sabato 24 settembre 2011

Il reale rapporto opulenza-penuria nel mondo globale

Uno dei problemi da risolvere per poter comprendere l'attuale fase storica della specie umana è la sua distribuzione nelle aree geografiche, distribuzione che deve riflettere sia le tendenze demografiche sia quelle economiche, in quanto economia e demografia contribuiscono a determinare essenziali differenze all'interno della stessa specie.

Come abbiamo visto, riguardo alle tendenze demografiche, non esiste alcuna difficoltà di indagine, perché la peculiarità della distribuzione demografica emerge chiaramente: la maggioranza della specie umana è localizzata nel Sud del mondo, in Asia, in America Latina e in Africa, dove si riscontrano da parecchi decenni i più alti tassi di natalità e la più elevata crescita demografica, tendenze destinate a protrarsi nei prossimi decenni sia pure in misura decrescente e differenziata.

Si può, altresì, affermare che queste aree, economicamente meno sviluppate di quelle del Nord (Nord America, Europa e Giappone), sono caratterizzate da condizioni di vita definibili come "penuria", sia in senso relativo che assoluto. Ciò che dobbiamo risolvere è però il problema statistico della frequenza percentuale dell'umanità che vive nella penuria in rapporto a quella che vive nella opulenza.

Questo problema è di difficile soluzione, e per diverse ragioni: la prima, che la specie umana è divisa in 193 Stati nazionali, dei quali dal punto di vista demografico sono rilevanti solo alcune decine, e tra questi solo due (Cina e India) ospitano più di 1/3 della popolazione mondiale, e 25 più di 2/3; la seconda ragione è che ogni Stato, qualunque sia il suo livello di sviluppo economico, il suo Pil e il suo Pil pro capite, presenta un suo specifico rapporto quantitativo tra il numero di proprietari ricchi o benestanti e il numero dei nullatenenti poveri. Anche il paese più povero ha i suoi ricchi, così come anche il paese più ricco ha i suoi poveri. Naturalmente questo rapporto, che varia da Stato a Stato, presenta valori approssimativamente simili a seconda che si tratti della categoria dei paesi sviluppati (PSA) o della categoria dei paesi in via di sviluppo (PVS) o dei paesi a sviluppo bloccato.

Per dare un'idea indicativa del problema statistico che dobbiamo risolvere, si può partire da una prima ipotesi grossolana. Possiamo così considerare, dal punto di vista del rapporto ricchezza-povertà, 4 "mondi": il primo, quello occidentale dei PSA, che comprende la cosiddetta Triade: America del Nord, Unione Europea (dei 15) e Giappone; il secondo, quello dei paesi a medio sviluppo, rappresentato da un numero ristretto di paesi, ad esempio, Messico, Brasile, Russia; il terzo, rappresentato dal vecchio Terzo mondo dei PVS, dove potevamo trovare fino a poco tempo fa (prima del forte sviluppo cinese e indiano che sta rimescolando tutte le carte) grandi Stati come Cina, India e la maggior parte dei PVS; infine, il quarto, dove troviamo tutti i paesi sottosviluppati o a sviluppo bloccato, tra i quali principalmente i paesi africani.

In questi quattro "mondi" esistono quattro diversi rapporti tra opulenza e penuria che possiamo indicare approssimativamente con le seguenti frazioni:
   
                                        Mondi       opulenza       penuria
                                            1°               2/3               1/3
                                            2°               1/3               2/3
                                            3°               1/5               4/5
                                            4°               1/10             9/10

Se prendiamo in considerazione l'intera popolazione mondiale, tutte le fonti attribuiscono, alla fine del Novecento, 1,2 miliardi di individui all'opulenza e 4,8 miliardi di individui alla penuria. Si tratta perciò di un rapporto 1/5: 4/5. Quindi la media mondiale del rapporto tra ricchezza e povertà sembra essere uguale alla media del Terzo mondo.*

Ed in effetti è proprio così: se consideriamo la specie umana nel suo complesso, possiamo stabilire che le sue condizioni di esistenza sono da Terzo mondo, "senza offesa" per chi crede di rappresentare la vera umanità: l'Occidente opulento e democratico. Quando affermiamo che il rapporto opulenza-penuria proprio della specie umana nel suo complesso è da Terzo mondo, non "manchiamo di rispetto" all'Occidente opulento, così come non "offendiamo" i ricchi di uno Stato africano quando lo collochiamo nel Quarto mondo. Del resto, quando affermiamo che gli Stati Uniti rappresentano il principale esempio di Stato dell'opulenza, non facciamo un torto ai suoi numerosi poveri: è solo una questione di frequenze statistiche complessive.

Alcuni sociologi ed economisti hanno risolto la contraddizione sostenendo che il Terzo mondo attraversa tutti i paesi, anche quelli più ricchi. Possiamo condividere questa denuncia, ma riteniamo più scientifico stabilire che la distribuzione tra ricchezza e povertà nel mondo è da Terzo mondo, proprio perché, astraendo dalle differenze locali relative ai singoli paesi, la percentuale di questa distribuzione è stata di 1/5:4/5 almeno fino alla fine del Novecento.

Nella letteratura economica e sociologica non mancano dati che attestano la supremazia del Nord opulento e dati che attestano l'assoggettamento del Sud povero. Ciò che manca a questa letteratura è la comprensione di questo stato di cose e delle sue implicazioni. Innanzi tutto, da dove nasce il divario tra Nord e Sud? Che cosa lo perpetua e lo aumenta? Perché la "letteratura" continua a denunciare l'esistenza di centinaia di milioni di bambini allo sbando, schiavi del lavoro e del sesso, l'esistenza di quasi un miliardo di affamati, ecc. oscillando tra il moralismo impotente e la deprimente rassegnazione, con l'intermezzo dell'inutile agitarsi delle Ong, le quali sono tanto più "visibili", quanto meno mostrano risultati positivi? [Detto tra parentesi, nonostante le Ong siano in circolazione ormai da decenni, il divario tra povertà e ricchezza è nel frattempo raddoppiato]

Cercheremo di rispondere all'ultima domanda, quando affronteremo il 3° settore. Per ora, in questo capitolo, cerchiamo di rispondere alle domande principali, ossia: qual è l'origine e quali sono le conseguenze del reale terzomondismo della specie umana? La domanda parte da un presupposto trascurato completamente dagli storici dell'economia e della sociologia: che la specie umana è il complesso necessario da indagare; e l'Occidente, che pretende di ergersi al di sopra della specie, che si considera il protagonista principale, rappresenta soltanto una modesta frazione di essa, frazione destinata sempre più a ridursi di numero.

Il punto di vista che scegliamo non è quindi quello soggettivo, particolare, della regione nella quale il caso ci ha fatto nascere, e neppure il punto di vista di quelle regioni più sventurate, nei confronti delle quali lo sdegno morale può suscitare simpatia, ma è quello generale, complessivo della specie umana, l'unico che abbia reale significato scientifico.

La storia che intendiamo scrivere è la storia della specie umana, non la storia del fortunato "Nord" o dello sfortunato "Sud" (e la fortuna, si sa, può anche cambiare direzione). In un'epoca in cui tutti esaltano la globalizzazion come una grande novità, e la tengono in palmo di mano, siano essi entusiasti panegiristi o pessimisti critici, ci permettiamo di ricordare che di realmente globale c'è soltanto la specie umana con le sue esigenze di sopravvivenza, di benessere e di libertà. Perciò tutto ciò che di globale troviamo su questa Terra, dalla produzione al mercato mondiale, alla differenza tra opulenza e penuria, riguarda in primo luogo l'intera specie umana e il suo futuro destino.
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*Grazie al recente e rapido sviluppo di Cina e India e di altri paesi asiatici è probabile che l'attuale rapporto opulenza-penuria sia più vicino a 1/4:3/4. Rimane, comunque, valido il discorso che segue, anche perchè all'aumento di una minoranza di benestanti, da una parte, corrisponde una diminuzione, dall'altra, per non parlare del fatto che lo sviluppo capitalistico dell'agricoltura nei PVS riduce la possibilità della produzione per l'autoconsumo, aumentando la miseria assoluta. 

Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" (2005-2007)
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