mercoledì 19 ottobre 2011

Lezione 6° Il pensiero debole di Morin. La filosofia dell'incertezza

Uno dei sociologi contemporanei, che ha notevolmente contribuito all'attuale stato confusionale della teoria della conoscenza, è Edgar Morin, teorico dell'incertezza del pensiero complesso. Vale la pena di prendere in considerazione le sue principali tesi perché ci permettono di mostrare a quali conseguenze nefaste possa giungere un pensiero che rifiuta la soluzione statistica del rapporto caso-necessità.

Morin ("Introduzione al pensiero complesso", 1993) parte dalla denuncia della cecità dell'incontrollato progresso della conoscenza che egli attribuisce al principio di disgiunzione, reo di aver separato tra loro i principali rami della scienza: la fisica, la biologia e la scienza dell'uomo. Il suo "pensiero complesso" ha quindi il compito di ricongiungere le scienze che il "pensiero semplice" ha separato. Ma, dopo essersi privato della semplicità, il pensiero di Morin entra subito in difficoltà, proprio in riferimento al rapporto caso-necessità.

Così deve ammettere che il pensiero complesso si presenta "con i lineamenti inquietanti dell'accozzaglia, dell'inestricabile, del disordine, dell'ambiguità, dell'incertezza". Ma questa accozzaglia, questo disordine, per Morin, non può risolversi in pura e semplice casualità, sebbene "abbia sempre a che fare con il caso": non può farlo perché il caso sarebbe "l'incertezza all'interno di un sistema altamente organizzato". La soluzione teorica che, infine, egli propone è la seguente: "la complessità è dunque legata a una certa commistione di ordine e disordine".

Ben modesta conclusione questa, se si considera che la commistione di caso e necessità è ciò che appare a prima vista quando si osservano i fenomeni e i processi della natura. Si tratta di ciò che Engels ha indicato come "groviglio della natura". Ma un pensiero che si limiti a registrare il "groviglio della natura", senza essere capace di districarlo, rappresenta un regresso rispetto al pensiero scientifico che cerca di individuare l'ordine e la necessità separandoli dal disordine e dalla casualità. Il pensiero complesso di Morin non può quindi rappresentare una soluzione epistemologica: esso è soltanto un esempio di capitolazione del pensiero alla più difficile delle questioni della teoria della conoscenza, quella del rapporto caso-necessità.

Occorre a questo punto sottolineare che la soluzione "accozzaglia" proposta da Morin deriva dalla negazione della soluzione statistica del rapporto caso-necessità. Per lui, infatti, la commistione di caso e necessità è una commistione interna, "a differenza dell'ordine/disordine statistico, in cui l'ordine (povero e statico) segue al livello delle grandi popolazioni e il disordine (povero, in quanto pura indeterminatezza) segue a livello delle unità elementari". Separando la casualità (disordine), relativa alle singole unità elementari, dalla necessità (ordine), relativa ai complessi di queste unità, Morin vede metafisicamente due campi distinti e diametralmente opposti. Quindi, non riesce a vedere la dialettica probabilità-statistica in connessione alla dialettica caso-necessità, perché metafisicamente crede che l'ordine statistico e il disordine probabilistico rappresentino una opposizione diametrale.

Cerchiamo di approfondire: Morin parte dalla considerazione che il pensiero ha cercato di "mettere ordine e chiarezza nel reale", di "rivelare le leggi che lo governano". Perciò, la conoscenza scientifica ha avuto per lungo tempo il compito di "dissipare l'apparente complessità dei fenomeni al fine di rivelare l'ordine semplice al quale obbediscono". Però la semplificazione mutila la realtà e produce più cecità che delucidazioni: "allora sorge il problema: come considerare la complessità in modo non semplificante?"

Morin vorrebbe sbarazzarsi del pensiero semplificante, ma, come si vede, sorge subito un paradosso: se si elimina il pensiero semplice, non si è più in grado di definire il pensiero complesso. Perciò, egli dice, si può parlare di complessità, ma non si può definirla, altrimenti significherebbe semplificarla. Siamo nella fitta nebbia dei sofismi filosofici: "La complessità è una parola problema e non una parola soluzione".

Alla fine Morin si decide a "definire" il pensiero complesso come opposto al pensiero semplice. L'opposizione è però metafisica, non dialettica: così, per lui, mentre il pensiero "semplificante" isola e separa, "il pensiero complesso aspira alla conoscenza multidimensionale"; ma, precisa, esso "è consapevole in partenza dell'impossibilità della conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l'impossibilità anche teorica dell'onniscienza". Dunque il pensiero complesso sarebbe onnicomprensivo ma non onnisciente.

Che cosa intenda negare con l'assioma della non onniscienza, quando nessuno, neppure il più fanatico determinista, l'ha mai affermata, non si comprende, a meno che egli non abbia in mente l'onniscienza divina. Una cosa è certa, la negazione dell'onniscienza serve a Morin per porre in relazione la onnicomprensività del pensiero complesso con l'incertezza: ciò che chiama "principio di incompletezza e di incertezza"

Ma, anche riguardo alla definizione di incertezza, egli si trova in imbarazzo, perché, nella sua concezione, definire significa semplificare. Perciò decide, anche in questo caso, di contrapporre l'incertezza alla certezza. E, in definitiva, l'unico significato di incertezza che interessa Morin è che essa nega assolutamente ogni certezza scientifica. Può sembrare paradossale, ma questa incertezza che nega ogni certezza scientifica è a sua volta assoluta certezza. 

Non è un gioco di parole, è una legge dialettica: gli opposti di una opposizione dialettica, se esasperati, si rovesciano l'uno nell'altro. Un modo di esasaperare i poli di una opposizione è quello di separarli e di sbarazzarsi dell'uno o dell'altro. Così un pensiero che si fondi sull'incertezza, in quanto sopprime ogni certezza, si rovescia nel suo opposto, affermandosi come pensiero a sua volta certo.

Del resto, se così non fosse, se l'incertezza fosse incerta anche sulla possibilità di una conoscenza certa, sarebbe un vano modo di dire, non potendo negare la conoscenza certa. E' questa la nota dolente del pensiero anarchico, incerto e probabilistico. Per essere coerente con se stesso dovrebbe affermare soltanto d'essere una delle tante possibili concezioni, mentre, invece, il più delle volte si manifesta come pensiero dogmatico. E così l'unico ruolo che il concetto di incertezza svolge nella concezione di Morin è quello di negare con assoluta certezza qualsiasi certezza della conoscenza scientifica. In conclusione, il pensiero complesso onnicomprensivo e incerto, di fatto, nega la conoscenza scientifica.

Naturalmente, Morin e tutti coloro che apprezzano la novità del pensiero complesso rifiuterebbero un'affermazione così certa. Il pensiero complesso, secondo loro, nega soltanto che possa esistere una teoria che possa prevalere sulle altre dimostrando la propria superiorità. Ogni teoria è, per loro, incerta. E anche questa affermazione è espressa come dogma assoluto.

Riassumendo: la filosofia dell'incertezza nega (con assoluta certezza) la certezza scientifica; di conseguenza nega (sempre con assoluta certezza) che possa esistere una teoria certa. Tutte le teorie (e sono infinite, a partire da quelle più ingenue, a quelle assurde senza alcun fondamento, a quelle più coerenti che hanno in sé possibilità di sviluppo e di perfezionamento) sono ugualmente incerte. Questa povertà di pensiero, che con un solo aggettivo qualifica i prodotti più disparati del pensiero umano, non riuscendo più a distinguerli fra loro, si è autodefinito pensiero complesso. E questo pensiero complesso, indefinibile se non in opposizione al pensiero semplice, si rovescia nel suo opposto, apparendo veramente di una semplicità futile e disarmante.

Ogni pensiero, compreso quello di Morin, per potersi esprimere ha bisogno di concetti, nozioni: in una parola, di teoria. Ma il pensiero complesso di fronte a sé che cosa trova? Per sua stessa ammissione, soltanto teorie incerte. Poiché l'incertezza le accomuna tutte e non permette di distinguerle l'una dall'altra, che cosa potrà mai fare questo pensiero complesso, se non assumerle tutte quante al proprio servizio, così da potersi definire pensiero onnicomprensivo? In questo modo è anche spiegata la reale caratteristica del pensiero complesso, che Morin ha chiamato molto giustamente accozzaglia.

In pratica, come può il pensiero complesso gestire ogni diversa teoria, nonostante che, per ogni ramo della scienza, le teorie siano sorte per lo più in opposizione diametrale, ossia come opposti in lotta fra loro? Deve semplicemente immaginare che esse siano false opposizioni, e che possano rappacificarsi sulla base della reciproca collaborazione, resa possibile da un semplice concetto: la complementarità.

Se in fisica il concetto di complementarità di Bohr aveva "rappacificato" le due opposte teorie corpuscolare e ondulatoria, perché non dovrebbe essere in grado di "rappacificare" ogni teoria di ogni branca della conoscenza? Il pensiero complesso si rovescia così nel suo opposto, manifestandosi come pensiero tanto semplice da semplificare ogni contraddizione della teoria della conoscenza, riducendole tutte a incertezze complementari.

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo  Teoria della Conoscenza" (1993-2002) Inedito

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