venerdì 24 novembre 2017

La soluzione del rebus del lavoro produttivo nella globalizzazione

Occorre trovare il bandolo della matassa, e possiamo farlo nel solo modo che abbiamo in conformità con la dialettica caso (singolo) - necessità (complesso). Nelle tesi riassuntive sul lavoro produttivo e sul lavoro improduttivo che troviamo nell'ultimo paragrafo dell'appendice di "TEORIE SUL PLUSVALORE", Marx ci fornisce argomentazioni fondamentali. Innanzi tutto questa: "Il capitalista stesso è rivestito di autorità solo in quanto è la personificazione del capitale". Dunque, fondamentale è il capitale, inteso come il complesso della produzione capitalistica.

Per chiarire definitivamente la questione del lavoro produttivo e improduttivo bisogna partire dal capitale complessivo, per il quale la produzione del plusvalore rappresenta la sua stessa esistenza. Scrive Marx: "Dunque il capitale è produttivo: 1. in quanto costringe a fornire plusvalore; 2. in quanto assorbe in sé, se ne appropria (ne è la personificazione), le forze produttive del lavoro sociale e le forze produttive generalmente sociali come la scienza".

Poiché il capitale è produttivo se costringe a fornire plusvalore e se assorbe le forze produttive del lavoro sociale, a sua volta il lavoro sociale sarà produttivo se crea plusvalore. Dunque, Marx può scrivere: "Solo il lavoro che si trasforma direttamente in capitale è produttivo": "lavoro che crea plusvalore, ossia che serve al capitale come forza (agency) per produrre plusvalore, e perciò a porsi come capitale, come valore che si valorizza". Perciò, alla domanda: che cosa è il lavoro produttivo, Marx risponde: "lavoro produttivo -nel sistema di produzione capitalistico- è dunque il lavoro che produce plusvalore per chi lo impiega..., ossia quello che trasforma le condizioni oggettive di lavoro in capitale e il proprietario di esse in capitalista, quindi che produce il suo proprio prodotto come capitale".

Questa definizione non va letta, però, nel senso particolare che il lavoro produttivo del singolo operaio trasformi il singolo proprietario delle condizioni di lavoro in capitalista, così come una molecola che costituisce un corpo non è rappresentativa del corpo stesso. Quindi, non è una definizione che può servire a stabilire la produttività del lavoro di Caio e la costituzione capitalistica di Tizio. Essa significa che il genere universale "lavoro che produce plusvalore" permette il genere universale "capitale". Poiché, inoltre, il capitalista, come classe sociale, è solo personificazione del capitale complessivo, si può anche mettere da parte il termine "capitalista", per sostituirlo semplicemente con il termine di "capitale".

Così Marx può fornire la seguente definizione: "Può essere perciò definito lavoro produttivo il lavoro che si scambia col denaro in quanto capitale, ovvero, ciò che è un'espressione abbreviata per dire la stessa cosa, il lavoro che si scambia immediatamente con capitale, cioè denaro che è capitale in sé, che è destinato a funzionare come capitale, ossia che si contrappone alla capacità lavorativa come capitale".

In questa definizione scompaiono le persone, gli individui sociali, e non a caso, perché Marx ha indagato il capitale non il capitalista; ha indagato le leggi del modo di produzione capitalistico non del modo d'esistenza del capitalista. E' solo quando si fa influenzare dal determinismo riduzionistico del suo secolo che egli prende in considerazione i singoli. Così può arrivare a dire: "Nei confronti del pubblico l'attore è un artista, ma nei confronti del suo impresario l'attore è lavoratore produttivo". Però sembra non esserne troppo convinto se conclude: "Tutte queste manifestazioni della produzione capitalistica in questo campo (della produzione immateriale) sono così insignificanti, se le paragoniamo con l'insieme della produzione, che esse possono essere completamente trascurate".

Quando Marx e anche Engels parlavano di cose che potevano essere trascurate si trattava, in genere, di casi relativi a singoli aspetti di un complesso necessario. Essi denunciavano, in questo modo ancora generico, il fatto che non si può far rientrare nella legge di necessità complessiva delle classi ciò che appartiene al regno del caso singolo, individuale. Non avevano altro modo di esprimersi, non avendo potuto risolvere la dialettica caso-necessità in connessione alla dialettica singolo-complesso.

Ora, se è vero che la questione del lavoro produttivo nella produzione immateriale della loro epoca era insignificante, ragion per cui la questione complessiva era rimasta in sospeso, mentre Marx, talvolta, scivolava su singoli esempi in senso riduzionistico, è anche vero che oggi la questione ha assunto un grande rilievo perché la cosiddetta produzione immateriale svolge due funzioni fondamentali: una generale di strumento del marketing, l'altra particolare di investimento di denaro-capitale. Oggi il capitale trasforma tutto in merce, anche la scienza, l'arte, lo svago, le favole, il virtuale. Merce, nel senso di oggettivazione in cose, individui e prestazioni che hanno un valore monetario e perciò acquistabile.

Ma il vero problema scientifico non è la classificazione dei singoli individui dal punto di vista del lavoro produttivo o improduttivo. Il reale problema -che sorge sul presupposto che il lavoro produttivo è il contrassegno del lavoro astratto, sociale, indipendente dai lavori particolari-, è stabilire, per ogni periodo storico determinato, da un lato la massa complessiva mondiale dei lavoratori produttivi, la loro collocazione geografica, le loro condizioni di vita, dall'altro la massa dei lavoratori improduttivi, ossia del parassitismo sociale.

Questo problema, oggi, può essere risolto soltanto mediante un'indagine statistica complessiva, mondiale. In attesa di questa indagine, che svolgeremo nel prossimo volume dedicato alla "Globalizzazione", possiamo anticipare che, a partire almeno dagli anni '80 del Novecento, il massimo contributo alla produzione mondiale del plusvalore è fornito dalle grandi masse proletarie dei paesi in via di sviluppo, mentre il massimo contributo al consumo improduttivo del plusvalore mondiale è fornito dalle masse più esigue dei paesi sviluppati.

In particolare, le masse relativamente più ristrette di individui che si caratterizzano socialmente come "shopper" rappresentano, per l'economia capitalistica attuale, la classe dei realizzatori del plusvalore, ossia rappresentano il parassitismo moderno, vitale per la sopravvivenza del Capitalismo senescente.


Tratto da "La dialettica caso-necessità  nella storia" Volume 4° (2003-2005)

5 commenti:

  1. Nei tuoi post vuoi mettere a fuoco due questioni: la teoria delle classi sociali e la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, allacciandoti poi alla cosiddetta “globalizzazione” per delle considerazioni.

    Sulle classi sociali mi pare che non dice assolutamente nulla di rilevo, e per quanto riguarda la distinzione tra lavoro produttivo e non produttivo nemmeno, anzi, secondo me sei per certi aspetti fuori strada. Ad ogni modo, come solito, t’interessa la faccenda del rapporto tra caso e necessità anche quando, a mio parere, c’entra poco o per nulla con l’argomento.

    A proposito delle classi sociali, scrivi: “Questo è il motivo per cui possiamo affermare che, dal punto di vista dei redditi, non si possono stabilire contrassegni necessari per l'appartenenza alle classi. Ciò non vuol dire che i capitalisti non vivano di profitto e gli operari di salario; ciò vuol dire che le fonti e le differenze di reddito sono, singolarmente prese, soggette al caso e perciò infinite. Stabiliamo, quindi, come primo punto fermo che l'interruzione del manoscritto di Marx sulle classi sociali riflette l'impossibilità di determinare i complessi sociali partendo dai loro singoli elementi o frazioni di singoli elementi sociali, soggetti al caso”.

    Stabilisce chi? Sei tu che lo stabilisci. Non sappiamo i motivi per i quali il manoscritto s’interrompe (così come in molti altri punti del terzo libro). Marx era ben conscio che non si possono “determinare i complessi sociali partendo dai loro singoli elementi o frazioni di singoli elementi sociali, soggetti al caso”, deduzione peraltro assai ovvia. Senz’altro Marx non si sarebbe mai sognato di sostenere, come fai tu, che “i contrassegni necessari di una classe hanno per fondamento soltanto il caso dei singoli elementi in essa contenuti”. Che significa? Ognuno sa che è assolutamente casuale nascere “in un lussuoso appartamento newyorchese o in un tugurio afgano”. Ma da tale ovvietà non discende alcuna determinazione circa le classi sociali.

    Marx aveva ben chiaro che le classi sociali sono delle strutture oggettivamente motivate e determinate dalla base economica e dai rapporti complessivi storico-sociali, nei quali gli individui, volenti o nolenti, si generano e ricadono. Il criterio fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione ... Eccetera.




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  2. Poi scrivi: “In questa definizione scompaiono le persone, gli individui sociali, e non a caso, perché Marx ha indagato il capitale non il capitalista; ha indagato le leggi del modo di produzione capitalistico non del modo d'esistenza del capitalista. E' solo quando si fa influenzare dal determinismo riduzionistico del suo secolo che egli prende in considerazione i singoli”.

    Che Marx abbia indagato il capitale e non i singoli capitalisti lo dice lui stesso chiaramente già nell’Introduzione a Per la Critica dell’economia politica, laddove sostiene che la potenza economica che domina tutto è il capitale. Esso deve, pertanto, costituire “il punto di partenza così come il punto d’arrivo” dell’indagine scientifica. Nei Grundrisse scrive che: “Capitale in generale” è il concetto che esprime questa tesi fondamentale. Esso racchiude in sé “tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite dove essa conduce, al di là di sé stessa”.

    Sempre nei Grundrisse: il concetto di “capitale in generale”, cogliendo l’essenza propria di ciascun capitale, e cioè l’essere plusvalore riproducentesi sulla base di una specifica e storicamente determinata relazione sociale, il lavoro salariato, non si riferisce ad “una forma particolare del capitale”, né al “singolo capitale distinto da altri capitali”, e neppure a capitali concorrenti.

    Tuttavia bisogna aver chiaro come quest’analisi del “capitale in generale” si dipana prendendo l’avvio dalla sua forma di cellula”, dalla “forma merce”, e cioè dal “rapporto più semplice, abituale, fondamentale, il rapporto più diffuso, più ricorrente, riscontrabile miliardi di volte, della società (mercantile) borghese”.

    Insomma, bastava copiare e intendere bene.

    Veniamo dunque a quando Marx si farebbe “influenzare dal determinismo riduzionistico del suo secolo prendendo in considerazione i singoli”. Scrive:

    […] il lavoro, in quanto è produttivo di valore, rimane sempre lavoro del singolo, viene però espresso in forma generale. Perciò il lavoro produttivo – in quanto lavoro che produce valore – è sempre, rispetto al capitale lavoro della singola capacità lavorativa, dell’operaio isolato, qualunque sia la combinazione sociale entro la quale questi operai sono immessi nel processo di produzione. Così, mentre il capitale rappresenta di fronte all’operaio la forza produttiva sociale del lavoro, il lavoro produttivo dell’operaio rappresenta sempre, di fronte al capitale, solo il lavoro dell’operaio isolato (Teorie sul plusvalore, I, sta in: MEOC, vol XXXIV, p. 424).

    Naturalmente Marx spiega con degli esempi il perché e anche il percome.

    Anche nel Capitolo VI inedito Marx precisa. “Il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai individuali, quali che siano le combinazioni sociali in cui essi entrano nel processo produttivo. Mentre quindi il capitale si contrappone agli operai come forza produttiva sociale del lavoro, il lavoro produttivo si contrappone sempre al capitale come lavoro di operai individuali.

    Infine, da ciò che scrivi da ultimo, dei lavoratori, per il solo fatto di non essere lavoratori produttivi, di non scambiare la loro forza-lavoro con capitale ma con reddito, non sarebbero anch’essi dei proletari, ma bensì dei “parassiti sociali”? Eppure dovrebbe essere ben chiaro, per esempio, che il lavoro produttivo è una determinazione del lavoro che in sé e per sé non ha assolutamente niente a che fare con il contenuto determinato del lavoro, con la sua particolare utilità o con il peculiare valore d’uso in cui esso si espone.

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  3. Ho dedicato il mio tempo, per decenni, alla dialettica caso-necessità e ritengo di averla verificata in ogni teoria scientifica con diversi libri -che sono costretto a pubblicare in forma di post. Chi non è d'accordo con la mia teoria ha almeno un pregio per me: è venuto a conoscenza di qualcosa che relativamente pochi conoscono.

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    1. contrariamente all'idea che potresti esserti fatto, ho molta stima dei tuoi studi e delle tue intuizioni. ciò non significa che sia d'accordo su tutto, specie quando tratti di questi argomenti (ho apprezzato molto invece i post dedicati al riduzionismo di Lenin).
      Ti ho mandato due volte la prima parte del mio commento che non vedo postata.

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  4. Sarà che sono invecchiato ma non ti seguo. Io sostengo che la necessità la si può solo vedere nei complessi (necessari). Riguardo ai singoli, invece vale, purtroppo, il caso! Il determinismo, ossia il rapporto causa-effetto, invece, ha sempre preteso determinare anche i singoli... Ora non puoi negare che anche Marx ed Engels erano deterministi. Engels lo era nell'Antidhuring, ma non lo è stato più nella Dialettica della natura, dove è arrivato vicino alla soluzione, dalla quale sono partito io. Decenni di studi su Teoria della conoscenza, fisica, biologia e storia mi hanno permesso di definire la dialettica caso-necessità... che dal 2010 sto "pubblicando" in forma di post. Non comprendo, quindi il busillis. Per chiudere: Marx non ha scritto il capitolo sulle classi sociali, a mio avviso, perché era troppo intelligente e serio per non percepire la debolezza del determinismo riduzionistico, ma la malattia e la morte prematura non gli ha permesso di rimetterlo in discussione e superarlo con la dialettica caso-necessità.

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