori a 1.000 miliardi di barili, si può facilmente comprendere quanto fosse allora infondata, o per lo meno molto prematura, la preoccupazione sulla scarsità delle risorse petrolifere.
Ciò che Brown introdusse nel suo libro fu però la novità del nesso tra demografia ed economia: "Gli studiosi di demografia -egli scrisse- sanno da tempo che un sufficiente progresso economico, quale c'è in Europa e nel Nord America fa diminuire rapidamente i tassi di natalità. I demografi in genere concordano anche sul fatto che una diffusa miseria tende a mantenere alti i tassi di natalità, per l'ovvia ragione che le famiglie che vivono senza un adeguato impiego, senza istruzione e senza cure sanitarie non hanno pressoché altra sicurezza per il futuro che quella consistente nel contare sui propri figli".
L'autore partì dalle stime delle Nazioni Unite, che per il 2000 prevedevano tre ipotesi sulla popolazione mondiale: 1) minima, di 6 miliardi di individui; 2) media, di 6,5 miliardi; 3) massima, di 7 miliardi. E sostenne che persino l'ipotesi minima (ipotesi che si è poi realizzata) doveva essere considerata irrealistica a causa delle tensioni ecologiche, economiche, sociali e politiche che avrebbe prodotto.
Brown si diceva preoccupato soprattutto per la scarsità delle risorse energetiche, alimentari e delle materie prime. Il consistente aumento dei prezzi dei cereali e del petrolio nei primi anni Settanta fu immediatisticamente ed erroneamente attribuito alla scarsità naturale delle risorse. Ad esempio, nel 1972, le riserve petrolifere mondiali nel sottosuolo erano state valutate in 670 miliardi di barili. Se consideriamo che oggi, dopo oltre 30 anni di forte consumo di petrolio nel mondo, si calcolano riserve superiori a 1.000 miliardi di barili, si può facilmente comprendere quanto fosse allora infondata, o per lo meno molto prematura, la preoccupazione sulla scarsità delle risorse petrolifere.
Ciò che Brown introdusse nel suo libro fu però la novità del nesso tra demografia ed economia: "Gli studiosi di demografia -egli scrisse- sanno da tempo che un sufficiente progresso economico, quale c'è in Europa e nel Nord America fa diminuire rapidamente i tassi di natalità. I demografi in genere concordano anche sul fatto che una diffusa miseria tende a mantenere alti i tassi di natalità, per l'ovvia ragione che le famiglie che vivono senza un adeguato impiego, senza istruzione e senza cure sanitarie non hanno pressoché altra sicurezza per il futuro che quella consistente nel contare sui propri figli".
Quest'ultima considerazione, invece di persuadere l'autore della inevitabilità della crescita demografica a ragione dell'impossibilità di ridurre la povertà a livello mondiale, ché anzi questa stava crescendo dal 1950, lo indusse a ritenere necessaria e possibile un'altra via. La ricetta proposta da Brown, e ripresa in tempi più recenti da Amartya Sen, è la seguente: "La diffusione dell'istruzione molto spesso ha l'effetto di far ritardare il matrimonio e di suggerire alternative professionali alla maternità". Ciò che l'autore di questa illusoria ricetta dimenticava era la mancanza di "alternative professionali" alla povertà.
Negli anni Settanta, però, si levarono alcune voci contrarie alle teorizzazioni del controllo delle nascite nei paesi poveri. Tra queste, Mahmood Mamdani che, nel suo libro "Il mito del controllo demografico" (1972), sostenne la seguente tesi: le famiglie sono numerose perché sono povere: "Molto si è scritto sul "problema demografico" negli anni recenti. Si dice che la sovrappopolazione sia la causa principale della povertà nei paesi "sottosviluppati"; la sovrappopolazione è la "malattia" e la pianificazione familiare è il "rimedio". Tale opinione è stata divulgata da varie opere neomalthusiane, compreso il libro di Paul Ehrlich, la bomba demografica, che ebbe uno straordinario successo".
Secondo Mamdani: "Parlare, come fa Ehrlich, di sovrappopolazione, è dire alla gente: siete poveri perché siete troppi. Come dimostrerò in questo saggio, la gente non è povera perché ha famiglie troppo numerose. Proprio il contrario, la famiglia è numerosa perché è povera". Secondo Mamdami, la povertà respinge per necessità il controllo delle nascite, perché solo una famiglia numerosa permette di sopravvivere e di migliorare le proprie condizioni di vita.
"Il nostro punto di vista -egli scrive- è che il fallimento del programma di controllo delle nascite non è dovuto al modo in cui è stato condotto, bensì a quello in cui è stato concepito. Nessun programma del genere avrebbe avuto successo, in quanto il controllo delle nascite si opponeva agli interessi vitali degli abitanti. Mettere in atto le pratiche antifecondative avrebbe voluto dire andare di proposito in cerca del disastro economico".
Per provare la sua tesi l'autore cita uno studio condotto su un villaggio indiano, Manupur, dove si dimostra che non solo il contadino per sopravvivere doveva avere molti figli, e per questo motivo chi aveva molti figli era tenuto in alta considerazione; ma anche le varie caste, come il sarto, il fabbro, l'acquaiolo, ecc. erano costrette, per sopravvivere e migliorare le proprie condizioni economiche e sociali, a mettere al mondo molti figli.
Un esempio per tutti: un acquaiolo accolse l'autore con le seguenti parole: "Cercavate nel 1960 di convincermi che non avrei dovuto avere figli. Ora, vedete, ho sei maschi e due femmine e me ne sto bello comodo a casa. Sono adulti e mi portano denaro. Uno addirittura lavora fuori del villaggio come manovale. Mi dicevate che ero un poveretto che non poteva mantenere una famiglia numerosa, ora, vedete, per via della famiglia numerosa, io sono ricco".
Altri esempi dello stesso genere sono citati dall'autore per dimostrare empiricamente che sia i contadini sia le varie caste non agricole avevano trovato il modo di progredire puntando sul numero elevato dei figli: "Nella quantità -egli conclude- essi avevano trovato la sicurezza e l'unica occasione di benessere". Mandami ha dunque dimostrato sul campo, prendendo come esempio uno dei tanti villaggi poveri dell'India, il motivo per cui il tentativo di controllo e di riduzione delle nascite fosse destinato al fallimento in una nazione povera.
Se nel benessere della società dell'opulenza i figli rappresentano un costo economico che sottrae risorse allo shopping delle coppie "globali" e "postmoderne", ragion per cui le nascite diminuiscono, nella società della penuria i figli rappresentano il solo investimento possibile per sperare di ottenere un miglioramento delle condizioni economiche, ragion per cui le nascite aumentano.
Il fenomeno empirico del passaggio dalla elevata natalità tipica delle società preindustriali e sottosviluppate alla bassa natalità tipica delle società industriali avanzate, è stato razionalizzato, ma non compreso, dalla teoria della "transizione demografica". Alessandro Lanza, nel suo libro già citato ("Lo sviluppo sostenibile"), afferma: "L'espressione "transizione demografica" è usata dai demografi per definire i cambiamenti nel rapporto tra nascite e morti avvenuti nei paesi industrializzati a partire dal XIX secolo"
Secondo Lanza, si tratta di un processo a tre fasi: "[1] Nella situazione di partenza (o prima fase) coesistono elevata natalità ed elevata mortalità, e la prima è solo leggermente superiore alla seconda. Questa situazione di (quasi) equilibrio assicura un livello di popolazione pressoché costante o che cresce molto lentamente. [2] Nella seconda fase, per un insieme di ragioni, tutte comunque legate allo sviluppo economico (campagne di vaccinazione, e migliori condizioni igienico sanitarie), la mortalità decresce mentre la natalità rimane alta. Si verifica così un marcato e rapido incremento demografico. [3] A questo segue un terzo momento, in cui sempre in seguito allo sviluppo economico, la natalità decresce perché cambiano gli stili di vita e i comportamenti riproduttivi delle persone. Si raggiunge così un nuovo equilibrio tra natalità e mortalità, che si attesta perciò a un tasso decisamente inferiore".
La teoria della transizione demografica sembra spiegare correttamente il fenomeno. In realtà si limita a descriverlo in termini assolutamente empirici senza risolvere alcune contraddizioni fondamentali. Consideriamo, ad esempio, la terza fase: l'equilibrio è lo stesso della prima fase, ma per motivi e con risultati del tutto opposti. Nella prima fase molti nascono e molti muoiono (alta natalità, alta mortalità infantile e breve durata media di vita); nella terza fase pochi nascono e pochi muoiono (bassa natalità, bassa mortalità infantile e lunga durata media di vita). Allora, se in tutto il mondo si verificasse questa "transizione demografica" alla terza fase, l'inevitabile risultato sarebbe un rapido invecchiamento della specie umana: invece di saltellanti bambini, tenuti a bada dalle giovani madri, piazze e giardini ospiterebbero zoppicanti vecchietti tenuti a bada dalle... badanti. E questo è il meglio che potremmo aspettarci da una generale "transizione demografica": serio problema del prossimo futuro.
Nella realtà attuale noi osserviamo, invece, una specie umana divisa in due: una parte minoritaria che ha realizzatto la sua "transizione demografica", e perciò rimane relativamente costante o tende a diminuire poco in termini assoluti, ma molto in termini relativi, a confronto cioè con l'aumento della parte maggioritaria; quest'ultima infatti non riesce a realizzare la sua "transizione demografica" per la permanenza della condizione di povertà.
Ma esiste un'altra contraddizione: se ci chiediamo a quale fase appartenga il vecchio Terzo mondo, ribattezzato "Sud" del mondo, ci rendiamo conto che una parte sembra rimanere nella prima fase, mentre paesi come la Cina e l'India sembrano non solo trovarsi nella seconda fase, ma in parte essere già nella terza fase. La Cina, in particolare, è già sotto l'effetto della "transizione demografica" alla terza fase, perché una consistente frazione della sua popolazione è formata dalle cosiddette famiglie "sottili" (due nonni, una coppia di sposi e un solo figlio: "il piccolo budda").
Inoltre, in quei paesi che sembrano ancora permanere nella prima fase, ad esempio l'Afghanistan, l'altissima natalità non è completamente compensata dall'alta mortalità infantile, perché, bene o male, essi usufruiscono di qualche miglioramento igienico e sanitario che risparmia parte dei bambini da una morte prematura. A mantenere, invece, il triste privilegio di garantire alta natalità - alta mortalità, sembra rimanere soltanto il continente africano, nel quale, secondo i più recenti rilevamenti (novembre 2005), sarebbero 5 milioni i bambini che muoiono annualmente. Ma i tassi di natalità sono così elevati che il continente africano continua a crescere demograficamente.
In conclusione, la teoria della "transizione demografica", concependo rigidamente tre fasi che si succedono meccanicamente, ha compiuto il classico errore metafisico; quindi non è stata in grado di comprendere le diverse contraddizioni relative alla questione demografica della fase attuale. Nella fase della "globalizzazione" non esistono più le condizioni dell'epoca primitiva, quelle della prima fase dell'equilibrio demografico, perché, sebbene malnutriti, sfruttati e maltrattati, gran parte dei bambini del Terzo mondo sopravvivono in una misura superiore all'epoca primitiva, e dunque in misura superiore alla cieca necessità dell'equilibrio demografico; ma, nel contempo, vivono una vita, miserabile a confronto con le normali esigenze di prosperità della specie umana attuale.
Come abbiamo già osservato in un'altra occasione, l'attuale tragedia della riproduzione della specie umana consiste nel fatto che essa si riproduce mediante una percentuale maggioritaria di nati in condizioni di miseria e spesso di degrado. Si tratta di una percentuale tra l'80 e il 90%. Quindi il vero problema del secolo appena iniziato è che, già a metà del suo tragitto o anche un pò prima, la specie umana sarà costituita almeno dall'80% di adulti segnati da un'infanzia vissuta nel degrado economico, fisico e morale. Ecco un problema sociale molto serio che nessuno considera.
E così, partendo dalla questione demografica, siamo arrivati ad una questione diversa, quella della specie umana divisa in due: una minoranza che vive nell'opulenza e una maggioranza che vive nella penuria. Questa divisione è stata presa in considerazione ed elaborata, alla solita maniera metafisica, dai teorici della "sostenibilità" e dei "limiti dello sviluppo". E' ciò che vedremo prossimamente.
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Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" (2005-2007).