(Continuazione) La confusione e gli equivoci sulla trasformazione della "cosa in sé" in "cosa per noi" dipendono in parte dalla eccessiva semplificazione. Queste due questioni sono invece molto complesse, perciò occorre approfondire.
1) Sulla trasformazione della "cosa in sé" in "cosa per noi" occorre considerare, in primo luogo, la scoperta della "cosa in sé", indipendentemente dal suo, più o meno immediato, utilizzo che può verificarsi anche con scarsa o nessuna conoscenza teorica di essa. Occorre anche tener presente che, se per l'agnosticismo la "cosa in sé" esiste ma non è conoscibile, per il dialettico Engels la "cosa in sé" esiste anche quando ne ignoriamo l'esistenza (com'è avvenuto per l'ossigeno). Quindi, il primo passo della scienza è la scoperta di una determinata "cosa in sé". Stabilita la sua esistenza, dalla quale deriva anche un parziale utilizzo come "cosa per noi", inizia il momento della sua reale conoscenza o riflesso nella coscienza. Superato questo passaggio, la "cosa in sé" può diventare "cosa per noi"; ma perché ciò accada occorrono favorevoli condizioni tecnologiche, ecomiche, sociali e politiche: sono queste a garantire che la "cosa in sé" conosciuta agisca secondo un piano e per fini voluti, trasformandosi, a tutti gli effetti, in "cosa per noi".
2) Riguardo alla "prova pratica", riprendiamo la "seconda tesi" di Marx, citata* da Lenin: "La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica, E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica". Lenin cita anche il professore A. Levy che, intepretando Marx, scrive: "Che cosa dunque vi garantisce la fedeltà della traduzione? Che cosa prova che il pensiero vi dia la verità obiettiva? A questa obiezione Marx risponde con la seconda tesi".
La "seconda tesi" rispondeva alla domanda principale della teoria della conoscenza: che cosa garantisce che una teoria rifletta fedelmente il fenomeno indagato? Ciò che va sottolineato della risposta di Marx è la considerazione sulla realtà di un pensiero che non si isoli dalla pratica; ma sotto questa voce non possiamo considerare soltanto l'attività umana, dimenticando l'opera della natura. Il mondo reale è la pratica umana soltanto in relazione alla società, ma, relativamente alla natura, il mondo reale è la produzione delle forme materiali. Perciò, un pensiero che attribuisca alla natura il modo di operare umano, che si avvale del finalismo e della connessione di causa ed effetto, è un pensiero che, effettivamente, si isola dalla reale pratica naturale!
Stabilito questo, possiamo domandarci: se la natura non imita il modo di produzione umano, ossia se la pratica della natura non ha nulla a che fare con la pratica dell'uomo, può, al contrario, la pratica umana ricalcare la pratica naturale? La risposta è che l'uomo, come specie cosciente, può fare di meno e di più: di meno, in quanto non può permettersi il dispendio naturale; di più, perché può ridurre il peso del caso. Solo in questo modo può economizzare il reale dispendio naturale, solo in questo modo dimostra di poter trasformare la cieca, incosciente e dispendiosa necessità della "cosa in sé", propria della natura, nella previdente, consapevole necessità della "cosa per noi", propria dell'uomo.
Consideriamo ora il secondo punto fermo di Lenin, quello più discutibile, sulla verità relativa o approssimativa, che il materialismo dialettico ha creduto di poter contrapporre alla verità assoluta del materialismo metafisico e all'agnosticismo di Hume e Kant. L'oggetto della contesa che il materialismo dialettico doveva risolvere, una volta per tutte, riguardava non solo la possibilità della reale conoscenza del mondo esterno, ma principalmente l'affidabilità del principio di causa-effetto: infatti, era quest'ultimo che, soprattutto, divideva il determinismo assoluto dei materialisti metafisici dall'agnosticismo di Hume e di Kant, anche se, come abbiamo visto, Hume negava l'oggettività della causa, mentre Kant l'ammetteva come oggettività di qualcosa di soggettivo: il mondo dei fenomeni possibili.
Engels, nel suo "Ludwig Feuerbach", ha definito Hume e Kant filosofi "i quali contestano la possibilità di una conoscenza del mondo, e almeno di una conoscenza esauriente". Al contrario, i deterministi assoluti pretendevano ottenere una conoscenza esauriente, o verità assoluta del mondo, grazie alla connessione causale di tutte le cose, considerate singolarmente. Per Lenin a questa contrapposizione occorreva dare una risposta. A questo proposito, egli cita Dietzgen*: "Per la conoscenza che abbia acquistato consapevolezza della sua natura, ogni particella, sia pure una piccola particella di polvere o di pietra o di legno, è un qualcosa che non si può conoscere fino in fondo, cioè ogni particella è un materiale inesauribile per l'umana capacità di conoscere; conseguentemente è qualcosa che va oltre i limiti dell'esperienza".
Dietzgen serve a Lenin per impostare la questione del determinismo riduzionistico nei termini che però Engels aveva ridicolizzato nella "Dialettica della natura"**, con l'esempio del baccello di piselli, definendo casuale la condizione del singolo elemento soggetto a infiniti nessi. Tutta la nostra indagine ritorna sempre, inevitabilmente, alla inconoscibilità della singola cosa, presupposto fondamentale della conoscibilità della cosa complessiva. L'errore di Kant è stato quello di non aver inteso che la reale inconoscibilità non riguardava la "cosa in sè", vuota astrazione del mondo delle cose, ma la cosa singola: singolo elemento di un complesso o forma materiale. Se egli aveva ragione a negare la conoscenza al metodo riduzionistico, predominante nella scienza, aveva torto a negare la possibilità della conoscenza del mondo delle cose.
Ora, il determinismo riduzionistico, sebbene fondato sulla errata connessione causale degli infiniti nessi di ciascuna singola cosa, fu, spesso, costretto ad ammettere che, in pratica, non era possibile ottenere una conoscenza esauriente di essi. Fu, così, costretto ad ammettere, come variante della sua impostazione, l'idea della conoscenza approssimativa, come progressione all'infinito e mai esauriente della ricerca della verità. Questa errata concezione ha fatto breccia anche nel materialismo dialettico.
L'Antiduhring di Engels, ancora dominato dalla concezione deterministica, accolse questa versione, come attesta il seguente passo citato da Lenin: ammesso che l'uomo è in grado di riflettere la natura, la questione è: le rappresentazioni umane "possono esprimere senz'altro questa verità integralmente, incondizionatamente, assolutamente, o possono soltanto esprimerla in modo relativo, approssimativo?" La domanda retorica di Engels, che contiene già la risposta favorevole alla verità relativa-approssimativa, dimostra che siamo ancora lontani dal riconoscimento del rapporto caso-necessità come principale polarità dialettica.
Ciò che occorre chiarire è che la questione della verità relativa sembrò essere risolta con la "verità approssimativa", soltanto perché si presuppose riduzionisticamente l'infinita e mai raggiungibile conoscenza della singola cosa in tutti i suoi infiniti nessi con il resto del mondo, ossia in tutte le sue infinite proprietà. Ma, come in seguito Engels ha mostrato nella "Dialettica della natura", la relatività riguarda le polarità dialettiche, non le singole cose soggette al caso.
La mia tesi sostiene che la "verità approssimativa" è stata un errore di teoria della conoscenza che ha portato fuori strada la scuola marxista: così Lenin, mentre ha ribadito correttamente la realtà oggettiva al di fuori dell'uomo, non ha colto l'errore fondamentale degli agnostici quando scrive: "Essi non riconoscono la realtà obiettiva, entrando così in contraddizione diretta con le scienze naturali, e aprendo la porta al fideismo (!). Al contrario per il materialista, il mondo è più ricco, più vario di quanto sembri, giacché ogni progresso nella scienza ne scopre nuovi aspetti. Per il materialista le nostre sensazioni sono l'immagine dell'unica e ultima realtà obiettiva, ultima non perché sia conosciuta a fondo, ma perché non c'è e non può esserci altra realtà al di fuori di quella".
Se è vero che gli agnostici, partendo dalla considerazione che le sensazioni non riproducono la realtà obiettiva perché, o, come dice Hume, l'induzione empirica non garantisce l'oggettività della connessione causale, o, come dice Kant, non si può conoscere la cosa in sé, hanno negato l'esistenza stessa della realtà obiettiva indipendente dalla coscienza umana, è anche vero che il materialismo ha potuto solo affermare con assoluta certezza l'esistenza della realtà obiettiva indipendente, ma quando ha dovuto rendere conto di questa certezza, rispondendo alla domanda: come riflettere questa realtà obiettiva, ha dovuto accogliere il riduzionismo nella sua versione più accettabile, quella della verità approssimativa, come progressione all'infinito.
E così il materialista Lenin, ammettendo la conoscenza inesauribile, approssimativa, ha finito col riconoscere che di ogni singola cosa non fosse possibile una conoscenza esauriente, perché la scienza scopre sempre nuovi nessi causali (!). A sua volta, l'agnostico ha avuto buon gioco a ribattere: anche per noi non si può avere una conoscenza esauriente, ma ciò perché è il principio di causalità che non ce lo permette; anzi, non ci permette neppure una conoscenza certa. Ora, è chiaro che, se la conoscenza umana dovesse affidarsi soltanto al principio di causalità, l'agnosticismo avrebbe ragione a negare ogni certezza, persino quella dell'esistenza del mondo esterno. (Continua)
*Lenin: "Materialismo ed empiriocriticismo".
** Libro sconosciuto a Lenin, perché rimasto chiuso in un cassetto della scrivania dello stupido Liebkenecht.
*Lenin: "Materialismo ed empiriocriticismo".
** Libro sconosciuto a Lenin, perché rimasto chiuso in un cassetto della scrivania dello stupido Liebkenecht.
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