Il matematico Ivar Ekeland, nel suo stravagante libello dal titolo molto significativo: "A CASO - la sorte, la scienza e il mondo" (1992), che, a detta dello stesso autore, può essere letto a caso, senza alcuna preoccupazione per la successione dei capitoli, si diverte a giocare con il calcolo delle probabilità, con l'incertezza della scienza, con leggende medioevali e con altro ancora. La stravaganza, che qui fa il paio con la superficialità teorica, e che appare come puro svago per il lettore, in realtà serve all'autore soltanto per portare acqua al mulino della concezione anarchica della conoscenza, fondata sull'incertezza. Dal guazzabuglio confuso degli argomenti "trattati", emerge, infatti, una concezione della contingenza che val la pena di mostrare.
Secondo Ekeland: "L'edificio della scienza, e così la storia umana comprendono molto arbìtrio, cosicché ci si sorprende a sognare ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato. Noi siamo i superstiti di uno spietato processo di selezione che sceglie, nell'infinita varietà dei futuri possibili, quello che infine si realizzerà". E ancora: "Che cosa è questo mondo così contingente?" "Dinanzi all'assalto di questa contingenza multiforme, l'umanità si sforza di identificare i determinismi sottostanti, ossia di dare un senso al mondo. Come abbiamo visto, può trattarsi di concatenazioni necessarie come di regolarità statistiche: si tratta solo di svelarle".
L'originalità a tutti i costi non è sufficiente a mettere il nostro autore al riparo dal più trito luogo comune deterministico, ossia la distinzione tra il concetto di "concatenazione necessaria" e il concetto di "regolarità statistica", assunto così poco originale da appartenere al più classico dei determinismi: il ritenere cioè la necessità sotto la giurisdizione della causalità, mentre la regolarità statistica sarebbe qualcosa di altro, che non ha nulla a che vedere con la concatenazione necessaria.
Secondo Ekeland: "L'edificio della scienza, e così la storia umana comprendono molto arbìtrio, cosicché ci si sorprende a sognare ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato. Noi siamo i superstiti di uno spietato processo di selezione che sceglie, nell'infinita varietà dei futuri possibili, quello che infine si realizzerà". E ancora: "Che cosa è questo mondo così contingente?" "Dinanzi all'assalto di questa contingenza multiforme, l'umanità si sforza di identificare i determinismi sottostanti, ossia di dare un senso al mondo. Come abbiamo visto, può trattarsi di concatenazioni necessarie come di regolarità statistiche: si tratta solo di svelarle".
L'originalità a tutti i costi non è sufficiente a mettere il nostro autore al riparo dal più trito luogo comune deterministico, ossia la distinzione tra il concetto di "concatenazione necessaria" e il concetto di "regolarità statistica", assunto così poco originale da appartenere al più classico dei determinismi: il ritenere cioè la necessità sotto la giurisdizione della causalità, mentre la regolarità statistica sarebbe qualcosa di altro, che non ha nulla a che vedere con la concatenazione necessaria.
Ma è quando cerca di definire il caso che Ekeland riesce a superare i deterministi sul loro stesso terreno, ed è ancor più paradossale che egli riesca in questa impresa, mentre fornisce un saggio insuperabile di saccente stravaganza. "Per precisare meglio le cose, vorrei ricordare che una definizione corrente del caso consiste nel vedere in esso l'interruzione di serie causali indipendenti". Nient'affatto: "nell'universo non ci sono, né possono esserci, serie causali indipendenti. Il passante esercita dalla strada una forza di attrazione sulla tegola che si trova nel tetto dell'edificio (sic!), e il colpo di vento che la fa cadere è inseparabile da tutto un contesto metereologico in cui l'attività passata della vittima ha avuto la sua parte (sic!)".
Insomma, il nostro matematico non critica le serie causali indipendenti dal punto di vista indeterministico, contrario alla connessione di causa ed effetto, tutt'altro: egli ritiene questa connessione ancor più assoluta, immaginando che il passante attiri gravitazionalmente la pietra sulla propria testa, e abbia anche la sua parte di responsabilità per il colpo di vento che stacca la tegola dal tetto. Di fronte a simili affermazioni, c'è solo da chiedersi: per quale scopo l'autore gioca in maniera così palesemente bizzarra e assurda con concetti fisici come la gravitazione? la risposta può essere solo questa: vuole togliere ogni serio fondamento alla scienza.
Alla stessa conclusione si giunge riflettendo sulle considerazioni di Ekeland attorno alla storia. Egli critica, ad esempio, il primo storico scientifico dell'epoca civile: Tucidide, per aver commesso un arbitrio scegliendo, tra i tanti eventi di una battaglia, quelli a suo giudizio essenziali. Secondo lui: "non ha senso, non ha alcun fondamento, privilegiare un momento particolare di questa o quella storia rispetto a un'altra. La rivendicazione che dell'identità ci fa gridare "perché questa cosa deve succedere proprio a me?", non può sfociare che nel non-senso e nella sofferenza. Il caso si dissolve nella dolce indifferenza del mondo".
Il fatto che, riguardo al singolo individuo, si tratti principalmente di casualità che si dissolvono nella indifferenza (perché dolce?) del mondo, non ha nulla a che vedere con la storia degli eventi e dei soggetti collettivi, dove siamo su un altro piano qualitativo, quello della necessità. Se il protagonista della storia fosse il singolo individuo, allora non avrebbe senso privilegiare questa o quella storia, ma il singolo è una comparsa casuale; protagonisti sono gli eventi e i soggetti collettivi, i risultati ciechi della storia. E dunque solo all'egocentrismo di un matematico dobbiamo addebitare la "dolce indifferenza del mondo". Tucidide non fu indifferente alla guerra del Peloponneso, e ne fu un valido storico perché seppe guardare ai reali protagonisti della storia, rimanendo indifferente alla indifferenza del mondo nei confronti dei singoli individui, storici compresi.
Ora, che cosa significa negare il fondamento alla scelta di eventi storici, se non negare la possibilità della scienza storica? Sebbene Ekeland creda di aver scelto le sue leggende a caso, mentre Tucidide le avrebbe scelte con l'"arbitrio" della ragion veduta, ciò non cambia in alcun modo il fatto che, per poter anche solo parlare di storia, occorre scegliere un argomento da cui cominciare, occorre scegliere le parole, il linguaggio, e bisogna riflettere persino sulla prima parola che dà l'avvio al discorso.
Se dunque è un arbitrio scegliere fra i tanti eventi, fra le tante storie, fra i tanti argomenti, fra le tante parole e persino fra le tante prime parole iniziali, allora tutti commettiamo continuamente questo arbitrio, quando apriamo bocca, quando iniziamo a scrivere una pagina. Il vero arbitrio, però, non è la scelta di una determinata storia, ecc., ma la scelta di determinate leggende che dovrebbero dimostrare che il caso è il padrone della storia, solo perché è padrone dei singoli individui e dei singoli minuti eventi. Invece, il caso nella storia si rovescia continuamente nella cieca necessità dei risultati complessivi, spesso risultati non voluti, di azioni collettive.
Interessante, a questo punto, prendere dall'autore esempi concreti come la questione del rischio relativo ai prodotti della tecnologia umana. Poiché l'imprevisto è sempre possibile, spesso derivando da distrazioni di singoli individui, si pone il problema della massima affidabilità in riferimento a meccanismi pericolosi come ad esempio le centrali nucleari. Qui i calcoli di probabilità indicano l'ampiezza della casualità, permettendo di aumentare la sicurezza, aumentando il numero di barriere, combinazioni di valvole, ecc., così da ridurre il peso della casualità. Ma nei casi del Titanic ritenuto inaffondabile e del razzo vettore americano esploso al venticinquesimo lancio, nonostante si fosse stimata una sola probabilità su 100.000 di incidente, Ekeland crede di comprovare l'incertezza della scienza, della tecnologia, e anche il suo argomento preferito: il calcolo delle probabilità.
Insomma, il nostro matematico non critica le serie causali indipendenti dal punto di vista indeterministico, contrario alla connessione di causa ed effetto, tutt'altro: egli ritiene questa connessione ancor più assoluta, immaginando che il passante attiri gravitazionalmente la pietra sulla propria testa, e abbia anche la sua parte di responsabilità per il colpo di vento che stacca la tegola dal tetto. Di fronte a simili affermazioni, c'è solo da chiedersi: per quale scopo l'autore gioca in maniera così palesemente bizzarra e assurda con concetti fisici come la gravitazione? la risposta può essere solo questa: vuole togliere ogni serio fondamento alla scienza.
Alla stessa conclusione si giunge riflettendo sulle considerazioni di Ekeland attorno alla storia. Egli critica, ad esempio, il primo storico scientifico dell'epoca civile: Tucidide, per aver commesso un arbitrio scegliendo, tra i tanti eventi di una battaglia, quelli a suo giudizio essenziali. Secondo lui: "non ha senso, non ha alcun fondamento, privilegiare un momento particolare di questa o quella storia rispetto a un'altra. La rivendicazione che dell'identità ci fa gridare "perché questa cosa deve succedere proprio a me?", non può sfociare che nel non-senso e nella sofferenza. Il caso si dissolve nella dolce indifferenza del mondo".
Il fatto che, riguardo al singolo individuo, si tratti principalmente di casualità che si dissolvono nella indifferenza (perché dolce?) del mondo, non ha nulla a che vedere con la storia degli eventi e dei soggetti collettivi, dove siamo su un altro piano qualitativo, quello della necessità. Se il protagonista della storia fosse il singolo individuo, allora non avrebbe senso privilegiare questa o quella storia, ma il singolo è una comparsa casuale; protagonisti sono gli eventi e i soggetti collettivi, i risultati ciechi della storia. E dunque solo all'egocentrismo di un matematico dobbiamo addebitare la "dolce indifferenza del mondo". Tucidide non fu indifferente alla guerra del Peloponneso, e ne fu un valido storico perché seppe guardare ai reali protagonisti della storia, rimanendo indifferente alla indifferenza del mondo nei confronti dei singoli individui, storici compresi.
Ora, che cosa significa negare il fondamento alla scelta di eventi storici, se non negare la possibilità della scienza storica? Sebbene Ekeland creda di aver scelto le sue leggende a caso, mentre Tucidide le avrebbe scelte con l'"arbitrio" della ragion veduta, ciò non cambia in alcun modo il fatto che, per poter anche solo parlare di storia, occorre scegliere un argomento da cui cominciare, occorre scegliere le parole, il linguaggio, e bisogna riflettere persino sulla prima parola che dà l'avvio al discorso.
Se dunque è un arbitrio scegliere fra i tanti eventi, fra le tante storie, fra i tanti argomenti, fra le tante parole e persino fra le tante prime parole iniziali, allora tutti commettiamo continuamente questo arbitrio, quando apriamo bocca, quando iniziamo a scrivere una pagina. Il vero arbitrio, però, non è la scelta di una determinata storia, ecc., ma la scelta di determinate leggende che dovrebbero dimostrare che il caso è il padrone della storia, solo perché è padrone dei singoli individui e dei singoli minuti eventi. Invece, il caso nella storia si rovescia continuamente nella cieca necessità dei risultati complessivi, spesso risultati non voluti, di azioni collettive.
Interessante, a questo punto, prendere dall'autore esempi concreti come la questione del rischio relativo ai prodotti della tecnologia umana. Poiché l'imprevisto è sempre possibile, spesso derivando da distrazioni di singoli individui, si pone il problema della massima affidabilità in riferimento a meccanismi pericolosi come ad esempio le centrali nucleari. Qui i calcoli di probabilità indicano l'ampiezza della casualità, permettendo di aumentare la sicurezza, aumentando il numero di barriere, combinazioni di valvole, ecc., così da ridurre il peso della casualità. Ma nei casi del Titanic ritenuto inaffondabile e del razzo vettore americano esploso al venticinquesimo lancio, nonostante si fosse stimata una sola probabilità su 100.000 di incidente, Ekeland crede di comprovare l'incertezza della scienza, della tecnologia, e anche il suo argomento preferito: il calcolo delle probabilità.
Ma questi esempi dimostrano ben altro: si tratta di circostanze per le quali stimare la reale ampiezza del caso è difficile se non impossibile. Si tratta di circostanze imponderabili che con la scienza e la tecnologia pura hanno poco a che vedere. Troppo spesso il fallimento dell'opera umana nella riduzione del peso della casualità è attribuibile al tipo di società e al modo di produzione e di scambio fondato sul profitto, perché per un grande profitto, non solo singoli individui possono compiere qualsiasi "distrazione", ma anche, soprattutto grandi gruppi economici possono accettare qualsiasi rischio, se poi le spese di risarcimento possono aspettare con l'aiuto degli avvocati, mentre il profitto incassato è già posto al sicuro.
Abbiamo già avuto modo di vedere in più occasioni che il pensiero incerto si fonda su una errata considerazione del rapporto probabilità-statistica. Vediamo, a questo proposito, Ekeland: "Una probabilità zero significa che l'evento in questione è considerato impossibile e lo si può ignorare. Un evento di probabilità uno, per contro, è considerato certo, ossia si è sicuri che avrà luogo. Le probabilità intermedie, fra 0 e 1, esprimono i diversi gradi di certezza, nello stesso modo in cui le divisioni del termometro fra 0 e 100 misurano la temperatura dell'acqua".
Poiché, però, le nostre misure possono essere solo approssimative, noi in genere non sappiamo quale evento avrà "probabilità" 0 o 1 (che equivale a una certezza). Nella realtà, quindi, tutti gli eventi apparterranno alla categoria intermedia delle probabilità comprese tra 0 e 1; ma tra zero e uno infiniti sono i numeri. Ora, di questi eventi, per i quali esistono infinite diverse probabilità teoriche, che cosa ci può dire il calcolo delle probabilità? Secondo Ekeland che non si può esser certi di nulla, neppure del sorgere del sole ogni 24 ore. E questa incertezza, chiamata per converso "gradi di certezza", secondo lui può essere misurata solo quantitativamente, come la febbre è misurata dal termometro.
Come tutti i teorici anarchici, Ekeland sottolinea l'incertezza relativa al concetto di probabilità, ma solo perché dimentica l'altro lato del rapporto: la statistica, ossia i risultati statistici complessivi, rilevabili come frequenze certe. Infatti, egli scrive: "Più di ogni altro scienziato, egli [il probabilista] risente dolorosamente del fatto di non poter convalidare alcun modello, e di non poter apportare con certezza se non una risposta negativa". I "gradi di certezza" sono, per Ekeland, la negazione della certezza! Ma egli fa di più: nega che la statistica si fondi sul caso: "La sola evenienza in cui lo statistico [probabilista] può affermare la presenza del caso è quando lo introduce lui stesso", come ad esempio, nella preparazione dei sondaggi.
Per Ekeland "la statistica non è fatta per dimostrare l'esistenza del caso, o per svelarne la presenza. Essa si fonda, al contrario su un postulato iniziale: che il mondo sia probabilistico. Come ognuno di noi, lo statistico prende l'avvio dal principio che il mondo esiste, ma gli chiede qualcosa di più, gli chiede d'essere probabile".
Questa è confusione al massimo grado: la statistica è confusa con la probabilistica; le frequenze statistiche certe e sicure scompaiono, per lasciare il campo alle incertezze probabilistiche. A loro volta le incertezze relative alla probabilità non sono più riferite al caso. Ma separando il caso dalla probabilità, Ekeland ha tolto al rapporto probabilità-statistica ogni fondamento. Non dobbiamo, però, stupirci più di tanto: lo abbiamo già visto, ogni teorico anarchico della conoscenza ha una sua versione e il soggettivismo della teoria anarchica si compone dei contributi solipsistici di ciascun autore.
Non vedendo la necessità relativa alle frequenze statistiche, non vedendo che la statistica poggia sull'ampia base della casualità della quale il calcolo delle probabità è puro e semplice riflesso, Ekeland ha finito col separare il calcolo delle probabilità dal caso, rimanendo senza fondamenti. Che cosa, dunque, gli resta? La più assoluta incertezza che egli esprime in mille modi e con mille esempi. Ci limitiamo, per concludere, al seguente passo: "Crediamo di vivere in un universo in cui gli eventi di probabilità troppo debole non si producono, e ci comportiamo di conseguenza. Finora l'esperienza non ci ha smentito, ma nessuno può essere certo di come sarà il futuro".
Se l'autore ritiene "probabilità troppo debole" un mondo "in cui i fiumi salirebbero verso la loro sorgente", da questo punto di vista possiamo stare tranquilli anche per il futuro. Ma se, per "probabilità troppo debole", egli intende solo frequenze statistiche eccezionali, rare, allora è completamente in errore, perché tutta l'evoluzione della materia avviene grazie a queste rarità statistiche.
Abbiamo già avuto modo di vedere in più occasioni che il pensiero incerto si fonda su una errata considerazione del rapporto probabilità-statistica. Vediamo, a questo proposito, Ekeland: "Una probabilità zero significa che l'evento in questione è considerato impossibile e lo si può ignorare. Un evento di probabilità uno, per contro, è considerato certo, ossia si è sicuri che avrà luogo. Le probabilità intermedie, fra 0 e 1, esprimono i diversi gradi di certezza, nello stesso modo in cui le divisioni del termometro fra 0 e 100 misurano la temperatura dell'acqua".
Poiché, però, le nostre misure possono essere solo approssimative, noi in genere non sappiamo quale evento avrà "probabilità" 0 o 1 (che equivale a una certezza). Nella realtà, quindi, tutti gli eventi apparterranno alla categoria intermedia delle probabilità comprese tra 0 e 1; ma tra zero e uno infiniti sono i numeri. Ora, di questi eventi, per i quali esistono infinite diverse probabilità teoriche, che cosa ci può dire il calcolo delle probabilità? Secondo Ekeland che non si può esser certi di nulla, neppure del sorgere del sole ogni 24 ore. E questa incertezza, chiamata per converso "gradi di certezza", secondo lui può essere misurata solo quantitativamente, come la febbre è misurata dal termometro.
Come tutti i teorici anarchici, Ekeland sottolinea l'incertezza relativa al concetto di probabilità, ma solo perché dimentica l'altro lato del rapporto: la statistica, ossia i risultati statistici complessivi, rilevabili come frequenze certe. Infatti, egli scrive: "Più di ogni altro scienziato, egli [il probabilista] risente dolorosamente del fatto di non poter convalidare alcun modello, e di non poter apportare con certezza se non una risposta negativa". I "gradi di certezza" sono, per Ekeland, la negazione della certezza! Ma egli fa di più: nega che la statistica si fondi sul caso: "La sola evenienza in cui lo statistico [probabilista] può affermare la presenza del caso è quando lo introduce lui stesso", come ad esempio, nella preparazione dei sondaggi.
Per Ekeland "la statistica non è fatta per dimostrare l'esistenza del caso, o per svelarne la presenza. Essa si fonda, al contrario su un postulato iniziale: che il mondo sia probabilistico. Come ognuno di noi, lo statistico prende l'avvio dal principio che il mondo esiste, ma gli chiede qualcosa di più, gli chiede d'essere probabile".
Questa è confusione al massimo grado: la statistica è confusa con la probabilistica; le frequenze statistiche certe e sicure scompaiono, per lasciare il campo alle incertezze probabilistiche. A loro volta le incertezze relative alla probabilità non sono più riferite al caso. Ma separando il caso dalla probabilità, Ekeland ha tolto al rapporto probabilità-statistica ogni fondamento. Non dobbiamo, però, stupirci più di tanto: lo abbiamo già visto, ogni teorico anarchico della conoscenza ha una sua versione e il soggettivismo della teoria anarchica si compone dei contributi solipsistici di ciascun autore.
Non vedendo la necessità relativa alle frequenze statistiche, non vedendo che la statistica poggia sull'ampia base della casualità della quale il calcolo delle probabità è puro e semplice riflesso, Ekeland ha finito col separare il calcolo delle probabilità dal caso, rimanendo senza fondamenti. Che cosa, dunque, gli resta? La più assoluta incertezza che egli esprime in mille modi e con mille esempi. Ci limitiamo, per concludere, al seguente passo: "Crediamo di vivere in un universo in cui gli eventi di probabilità troppo debole non si producono, e ci comportiamo di conseguenza. Finora l'esperienza non ci ha smentito, ma nessuno può essere certo di come sarà il futuro".
Se l'autore ritiene "probabilità troppo debole" un mondo "in cui i fiumi salirebbero verso la loro sorgente", da questo punto di vista possiamo stare tranquilli anche per il futuro. Ma se, per "probabilità troppo debole", egli intende solo frequenze statistiche eccezionali, rare, allora è completamente in errore, perché tutta l'evoluzione della materia avviene grazie a queste rarità statistiche.
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito
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