venerdì 28 ottobre 2011

La società dello shopping: la figura sociale dello shopper

Uno degli equivoci della sociologia attuale è considerare una novità recente la società della "globalizzazione" e nel contempo mantenere la vetusta espressione di "società del consumismo". L'era del consumismo ha avuto inizio quando, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, una massa consistente di salariati ha cominciato ad acquistare utilitarie, frigoriferi, lavatrici, televisori per consumarli il più a lungo possibile.

E, sebbene oggi la situazione sia cambiata, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, un sociologo tra i più ragguardevoli, Zigmunt Bauman, continua a sostenere che "La nostra è una società dei consumi"; che, nell'attuale stadio "tardomoderno" (Giddens), "secondo moderno" (Beck), "surmoderno" (Balandieu), la società ha bisogno "di impegnare i suoi membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una norma: saper e voler consumare".

Abbiamo visto che questa "norma" era già diventata parola d'ordine del nascente marketing, negli anni '20, in America. In Europa divenne attuale soltanto dagli anni '60; quindi la cosiddetta globalizzazione sembra non aver cambiato nulla nella "società del consumismo". E invece, è lo stesso Bauman che, contraddicendo la sua precedente affermazione, scopre che il "consumo" non è propriamente ciò che questa società pretende. Infatti scrive: "Il fatto che consumare prenda del tempo è in realtà la rovina della società dei consumi (sic!), ed è una grossa preoccupazione per i distributori dei beni di consumo".

Abbiamo anche già visto che la cosiddetta società dei consumi è sempre stata la società del consumo "pagante", che l'aspetto fondamentale era l'acquisto delle merci; ma il termine "consumismo" aveva ancora un significato per il fatto che l'acquirente acquistava per consumare effettivamente il valore d'uso della merce. Ora veniamo a sapere che il momento del consumo "è in realtà la rovina della società dei consumi".

Ma se si elimina il momento del consumo, scompare l'ultima ragione che poteva giustificare l'espressione "società dei consumi" o "società del consumismo". Allora che società è questa? Indirettamente Bauman ci fornisce elementi per rispondere alla domanda. Innanzi tutto, l'autore non se la sente di affermare che il consumo deve scomparire di punto in bianco: "La soddisfazione del consumatore dovrebbe essere istantanea in un duplice senso. Ovviamente, i beni consumati dovrebbero soddisfare nell'immediato, senza richiedere l'apprendimento di speciali capacità o il protrarsi di un lavoro preparatorio; e la soddisfazione dovrebbe anche cessare "immediatamente", ossia non appena esaurito il tempo necessario al consumo, che andrebbe ridotto all'essenziale". "La cultura della società dei consumi riguarda piuttosto il dimenticare che non l'imparare, non c'è neanche bisogno che gli oggetti del desiderio siano fisicamente durevoli".

Questo consumo ridotto all'istante, questi oggetti del consumo che devono durare poco e, infine, questo desiderio che "non vuole soddisfazione. Al contrario, il desiderio vuole desiderare", che cosa rappresentano, se non il definitivo benservito al "consumismo"? Che cosa può significare l'affermazione che "il desiderio vuole desiderare"? Ridotto il consumo all'istante, resta il desiderio. Di che cosa? Evidentemente di un altro istante, quindi di un altro bene di consumo. Insomma, il desiderio non deve appagarsi nel consumo, quindi deve riguardare molto meno l'atto del consumo, e molto di più l'atto dell'acquisto.

Insomma, il sociologo borghese deve ammettere, pur con tutte le cautele del caso, che non è più il desiderio del consumo la molla dell' acquisto - che rappresenta lo scopo reale del marketing fin dalle origini del "consumismo"-. Ormai, ciò che viene indicato come norma sociale è il desiderio diretto dell'acquisto: non si deve acquistare per il bisogno o il piacere di consumare, ma si deve acquistare per il bisogno o il piacere dell'acquisto.

Così il consumatore non è più una figura sociale, al suo posto il puro e semplice acquirente (shopper). La sua attività sociale predominante diventa il puro e semplice shopping. Non si tratta più di un esercito di consumatori, ma di un esercito di shopper bombardati da spot pubblicitari in ogni luogo e momento della loro esistenza, allo scopo di mantenere efficiente la loro attività sociale prioritaria: lo shopping.

Questa è la novità della nostra epoca. Quindi non deve stupire che il sociologo borghese dia il suo contributo anche a questa "innovazione". Non deve, perciò, stupire che Jeremy Seabrook, citato da Bauman, affermi che il segreto della società di oggi è l'insoddisfazione individuale, come conseguenza della necessità di "sviluppare un senso di insufficienza in maniera artificiosa e soggettiva", perché "nulla potrebbe essere più minaccioso del fatto che la gente si dichiarasse soddisfatta di quello che ha".

Chi è soddisfatto di quello che ha, non corre a fare acquisti; dunque, il rientro tra le pareti domestiche, dopo aver fatto shopping, deve essere accompagnato da insoddisfazione, per lenire la quale si deve ripetere il giorno dopo la medesima esperienza frustrante, e così di seguito senza requie. L'insoddisfatto perenne perpetuerà lo shopping senza limiti. Poiché, però, un limite allo shopping esiste ed è il reddito personale, "il ricco diventa oggetto di universale ammirazione", ma solo perché rappresenta quell'"insoddisfatto" in grado di perpetuare lo shopping senza alcun limite. "Si adora- scrive Seabrook- la ricchezza stessa, la ricchezza come chiave di uno stile di vita più fantasioso e prodigo. Conta ciò che si può fare, non ciò che si deve fare o ciò che è stato fatto".

Concretamente, non conta lo shopping appena fatto, ma lo shopping che si può fare domani. Seabrook sostituisce il "dovere" dello shopping con il "potere" di fare shopping. Il fatto è che il marketing impone il "dovere" dello shopping. Quanto al potere è una questione di ricchezza o povertà. "Il povero -sostiene Seabrook- non abita una cultura separata da quella del ricco, deve vivere nello stesso mondo concepito per chi ha quattrini". Ma che cosa può rappresentare il "povero" in un mondo "concepito" per il "ricco"? Ne Bauman e neppure il citato Seabrook lo dicono. Però, quando, nel capitolo dedicato al turismo, Bauman prende in considerazione le due figure sociali di "turista" e "vagabondo", e giunge alla conclusione che "il vagabondo è un consumatore pieno di difetti", suggerisce senza volerlo la soluzione per il "povero" nella sfera dello shopping.

La povertà di cui qui si parla è la povertà relativa che riguarda la grande massa di famiglie che si indebitano per perpetuare lo shopping, famiglie appartenenti alla società dell'opulenza. Il credito al consumo che, ad esempio, i grandi centri commerciali offrono ai clienti, è un modo per attuare un eccesso di commercio, un modo di incrementare le vendite coinvolgendo tutti, anche le famiglie prive di risparmio. Perciò la povertà, nella società dell'opulenza, si manifesta nella forma di una nuova categoria sociale: la massa degli "shopper imperfetti", i quali, limitati nella loro possibilità di spesa, diventano debitori insolventi.

Per comprendere le conseguenze del credito al consumo in riferimento alla trasformazione sociale del consumatore nella figura sociale dello shopper, occorre tenere presente la distinzione operata da Marx tra la moneta come mezzo di acquisto e la moneta come mezzo di pagamento. Finché il lavoratore spende il suo reddito come mezzo di acquisto, senza ricorrere al credito, egli è un semplice consumatore: per lui la moneta è semplice mezzo di circolazione; ma quando usufruisce del "credito al consumo", egli diventa debitore, e come tutti i debitori ha bisogno di moneta come mezzo di pagamento.

Mentre nel primo caso, la moneta media semplicemente lo scambio e perciò il consumatore va al mercato con la moneta in mano che scambia con merci di consumo, nel secondo caso egli va al centro commerciale e acquista merci con promessa di pagamento futuro; in questo caso la moneta, come mezzo di pagamento, diventa moneta assoluta alla scadenza del debito: diventa urgente necessità di denaro. Nel primo caso non c'è contraddizione, perché il consumatore spende semplicemente il suo reddito nel consumo, non spende più del suo reddito, semmai meno e in questo modo attua il risparmio; nel secondo caso la contraddizione si esprime nel fatto che il consumatore, trasformato in shopper, acquista tutta la merce che vuole e che pagherà solo in seguito, ma al momento di saldare il debito nulla garantisce che il suo reddito sia in grado di garantire il pagamento. Da qui la crisi tipica del debitore insolvente.

Lo shopper, quindi non pratica solo lo shopping per lo shopping, indifferente al valore d'uso della merce, tutto preso dallo "stile di vita" che si illude di aver acquisito, ma pratica anche il debito per lo shopping, divenendo schiavo del denaro come mezzo di pagamento, mezzo che lo trascina nell'angoscia esistenziale del debitore, fino all'inadempienza e al tracollo economico. Ciò però non disturba il marketing; anzi: i 60 milioni di famiglie americane indebitate, citate da Rifkin, contano molto di più di qualche centinaia di migliaia di ricchi. E poco importa per il marketing che ogni anno circa 1 milione di queste famiglie dichiari bancarotta: gli interessi usurai pagati dagli altri 59 milioni di famiglie ripagano ampiamente questa modesta perdita.

Nel "comunismo dello shopping", le famiglie non devono più pensare al futuro, ma solo al presente; non devono più risparmiare come le accorte formiche della favola che si raccontava ai bambini nell'era del "consumismo pagante". Ma oggi, dopo tanto sperpero nello shopping, piangono le cicale dell'Occidente, mentre dall'Oriente le accorte formiche cinesi ci fanno sapere che stanno cominciando a sorridere.
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