Ho lasciato passare un pò di tempo dal "Centenario della rivoluzione d'Ottobre", per evitare d'essere sommerso dalla "calca" delle "commemorazioni". Mi limiterò, comunque, a rispolverare, dai miei vecchi scritti, alcuni contributi personali sul pensiero di Lenin, coerentemente con l'obiettivo principale di dimostrare il fallimento del determinismo nella teoria della conoscenza e di indicare la strada maestra della dialettica caso-necessità. A questo scopo era necessario mostrare il fallimento del determinismo riduzionistico anche nella scuola marxista del Novecento, che pure ha ritenuto in buona fede di riflettere i reali processi della natura e della società.
Lenin è stato il principale rappresentante di questa scuola e ha esposto la sua concezione in "Materialismo ed empiriocriticismo" (1909), opera che ci permette di dimostrare la seguente tesi: legando la concezione del materialismo dialettico alla sorte del principio deterministico di causa-effetto, egli ha ottenuto, inconsapevolmente, il contrario di ciò che si prefiggeva: riteneva di poggiare il materialismo dialettico su solide fondamenta, così da metterlo al riparo da ogni attacco dell'idealismo e dell'agnosticismo, e, invece, lo ha coinvolto nella caduta del principio stesso di causalità.
Nell'introduzione alla sua opera, Lenin prende in considerazione il vescovo Berkeley come caposcuola delle correnti di pensiero idealistiche e agnostiche, e lo fa citando la propria definizione sulla differenza fondamentale tra il materialismo e l'idealismo: "Il materialismo è l'ammissione degli "oggetti in sé", ossia fuori dell'intelletto; le idee e le sensazioni sono copie o riflessi di questi oggetti. Secondo la dottrina opposta (l'idealismo) gli oggetti non esistono "fuori dall'intelletto", gli oggetti sono "combinazioni di sensazioni"."
In questo modo, secondo Lenin, "Berkeley non rompe con l'opinione dell'intero genere umano. Berkeley nega "soltanto" la dottrina dei filosofi, ossia la teoria della conoscenza che mette seriamente e risolutamente a base di tutti i suoi ragionamenti il riconoscimento del mondo esterno e il riflesso di questo mondo nella coscienza degli uomini. Berkeley non nega le scienze naturali che furono sempre e sono (il più delle volte inconsciamente) fondate su questa teoria, sulla teoria materialistica della conoscenza".
Berkeley si limitava ad attaccare il punto debole delle scienze naturali: il principio di causalità. Nei seguenti passi, citati da Lenin, egli scriveva: "La connessione delle idee non implica il rapporto di causa ed effetto, ma solo quello di contrassegno o segno con la cosa significata". "E' quindi evidente che quelle cose che, dal punto di vista della nozione di causa che coopera e concorre alla produzione degli effetti, sono del tutto inspiegabili e ci conducono a grandi assurdità, possono essere spiegate soltanto come contrassegni o segni della nostra informazione".
Come si vede, il vescovo Berkeley approfittò dell'identificazione del materialimo con il determinismo per negare il primo appellandosi alle "grandi assurdità" del secondo. Lenin non si era reso conto che la dialettica materialistica non aveva nulla da guadagnare a insistere sul principio di causalità, come fino ad allora aveva fatto il materialismo metafisico. Al contrario, egli ha considerato il principio deterministico di causa-effetto come principale fondamento del materialismo dialettico. Ed è con ironia che scrive: "Eccoci di fronte a due tendenze filosofiche sulla questione della causalità. L'una "pretende di spiegare le cose per mezzo di cause corporee" ed è manifestamente legata all'"assurda" "dottrina della materia" confutata dal vescovo Berkeley. L'altra riduce "la nozione di causalità" alla nozione di "contrassegni o segno" da servire alla "nostra informazione" (per tramite di Dio)".
Come si vede, il vescovo Berkeley approfittò dell'identificazione del materialimo con il determinismo per negare il primo appellandosi alle "grandi assurdità" del secondo. Lenin non si era reso conto che la dialettica materialistica non aveva nulla da guadagnare a insistere sul principio di causalità, come fino ad allora aveva fatto il materialismo metafisico. Al contrario, egli ha considerato il principio deterministico di causa-effetto come principale fondamento del materialismo dialettico. Ed è con ironia che scrive: "Eccoci di fronte a due tendenze filosofiche sulla questione della causalità. L'una "pretende di spiegare le cose per mezzo di cause corporee" ed è manifestamente legata all'"assurda" "dottrina della materia" confutata dal vescovo Berkeley. L'altra riduce "la nozione di causalità" alla nozione di "contrassegni o segno" da servire alla "nostra informazione" (per tramite di Dio)".
In questo modo, però, Lenin non si rese conto di favorire l'idealismo che, con Berkeley, aveva approfittato della debolezza della determinazione causale, per sostituirla con la conoscenza convenzionale, negando sia "il riconoscimento del mondo esterno", sia "il riflesso di questo mondo nella coscienza degli uomini", ossia negando sia il materialismo che la reale conoscenza.
Per comprendere l'errore teorico nel quale è incorso Lenin, bisogna considerare alcune circostanze attenuanti: la prima, che egli fondava la sua certezza sull'"AntiDuhring" di Engels, opera scritta quando ancora il suo autore non aveva approfondito lo studio delle scienze naturali e, quindi, non aveva ancora compreso i limiti del determinismo e l'importanza del rapporto caso-necessità, preso in considerazione nella "Dialettica della natura"; la seconda, che Lenin non poté dedicare allo studio delle difficili questioni di teoria della conoscenza più di un paio di anni, non potendo impegnare più a lungo il suo tempo, per così dire, sequestrato dalla pressante esigenza della lotta politica.
Questo è uno dei limiti della conoscenza umana: che, se un gran numero di menti limitate trovano facilmente il tempo di scrivere un gran numero di volumi di scarso rilievo, superflui, quei pochi ingegni che potrebbero fornire una conoscenza reale e fondamentale, spesso hanno a disposizione un tempo limitato e insufficiente. Così Lenin ebbe appena il tempo di isolare un gruppo di filosofi e scienziati del suo tempo: studiando le loro pubblicazioni si rese conto che le loro idee erano già presenti nella concezione del vescovo Berkeley. Ma questi era, a sua volta, il risultato della precedente storia del pensiero teologico e scientifico. Per comprendere non solo Mach e Avenarius, ma anche Berkeley, Lenin avrebbe dovuto conoscere il dibattito teorico precedente, a partire da Aristotele e a seguire con molti altri, compresi Osiander e Bellarmino. Due anni non potevano bastare.
Chi conosce la storia della lotta teorica nel periodo in cui uscì "Materialismo ed empiriocriticismo", dovrebbe sapere che Lenin si trovò in una situazione analoga a quella di Engels, quando intervenne contro Duhring. Come Engels, Lenin non poté sottrarsi dall'intervenire in prima persona, ma, diversamente da Engels, conosceva poco di filosofia e niente di scienze della natura; e, mentre su quella fece una full immersion ("Quaderni filosofici"), sui risultati di queste dovette fidarsi soltanto della parola degli scienziati. Così si limitò a riprendere le affermazioni, ad esempio, dei fisici, respingendo ogni interpretazione idealistica o agnostica o positivistica, e interpretandole, a sua volta, come riflessi del mondo esterno nella coscienza umana, sempre confidando, soltanto, sul principio deterministico di causa-effetto.
Così, qualunque idiozia i fisici affermassero, Lenin dichiarava per principio: "La teoria dei fisici risulta come un riflesso dei corpi, dei liquidi e dei gas esistenti al di fuori di noi e indipendentemente dal nostro corpo, e questo riflesso ha, naturalmente un valore approssimativo, senza che si possa tuttavia qualificare come "arbitraria" questa approssimazione o semplificazione". Il fatto è che di "approssimazioni arbitrarie" la fisica ha riempito volumi, in buona o cattiva fede! Lenin ha, comunque, cercato di sopperire alla propria ignoranza delle scienze naturali appellandosi all'autorità dei maestri della dialettica materialistica, Marx ed Engels, in modo da stabilire almeno due punti fermi del materialismo dialettico.
Il primo riguarda il principio della pratica come conferma della teoria. A questo proposito, cita Engels, il quale contro l'agnosticismo affermò: "La confutazione più decisiva di questa ubbìa filosofica (o invenzione), come del resto tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall'esperimento e dall'industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato processo naturale è giusta, creando noi stessi, producendo dalle sue condizioni e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri fini, l'inafferrabile (...) "cosa in sé" di Kant è finita. Le sostanze chimiche che si formano negli organismi animali e vegetali restano "cose in sé" fino a quando la chimica organica non si mise a prepararle l'una dopo l'altra; quando ciò avvenne, la "cosa in sé" si trasformò in cosa per noi, ..."
Questa argomentazione di Engels sulla trasformazione della "cosa in sé" in "cosa per noi", se è sufficiente contro le pretese dell'idealismo, non è, però, sufficiente a sconfiggere l'agnosticimo kantiano. Infatti, se ci limitiamo a considerare cosa per noi il semplice utilizzo pratico della "cosa in sé", allora ciò dovrebbe accadere anche quando la conosciamo poco o nulla. Così per il fuoco, che è stato utilizzato per centiniaia di migliaia di anni senza neppure sapere di che cosa si trattasse. Del resto, è stato proprio Engels a sostenere che tutto il progresso della scienza umana andava dalla scoperta pratica del fuoco alla scoperta teorica, non ancora definitiva, della trasformazione dell'energia. Insomma, quando si tratta di fenomeni semplici nei loro effetti, la "cosa in sé" diviene almeno parzialmente cosa per noi. Però, poi, ci rendiamo conto che i fenomeni naturali sono molto più complessi e ci restano per lungo tempo sconosciuti e, perciò, incomprensibili.
Se poi consideriamo la principale argomentazione di Engels, relativa alla prova pratica mediante l'esperimento e l'industria, e cioè che la riproduzione di un processo naturale può essere portata come prova del fatto che noi in tal modo lo conosciamo, dobbiamo dire che esistono due limitazioni a questo assunto: la prima riguarda le scienze come la cosmologia, dove l'oggetto d'indagine è una "cosa in sé" talmente indipendente dalla nostra pratica sperimentale e industriale da non poter divenire, in tal senso, cosa per noi. Il Cosmo va per la sua strada, strada che noi possiamo percorrere quasi unicamente con l'osservazione e la riflessione.
La seconda limitazione riguarda il fatto incontrovertibile che il modo di produzione della natura differisce totalmente dal modo di produzione dell'uomo: si potrebbe paradossalmente affermare che la natura ci fornisce un'infinità di "prove pratiche" che l'uomo non può riprodurre negli stessi termini naturali con la propria pratica sperimentale e industriale. L'esperimento è il solo modo che abbiamo di indagare i processi naturali, ma in questo modo, inevitabilmente, noi eliminiamo i numerosi accidenti, e il risultato artificiale che otteniamo è l'equivalente di un processo che in natura si realizza, invece, proprio grazie a quei numerosi accidenti, ed è, perciò, molto dispendioso.
In conclusione, nella pratica sperimentale e industriale, noi economizziamo ciò che in natura può, e soprattutto deve, essere sprecato per ottenere il risultato. Perciò, se ci illudiamo di poter riprodurre qualsiasi processo naturale in termini di meccanismi economici, diretti e guidati dai nostri scopi, andiamo incontro a cocenti delusioni. (Continua)
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