venerdì 16 settembre 2011

Globalizzazione: fase senescente del capitalismo

La pretesa di fermare il tempo del capitalismo

Il capitalismo analizzato da Marx è il processo economico che sta a fondamento della società moderna: mai uguale a se stesso, in quanto processo di tipo naturale, ha attraversato tutte le fasi della sua evoluzione, dalla nascita alla giovinezza, dalla maturità alla senilità, infine all'attuale fase senescente, chiamata globalizzazione. Termine questo che, dal punto di vista scientifico, vale quanto l'impostazione teorica che lo ha coniato: ossia nulla.

Potremmo affermare in estrema sintesi, e come anticipazione, che è stata la concezione della "fine della scienza" e della "fine della storia" a inventare la "globalizzazione" come termine campato in aria, bloccato in un eterno presente, ovviamente, impossibile. E' il terrore della fine del capitalismo che ha paralizzato i teorici contemporanei, i quali si comportano come quei vecchi che negassero la propria fine naturale, ostinandosi a voler "fermare il Sole", a voler fermare il tempo.

Insomma, non si vuole accettare l'idea che il capitalismo abbia ormai raggiunto la sua fase finale: la senescenza. A decretare questa fase finale c'è una sola ma fondamentale entità: la caduta inarrestabile del saggio generale (medio) del profitto. E la lotta contro il tempo della fine del capitalismo è la lotta disperata contro la definitiva caduta del saggio generale del profitto, lotta condotta con strumenti che riportano la società umana indietro di secoli.

Tutto ciò che di eccessivo troviamo nella nostra epoca è prodotto da questa lotta contro il tempo. Così ritroviamo vecchi arnesi recuperati dal passato, dalle origini del capitalismo: l'usura, il commercio-rapina, il ritorno della schiavitù, ma soprattutto il ritorno alla produzione universale di plusvalore assoluto, allo scopo di alimentare il saggio medio del profitto, fortemente ridotto dall'aumento inarrestabile della composizione organica del capitale nella produzione industriale dei PSA.  

La pretesa di fermare il tempo si risolve così nel ritorno al passato. L'illusione è quella di mantenere per sempre in vita il capitalismo, anche a costo di accettare ciò che la coscienza umana di un passato non troppo remoto avrebbe respinto con sdegno, come, ad esempio, uno sfruttamento "irlandese" di centinaia di milioni di lavoratori (dei PVS). Nell'epoca del "politically correct", invece, tutto è digeribile grazie soltanto a ipocrite manifestazioni di umanitarismo, "in linea di principio".

Se la questione principale è, da tempo, come impedire la catastrofica caduta del saggio medio del profitto, due sono le principali forme attuate: l) l'eccesso di produzione del plusvalore assoluto nei paesi in via di sviluppo; 2) l'eccesso di realizzazione del plusvalore grazie all'opera del marketing nei paesi sviluppati. Allora, sub l) si è affermata la cieca necessità di gigantesche masse proletarie che lavorano in industrie a basso capitale costante, percependo un salario di fame; sub 2) si è affermata la cieca necessità di consistenti masse di shopper assoggettate al dominio del marketing che ha realizzato l'obiettivo di Keynes: ridurre il risparmio a favore del profitto, ma creando ciò che Keynes non avrebbe mai immaginato: famiglie rovinate dalla nuova usura del "credito al consumo".

Se l'estorsione di plusvalore assoluto a molte centinaia di milioni di proletari nel Sud del mondo è un ritorno indietro alle pratiche del capitalismo primitivo, e a certe forme di schiavitù che ricordano la tratta degli schiavi neri dall'Africa del Settecento, estorcere un tasso usuraio del 15% alle famiglie indebitate dallo shopping e ai PVS indebitati dai prestiti esteri è qualcosa che non si era mai visto, se non in epoca precapitalistica.

I punti 1) e 2) rappresentano anche lo spartiacque tra due mondi opposti, tra due opposte società all'interno della società mondiale capitalistica: il Nord ricco e opulento e il Sud povero e indigente. Questi due mondi mostrano una speciale divisione di compiti: da un lato la produzione del plusvalore, dall'altro la sua realizzazione; da un lato una produzione di merci e servizi senza limiti, dall'altro uno shopping sfrenato. Ecco la forma illusoria di un capitalismo eterno.*

La cieca necessità della distribuzione diseguale


Abbiamo visto che i due principali contrassegni del capitalismo sono: a) la produzione generalizzata delle merci, b) la produzione complessiva del plusvalore in esse contenuto. Il capitale pompa plusvalore dalla produzione delle merci, e lo realizza nella circolazione delle merci in forma di saggio medio del profitto, ciò che gli permette di accumularsi. L'accumulazione del capitale mediante la produzione e la realizzazione del plusvalore è l'essenza vitale del capitalismo. Perciò la complessiva produzione capitalistica appartiene al regno della necessità, necessità che, come abbiamo visto, s'impone come cieca media regolatrice attraverso il saggio medio del profitto.

Ma quando passiamo a considerare la distribuzione del plusvalore, la necessità complessiva si polverizza in infiniti frammenti, perché la distribuzione è il regno della appropriazione individuale: diversamente dalla produzione del plusvalore che non ha significato individuale, la distribuzione del plusvalore ha senso soltanto dal punto di vista individuale, e l'individualità appartiene al regno del caso. Lo stesso si può dire, a maggior ragione, per la forma generale della distribuzione: la distribuzione dei redditi, le cui due uniche fonti sono il capitale variabile (salari) e il plusvalore.

Affermare che nel capitalismo la distribuzione appartiene al regno della casualità, significa negare che per le necessità vitali del capitale, per la sopravvivenza del capitalismo, la distribuzione conti qualcosa. L'unico aspetto della distribuzione che conta per l'accumulazione del capitale è che la massa complessiva del valore (denaro) distribuito non intralci la continuità della produzione del plusvalore e della sua realizzazione, e non riduca il saggio generale del profitto. Il punto fondamentale per il capitale è la garanzia della produzione di una massa complessiva di plusvalore che contrasti la caduta tendenziale del saggio generale del profitto. Quindi, questa massa deve crescere nel tempo per necessità di compensazione.

Per quanto riguarda le forme della distribuzione dei redditi, lo sviluppo capitalistico, accrescendo il numero dei rami della produzione e del commercio, aumenta la diversificazione delle qualità e delle quantità delle fonti di reddito, creando vistose differenze di livelli di vita; ma, questo fenomeno, che colpisce negativamente la coscienza etica, non produce alcuna conseguenza necessaria sul capitale. Al capitale poco importa chi e quanti e in che misura si approprino di quantità diversificate di reddito; importa invece che non venga risparmiato, tesaurizzato, ossia sottratto all'investimento produttivo di plusvalore e all'acquisto di beni di consumo, oggi chiamato "shopping".

Comunque sia distribuito il denaro, la distribuzione in se stessa è polverizzazione di valore nelle tasche di singoli individui, perciò in se stessa rappresenta un fenomeno opposto all'accumulazione del capitale nella forma della centralizzazione. Ma per ovviare a questo oggettivo difetto della distribuzione è sorto non a caso il sistema bancario, che ha sempre svolto il compito necessario di centralizzare il denaro polverizzato nelle tasche della popolazione mondiale, per renderlo disponibile, con il sistema creditizio, all'investimento capitalistico al fine dell'accumulazione del capitale. In questo modo si raccoglie per necessità ciò che si distribuisce secondo casualità.

Con questi presupposti, va da sé che nessuna critica al modo di distribuzione capitalistico può sperare d'essere una critica scientificamente fondata. Bene che vada, questa critica può sottolineare il fatto che i salariati nel mondo sono nella loro maggioranza mal pagati (ma allora tanto vale fondare la critica sulla nozione di pluslavoro che produce plusvalore, ricordando che i salariati non ricevono il corrispettivo del loro pluslavoro); male che vada, questa critica se la prende con le grandi differenze di reddito personale (che variano enormemente non solo tra le diverse classi sociali, ma anche al loro interno; che variano enormemente tra i due estremi della ricchezza esagerata e della miseria nera), inconsapevole di trovarsi nel regno dell'imprevedibile caso quando si prendono in considerazione i singoli, e nel regno della cieca necessità quando si prendono in considerazione i complessi.

Questo tipo di critica inconsapevole, che immagina di poter regolare qualcosa che è o casuale o ciecamente necessario, si è posto spesso l'obiettivo della riforma della distribuzione, che consisterebbe in un riequilibrio delle differenze di reddito. Ora, se astraiamo da limitate politiche dei redditi attuate a livello nazionale, che in genere sono il risultato dei rapporti di forza tra le classi, e consideriamo invece una redistribuzione dei redditi a livello mondiale, possiamo senz'altro escludere questa possibilità. Ma se non è possibile agire su una redistribuzione dei redditi a livello mondiale, allora la critica moralistica alla distribuzione diventa inutile.

Perché è impossibile attuare a livello mondiale una redistribuzione dei redditi? Ingenuamente si potrebbe, come talvolta vien fatto, affermare che i paesi più ricchi e quindi gli abitanti più ricchi di questi paesi potrebbero rinunciare a una parte delle proprie ricchezze per aumentare il reddito dei paesi più poveri e dei loro abitanti. A parte la difficoltà operativa di un simile intervento, esso contrasterebbe con la natura stessa del modo di produzione capitalistico. Oggi si tratta di grandi numeri, di miliardi d'individui che vivono in condizioni di povertà assoluta o relativa. Per portarli a un livello di vita decente, occorrerebbe sacrificare una quota consistente di plusvalore. In altre parole, per sussidiare decentemente miliardi di individui, si dovrebbe sacrificare proprio ciò che serve alla tenuta del saggio generale del profitto e alla sopravvivenza del capitalismo.

Sarebbe il più classico dei circoli viziosi: perché l'esistenza stessa di questi miliardi di poveri, la metà dei quali partecipa in prima persona alla produzione mondiale in condizioni di arretratezza, rappresenta la cieca necessità della produzione complessiva di plusvalore assoluto, necessario alla sopravvivenza del capitalismo. A causa della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, determinata dall'aumento incessante del capitale costante nei paesi sviluppati, la produzione del plusvalore assoluto, compensativo, è affidata proprio a questi miliardi di individui poveri, che possono realizzarla solo in quanto rimangano poveri, ovvero continuino a fornire plusvalore assoluto in massicce dosi per un capitalismo senescente allo stremo.

* La demarcazione tra "Nord" e "Sud", sebbene originariamente di carattere geografico continentale, col tempo ha finito per intersecare i confini regionali e nazionali. Come vedremo, la povertà del "Sud" da tempo è comparsa persino negli USA (Aggiunta 2012: e ora ha raggiunto anche l'Europa, come del resto previsto), mentre l'opulenza del "Nord" si va estendendo in Cina, per citare i due principali esempi.

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Tratto dagli ultimi paragrafi di "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005) Inedito


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