giovedì 29 luglio 2010

La separazione delle "Leggi intelligenti" dal "Caso"! Uno dei tanti compromessi di Darwin

Ad un anno circa dalla pubblicazione del mio opuscolo, "Chi ha frainteso Darwin?", citiamo un paragrafo della seconda parte (Darwin e darwinisti: equivoci e spropositi), dove si mostra che anche l'autore de "L'origine delle specie" ebbe molto a soffrire per l'incompreso rapporto tra il caso e la necessità da parte del determinismo ottocentesco.

"Le riflessioni sulla teoria di Darwin della evoluzione per selezione naturale potrebbero non avere mai fine, perché, se pressoché infinite sono le inferenze empiriche, le interpretazioni oscillano inevitabilmente tra il caso e la necessità, senza soluzione. I numerosi compromessi che egli ha dovuto fare sia nei confronti del determinismo riduzionistico dell'Ottocento sia nei confronti del determinismo teologico, ereditato dal Settecento, dipendono dalla metafisica contrapposizione tra l'osservazione delle "variazioni casuali" e l'insolubile determinazione della necessità della evoluzione delle specie. Per ogni aspetto indagato, ogni volta si è presentata questa insolubile contrapposizione. Come vedremo, la storia del pensiero biologico aveva sistemato le cose in modo tale da rendere allora impossibile la soluzione".

In "LA MORTE DI ADAMO. L'evoluzione e la sua influenza sul pensiero occidentale” (1959), Greene, ricorda che, nel saggio scritto nel 1844, Darwin personificò il potere selettivo della natura, immaginando un allevatore infinitamente saggio e paziente che, con un tempo infinito a disposizione, seleziona con cura le variazioni che emergono spontaneamente (cioè casualmente), orientando la natura vivente ai suoi fini. Quindi osserva: "Un tale essere poteva essere poco meno che DIO stesso. Ma sembrava, Darwin osservò, che il creatore preferisse governare indirettamente. La selezione di adattamento se effettivamente agiva in natura, doveva essere opera di un sistema della natura stessa, doveva essere una selezione naturale”. In questo modo, Darwin non si liberò dell' "ipotesi divina" come fece Laplace con Napoleone, scelse invece di contrapporsi all'idea dell’intervento diretto del Creatore - come pensavano i naturalisti del Settecento e della prima metà dell'Ottocento - sostituendola con l'idea di un governo indiretto. Che cosa cambiava questa soluzione di compromesso?

Nella precedente concezione Dio provvedeva direttamente e secondo un fine voluto, predeterminato sia alla immutabilità delle specie viventi sia alle poche variazioni. Da ciò l'idea prevalente di una assoluta economia della natura vivente, che escludeva qualsiasi forma di dispendio. Nella soluzione di compromesso, Dio "preferisce” ottenere indirettamente l'orientamento della natura vivente verso i suoi fini predeterminati, mentre l'allevatore indirizza direttamente la selezione per i suoi scopi predeterminati. In entrambi i casi, comunque, l'intervento, diretto o indiretto che sia, deve utilizzare le variazioni casuali. Quindi, l'assoluta economia della natura vivente viene sostituita da un'economia relativa, che non esclude limitate forme di dispendio, quali ad esempio la mortalità dei singoli organismi e anche di singole specie.

Volendo generalizzare, potremmo enucleare quattro forme di interpretazioni della natura vivente dal pensiero dei naturalisti. La prima, la più antica e radicata nel pensiero umano fino a Darwin è il determinismo assoluto, contrassegnato da un'assoluta economia della natura vivente e non vivente: ciò che si realizza è l'effetto necessario predeterminato da una causa, sia naturale che divina. La seconda, al contrario, è l'indeterminismo assoluto, contrassegnato dall'assoluto dispendio: tutto è instabile e casualmente corruttibile; nulla si realizza per necessità (Epicuro). La terza, come nell'esempio dell'allevatore, è il determinismo relativo, contrassegnato da una relativa economia e da un limitato dispendio derivato dalle "variazioni casuali". L'effetto necessario, secondo uno scopo voluto, si realizza partendo da una base casuale (Darwin). Infine, la quarta, è la soluzione dialettica: la cieca necessità realizza l'eccezione statistica sulla base di un grande dispendio naturale prodotto dal caso.

Potremmo anche dire che tutte queste interpretazioni si giocano la loro reputazione sulla questione del dispendio. La sua rilevanza è decisiva per la scelta della concezione più valida dell'evoluzione. A questo proposito, si può osservare che Darwin accettava lo "spreco incalcolabile di pollini, uova ed esseri immaturi" arrivando a sostenere : "Noi vediamo che il fine più alto che siamo capaci di concepire, ossia la creazione degli animali superiori, è derivato direttamente dalla morte, dalla penuria del cibo e dalla lotta per l'esistenza ...” Nonostante egli si ponesse dal punto di vista dei finalisti e utilizzasse la metafora di Malthus, il riconoscimento del dispendio era preciso: insomma, il risultato più elevato della natura è il prodotto di un grande dispendio. E la principale manifestazione del dispendio è sempre apparsa, anche ai più ottusi finalisti, l'estinzione delle specie.

Darwin ammise l'estinzione come fenomeno che accompagna il sorgere di nuove specie, e la sua conclusione fu, come scrisse ad Asa Gray nel 1856, "che non esistono specie create indipendentemente l'una dall'altra, che le specie sono solo varietà fortemente definite". Avrebbe, però, dovuto aggiungere che, dato il grande dispendio, queste varietà costituivano eccezioni statistiche. Ma Darwin credeva troppo all'idea del "progresso" per poter sottolineare il dispendioso fenomeno dell'estinzione; preferì, invece, sottolineare che la selezione delle variazioni casuali rappresenta un miglioramento, un perfezionamento.

Greene mette in risalto questo aspetto: "Lyell aveva osservato la marcata tendenza di Darwin a identificare, nell'Origine delle specie, il mutamento per selezione naturale col "perfezionamento". "Si può dire metaforicamente”, aveva scritto Darwin, “che la selezione naturale è sempre all'opera, giorno per giorno, ora per ora, per esaminare minuziosamente, in tutto il mondo, ogni variazione, anche la più insignificante, rifiutando ciò che è cattivo, conservando e potenziando tutto ciò che è buono, lavorando silenziosamente e insensibilmente dovunque e comunque se ne presenti l'opportunità, al perfezionamento di ogni (!) essere organico in relazione alle sue condizioni di vita organiche e inorganiche"." Come si vede, qui  Darwin, sebbene solo in forma metaforica, è completamente dominato dal determinismo riduzionistico, pretendendo che la selezione operi minuziosamente sui singoli organismi.

"Lyell - dice Greene - si oppose strenuamente a questa formulazione. Poteva la semplice variazione casuale, accompagnata dall'estinzione di quegli organismi che si erano trovati a variare in una direzione sfavorevole, produrre una tendenza al "perfezionamento" in natura?" Lyell aveva completamente ragione; anzi la sua osservazione è interessante anche per un altro motivo: in genere tutti sottolineano del concetto di selezione il risultato positivo, benefico, prendendo in considerazione i singoli organismi selezionati come sopravvissuti o adattati. Egli, invece, vedeva l'aspetto negativo della selezione: l’estinzione degli organismi non beneficiati, non adattati; che poi risultano molto più numerosi di quelli sopravvissuti. E aveva ragione, perché la casualità non può produrre un necessario perfezionamento; tanto meno può farlo sul singolo organismo, completamente soggetto al caso. Però aveva torto a pretendere l'esistenza di un qualche "principio di perfezione" che fosse superiore alla selezione naturale. Ma Greene non vede il vero problema, limitandosi a osservare ciò che Engels aveva già chiarito, e cioè che la sopravvivenza per selezione naturale poteva anche costituire un "regresso".

Ora, quando Darwin risponde alle critiche di Lyell, cambia il soggetto della selezione: non parla più di singoli organismi ma di specie: "Quando lei si oppone alla selezione naturale e al "perfezionamento" mi pare che trascuri sempre (non vedo infatti come possa negarlo) che ogni passo nella selezione naturale di ogni specie implichi un perfezionamento in quella specie in relazione alle sue condizioni di vita. Nessuna modificazione può essere selezionata se non comporta un perfezionamento, un vantaggio".

Il ragionamento di Darwin, anche se applicato più correttamente alle specie, pecca per un vizio di fondo: "perfezionamento" e "vantaggio" sono due cose distinte; ci può essere l'uno senza l'altro; un vantaggio non è sempre un perfezionamento, né tanto meno un progresso. Ciò che si può dire è che, per cambiamenti (casuali) dell'ambiente, possono mutare dei caratteri (sempre casualmente) senza necessario perfezionamento e talvolta con peggioramento. Nella sua risposta, Darwin concludeva: "Se ci sarà una seconda edizione, ripeterò "selezione naturale" e, come conseguenza generale, perfezionamento naturale"; confermando l'equivoco che il risultato dell'adattamento come sopravvivenza coincida con il perfezionamento.

Dal punto di vista storico è paradossale che la locuzione "selezione naturale" - che ha avuto tanta fortuna, e ancora oggi viene concepita come fosse un fatto incontrovertibile - non piacesse a studiosi evoluzionisti, anche amici di Darwin come Asa Gray e Alfred Russell Wallace. Greene ci ricorda che essi "si opposero all'uso di tale espressione perché sembrava implicare un agente intelligente che compisse una selezione in base a norme prestabilite". Wallace scrisse a Darwin che molte persone intelligenti trovavano difficoltà a capire "gli effetti automatici e necessari della selezione naturale", e suggerì di sostituire quella locuzione "se non è troppo tardi" con il termine coniato da Spencer, la "sopravvivenza del più adatto". Greene dice che Darwin introdusse l'espressione di Spencer assieme alla sua, per pura cortesia. Ma questa aggiunta non risolse nulla, anzi complicò la questione. Per Huxley, ad esempio, l'espressione "sopravvivenza del più adatto" sembrava implicare un qualche genere di "eccellenza morale". E questa implicazione si fece in seguito strada all'interno di particolari ideologie sociologiche reazionarie.

Secondo Greene, Darwin e Spencer "nel loro intimo credevano che i processi, benché in modo lento e non sistematico, agissero per produrre forme di esistenza sempre più elevate". Ora, termini come “perfezionamento", "sopravvivenza del più adatto", anche se erano concepiti con un valore soltanto biologico, riflettevano la realtà sociale dell'Ottocento, il suo ottimismo progressista e i valori ideologici di una borghesia sicura di sé e del suo successo economico. Perciò non faticarono molto a entrare nel lessico comune della società borghese colta, meno condizionata dalla morale teologica.

Greene sostiene che "Darwin non fu impressionato da queste critiche né dagli argomenti prodotti da Gray e da Lyell". Ma non è così. Darwin era consapevole del “terribile pasticcio” costituito dal “caso” (che Greene dimentica di citare). Il suo timore era duplice: egli temeva sia il determinismo della scienza sia il rimprovero della teologia. Riguardo al primo, la sua preoccupazione era come conciliare le variazioni casuali con il principio di causalità; riguardo al secondo il suo era un vero e proprio imbarazzo, le cui ragioni sono spiegate in una lettera ad Asa Gray: "Quanto all'aspetto teologico della questione, mi riesce sempre sgradevole. Sono molto perplesso. Non ho intenzione di scrivere in senso ateistico (!), ma riconosco che non posso vedere, così come altri le vedono e come anch'io desidererei vederle (!), le prove di un disegno e una benevolenza divina verso di noi. Ma pare che nel mondo ci sia troppa sofferenza. Non posso persuadermi che un Dio benigno e onnipotente avrebbe creato intenzionalmente gli icneumonidi con la precisa intenzione che si nutrissero del corpo vivente dei bruchi, o che avrebbe deciso che il gatto dovesse giocare col topo. Non credendo ciò, non vedo la necessità di credere che l'occhio sia stato progettato espressamente. D'altra parte, considerando questo meraviglioso universo, e specialmente la natura dell'uomo, non mi soddisfa la conclusione che tutto è il risultato della forza bruta. Inclino a considerare ogni cosa come il risultato di leggi intelligenti (sic!) e a lasciare i particolari, buoni o cattivi, all'azione di ciò che possiamo chiamare caso".

Come si vede, di fronte all'esigenza di non scrivere in senso ateistico, Darwin si sentì in obbligo di proporre una soluzione di compromesso: attribuire il risultato di ogni cosa (complessiva) a “leggi intelligenti”, lasciando i particolari al “cosiddetto” caso. E' questo uno dei diversi compromessi che hanno dato la stura a un’infinità di versioni della sua teoria. Greene dice che Darwin non poteva accettare l'idea di un legislatore, di un  Dio che facesse proliferare milioni di variazioni casuali affidando all'ambiente l'eliminazione di quelle risultate non adatte. Affermare questo avrebbe significato sottolineare l'aspetto dispendioso della selezione, ovvero Il suo lato negativo: l'estinzione, l'eliminazione. Ma, come vedremo, le considerazioni di questo storico da qualche parte dovevano sfociare: si tratta di uno dei numerosi fraintendimenti della selezione naturale. Il terreno è preparato dalle seguenti considerazioni:

"La legge governava le operazioni della macchina del mondo ma i particolari,"buoni o cattivi", sembravano legati al caso. Legge e caso, caso e legge si configurano così come i concetti centrali nella mente di Darwin. Nella concezione statica della natura il caso e il mutamento erano stati l'opposto del disegno intelligente e della fissità". Nella concezione statica le forme fisse erano il prodotto di un disegno intelligente, e le varietà erano prodotte dal caso, nel senso che non rientravano nel piano originario.

"Ma ora, nella concezione evoluzionistica, il mutamento era ovunque, e tutto era legge o caso a seconda del modo in cui lo si considerava. L'adattamento della struttura alla funzione era prodotto dal caso, nel senso che non era previsto in un piano preconcepito dall’economia della natura, ma non era sicuramente casuale se con questo termine si intendeva un fenomeno privo di causa e spontaneo (!?). Dalla concezione darwiniana della natura non c'era spazio per il caso inteso in senso genuino (sic!), radicale. Ogni cosa, affermò Darwin ripetutamente, era il risultato di leggi stabilite". Ecco come si rivela il determinismo di Greene, negando che Darwin avesse concepito il caso "in senso genuino", e accogliendo favorevolmente il suo compromesso riguardo alle "leggi intelligenti".

Occorre, perciò, chiarire: riguardo al rapporto caso-necessità, il primo termine era stato posto giustamente nella forma delle oggettive "variazioni casuali"; rimaneva da collocare la necessità; ma, non avendo mai considerato la polarità singolo-complesso, Darwin non poté collocare la necessità nella sfera dei complessi. Del resto, che cosa poteva fare l'autore dell'Origine delle specie, in un'epoca dominata dal determinismo riduzionistico a tal punto che, di fronte all’accusa di sostituire la "causa" con il "caso", Huxley dovette precipitarsi a sostenere che le "variazioni casuali" erano il risultato di leggi sconosciute?

Per concludere: tutte le successive diatribe tra le opposte scuole darwiniane e tra queste e l'attuale versione del "disegno intelligente,” erano implicitamente presenti (e foriere di sviluppi peggiorativi), fin dall’inizio nel contrastato rapporto tra l’ammissione delle “variazioni casuali” e la determinazione delle leggi di necessità (che il determinismo riduzionistico voleva soggetta al principio di causa ed effetto). Perciò, ancora una volta, va ribadito che solo grazie alla dialettica caso-necessità la questione della evoluzione può essere definitivamente risolta, eliminando ogni metafisica contrapposizione.

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