mercoledì 15 novembre 2017

L'incomprensione di Lenin sul caso e sulla necessità

La preoccupazione di Lenin sulla possibilità che l'agnosticismo potesse aprire la porta al fideismo nella scienza era paradossale, perché il fideismo era già di casa nelle scienze della natura. Come abbiamo dimostrato in altra sede, la scienza moderna è sorta dalla teologia, ereditandone metodi e concetti, tra i quali il principio di causalità, il riduzionismo e il finalismo. Quindi, non c'era alcun pericolo di aprire la porta al fideismo, ma solo perché dentro la scienza dominava il fideismo peggiore, in quanto non riconosciuto neppure dai materialisti dialettici: ossia la fede nel determinismo riduzionistico.

Del resto, quanto fosse difficile riconoscere il "fideismo" nel determinismo delle scienze naturali dell'Ottocento, lo testimonia l'atteggiamento manifestato dai maestri della dialettica: Hegel, Feuerbach, Marx ed Engels. Lenin se ne rese conto: basta ricordare il suo rammarico per il fatto che Hegel avesse dedicato così poco spazio al principio di causalità e per il fatto che Marx non avesse scritto una nuova logica. E, riguardo all'Anthiduring di Engels, Lenin ammette con rammarico che egli "non ebbe occasione, se non erro, di contrapporre, in modo speciale, sulla questione della causalità, il suo punto di vista materialistico alle altre tendenze".

Rimaneva solo Feuerbach, a cui chiedere consiglio. Troppo poco! Lenin riporta la risposta che Feuerbach fu costretto a dare a un certo Haym, che lo aveva criticato nei seguenti termini: "La natura e l'intelletto umano divorziano in lui e fra l'una e l'altro si apre un abisso, insuperabile per entrambe le parti". La risposta di Feuerbach è la seguente: "Haym giustifica questo rimprovero col § 48 della mia Essenza della religione, in cui si dice che "la natura può essere compresa soltanto per mezzo della natura stessa, che la necessità della natura non è la necessità umana o logica, metafisica o matematica; che soltanto la natura è l'ente al quale non si può né si deve applicare nessuna misura umana, sebbene noi compariamo e designamo i suoi fenomeni per renderli a noi comprensibili, e applichiamo ad essa espressioni e concetti umani, come ad esempio, l'ordine, il fine, la legge, e siamo costretti a ciò appunto dalla natura del nostro linguaggio"."

In questo passo, Feuerbach mette il dito nella piaga: gli basterebbe concludere che l'errore umano è sempre consistito nella pretesa di applicare alla produzione naturale i criteri che guidano la produzione artificiale, e invece si infervora: che cosa vuol dire questo? Forse "che non c'è nessun ordine nella natura?" "Che nella natura non vi sono finalità (!), in modo, per esempio, che nessuna coordinazione esista fra i polmoni e l'aria, la luce e l'occhio, il suono e l'orecchio? Che nella natura non c'è ordine, in modo che, per esempio, la terra percorra ora un'orbita ellittica, ora un'orbita circolare, compiendo ora in un anno, ora in un quarto d'ora la sua rivoluzione intorno al sole? Che assurdo! Che cosa volevo dunque dire in quel passo? Nient'altro che stabilire una differenza tra ciò che è della natura e ciò che è dell'uomo; in questo passo non si dice che nella natura non c'è nulla di reale che corrisponda alle parole e alle idee di ordine, finalità, di legge; in questo passo si nega che l'ordine, ecc. esista nella natura esattamente come nella testa o nella sensibilità dell'uomo".

Ma se, dopo aver stabilito correttamente la differenza tra ciò che è della natura e ciò che è dell'uomo, si applica ugualmente alla natura il finalismo in relazione, ad esempio, alla coordinazione fra i polmoni e l'aria, si è punto da capo. In questo modo si apre la porta al convenzionalismo. E infatti Feuerbach conclude: "Ordine, finalità, legge non sono altro che parole (?!) con le quali l'uomo traduce nel suo linguaggio, per comprenderle (?), le opere della natura; queste parole non sono prive di senso, cioè di contenuto oggettivo; tuttavia (sic!), bisogna distinguere l'originale dalla traduzione (?)".

Insomma, Haym aveva proprio ragione: in Feuerbach c'è un divorzio tra la natura e l'uomo, perché, pur comprendendo il vero problema, egli non è in grado di risolverlo e, perciò, mantiene per la natura quei concetti di ordine, finalità, ecc. che l'uomo ha creato per suo uso e consumo, ma che per la natura sono invece "qualcosa di arbitrario". Ed è proprio in considerazione del "carattere fortuito dell'ordine, della finalità e delle leggi della natura" che, come osserva giustamente Feuerbach, "il teismo trae espressamente la conclusione della loro origine arbitraria, la conclusione dell'esistenza di un ente, diverso dalla natura, che apporta l'ordine, la finalità, la regolarità della natura, in sé caotica e indifferente a ogni determinazione".

Feuerbach è consapevole del fatto che la teologia fonda il determinismo sulla divinità, attribuendo a Dio la causa prima, proprio perché, a ragione, non vede alcuna causa in natura che possa produrre ordine, finalità e legge. La teologia dice in sostanza che, poiché non si trova in natura la determinazione dell'ordine, quest'ultimo deve derivare necessariamente da una causa superiore, divina; quindi tutte le connessioni causali si fondano su di essa.

Lenin, che ignora tutta questa parte del pensiero umano, non è in grado di vedere tutte le contraddizioni che hanno fatto infervorare Feuerbach colpito nel vivo, quindi si limita a ribadire la sua convinzione deterministica: "Dunque Feuerbach ammette nella natura la legge obiettiva e la causalità obiettiva, che sono riflesse soltanto con esattezza approssimativa (?!) nelle idee umane di ordine, legge, ecc.". E, a questo punto, nonostante consideri giustamente il soggettivismo come un indirizzo "che attribuisce l'origine dell'ordine e della necessità della natura non al mondo esterno obiettivo, ma alla coscienza, all'intelletto, alla logica, ecc.", continua a ritenere che la causalità sia una proprietà del mondo esterno obiettivo, e non semplicemente una proprietà della logica, congeniale alla produzione della tecnologia umana. Così egli definisce fideisti quelli che negano il principio di causalità, non rendendosi conto che tutta la scienza umana è stata fideista proprio perché credeva nella causalità.

Infine, Lenin si convince che "per chi ha letto un pò attentamente" le opere filosofiche di Engels, "dev'essere chiaro che" egli "non ammetteva neppure l'ombra di dubbio (?) sull'esistenza della legge obiettiva, della causalità e della necessità della natura" E rimane in questa convinzione nonostante la citazione di un passo del "Ludwig Feuerbach", nel quale Engels anticipava il rapporto caso-necessità: "Le leggi generali del movimento, tanto del mondo esterno quanto del pensiero umano (sono) due serie di leggi, identiche nella sostanza, differenti però nell'espressione, in quanto il pensiero umano le può applicare in modo consapevole, mentre nella natura e sinora per la maggior parte anche nella storia umana si impongono in modo incosciente, nella forma di necessità esteriore, in mezzo a una serie infinita di apparenti casualità".

Almeno questo passo avrebbe dovuto suscitare qualche dubbio sulla connessione di causa ed effetto in natura, in quanto sosteneva, in sostanza, che le leggi generali s'impongono, in natura e in gran parte della storia umana, in maniera incosciente e cieca. Anche l'espressione di "apparente casualità" avrebbe dovuto far riflette Lenin sulla questione del caso in rapporto alla necessità. Invece, stupisce la sua indifferenza nei confronti del caso e la sua irritazione nei confronti della possibilità, omogenea al caso. Nei suoi "Quaderni filosofici" non si trova un rigo sull'indagine di Hegel dei rapporti caso-necessità, possibilità-realtà, a meno che non ci sia sfuggito quel solo rigo; e qui, in "Materialismo ed empiriocriticismo", utilizza solo due espressioni a sostegno del materialismo dialettico: 1) le leggi di causalità e di necessità, 2) il carattere relativo, approssimativo della conoscenza umana.

Soltanto una volta nomina il caso, distinguendo il casuale dal necessario. Lo fa quando ribatte a un certo Petzold, per il quale "la funzione della fantasia, l'importanza dei grandi inventori, ecc. costituiscono delle eccezioni, mentre la legge della natura, o la legge dello spirito non tollera "nessuna eccezione". "Abbiamo davanti a noi -scrive Lenin- un metafisico puro e semplice, il quale non ha nessuna idea della relatività della distinzione fra casuale e necessario". Ma, se avesse avuto lui qualche idea su questa distinzione, non si comprende perché neppure, in questa occasione, l'abbia espressa, mentre ha sempre evitato l'argomento. Di fronte alla difficile questione della determinazione dell'ordine e della necessità nelle scienze della natura, ma anche nella storia umana, Lenin ha ignorato il caso con apparente indifferenza, mentre si è totalmente affidato al principio di causalità, a tal punto da identificarlo con il materialismo dialettico, legando, così, a quello il destino di questo.

Per comprendere le conseguenze del malinteso di Lenin, che ha dato origine alla identificazione della cieca necessità della natura e della società umana con la necessità non conosciuta dall'uomo, riprendiamo in considerazione "Materialismo ed empiriocriticismo" e, in particolare, il paragrafo dedicato alla "Libertà-necessità", che esamina il pensiero di Engels, espresso nell'"AntiDuhring", cominciando dalla seguente citazione: "Engels dice: "Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato".

Da notare: il punto fondamentale è qui rappresentato dalla connessione tra libertà e scopo. Abbiamo già visto che l'uomo è guidato dal binomio scopo-necessità. Ora, l'uomo è libero se riesce, sulla base della conoscenza delle leggi di natura, a farle agire secondo il binomio scopo-necessità. Su questo aspetto fondamentale, torneremo nella sezione che si occupa della dialettica caso-necessità nella storia della specie umana, dove riprenderemo l'intera argomentazione, ma da un'altra angolatura. Qui ci limitiamo a chiarire la questione in relazione alla conoscenza della necessità.

Engels così continua (nell'estratto citato da Lenin): "ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quante a quelle che regolano l'esistenza fisica e spirituale dell'uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l'una dalll'altra tutt'al più nell'idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più è libero è il giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio... La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna, fondato sulla conoscenza delle necessità naturali (...)".

Leggiamo il commento di Lenin sul brano appena citato: "In primo luogo, Engels riconosce, fin dal principio del suo ragionamento, le leggi della natura, le leggi della natura esterna, la necessità della natura..." "In secondo luogo, Engels non si occupa di escogitare "definizioni" della libertà, della necessità, ..." "Engels prende la conoscenza e la volontà dell'uomo  da una parte, la necessità della natura dall'altra e, invece, di formulare qualsiasi definizione, dice semplicemente che la necessità della natura è primordiale e la volontà e la coscienza dell'uomo sono secondarie. Queste ultime devono, inevitabilmente e necessariamente, adeguarsi alle prime". Siamo completamente d'accordo. Lenin dice bene: di là la necessità della natura, di qua la coscienza. La conseguenza dovrebbe, quindi, essere che, al di fuori della coscienza umana, c'è la natura con i suoi processi da nessuno voluti e, perciò, ciecamente necessari, e, riguardo alla coscienza, "cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". Questa è la cecità specifica dell'uomo, perché significa che egli non conosce la necessità della natura.

Lenin continua: "In terzo luogo, Engels non dubita della esistenza della "necessità cieca". Egli riconosce l'esistenza di una necessità non conosciuta". E qui, invece, non possiamo più essere d'accordo, perché egli identifica ciò che, invece, va tenuto distinto: da un lato c'è la "necessità cieca" dei processi naturali da nessuno voluti, ad esempio la cieca necessità della gravitazione; dall'altro c'è la "necessità non conosciuta" dall'uomo. Ma questa necessità è cieca solo per la coscienza umana e viene eliminata dalla conoscenza scientifica. Quindi se la "necessità cieca" della natura coincidesse con la "necessità non conosciuta" dall'uomo, la prima conseguenza logica sarebbe che la conoscenza della necessità toglierebbe alla necessità della natura la sua oggettiva cecità. La seconda conseguenza logica sarebbe: se dipendesse dalla conoscenza umana il carattere della necessità naturale, come farebbe l'uomo a pretendere di conoscere l'esistenza di una necessità che è cieca solo in quanto gli è sconosciuta? Non è un caso che i machisti abbiano attaccato questo punto debole della identificazione della "cieca necessità" con la "necessità non conosciuta".

Lenin è costretto a prendere in considerazione le seguenti obiezioni dei machisti: "in che modo può l'uomo "conoscere l'esistenza di una necessità sconosciuta? Forse che questo non è 'misticismo'?" E risponde: "Se i machisti riflettessero, non potrebbero non avvertire la completa identità dei ragionamenti di Engels sulla conoscibilità della "cosa in sé" in "cosa per noi" da una parte, e dei suoi ragionamenti sulla necessità cieca, sconosciuta dall'altra parte". Proviamo a riflettere: 1) la "cosa in sè" è la natura con i suoi processi da nessuno voluti, inconsapevoli e perciò ciecamente necessari (il che vuol dire che non esiste in natura una connessione necessaria di causa ed effetto, che, invece, si può osservare nei meccanismi prodotti dall'uomo); 2) la "cosa per noi" è la conoscenza della cieca necessità naturale, ossia la conoscenza della dialettica caso-necessità che guida i processi della natura. Quindi la "cosa in sé" rappresenta l'oggettiva cecità della natura, mentre la non conoscenza della cosa in sé rapppresenta la soggettiva cecità umana.

Per Lenin la faccenda è, invece, questa: "Lo sviluppo della coscienza in ogni singolo individuo umano e lo sviluppo della conoscenza collettiva di tutto il genere umano ci mostrano a ogni passo la trasformazione della necessità cieca, sconosciuta, della "necessità in sè", nella "necessità per noi" conosciuta". Qui Lenin non si rende conto di scivolare nel soggettivismo concependo la "cosa in sé" come "cieca necessità" solo in quanto è sconosciuta all'uomo. Eppure la considera "necessità in sé"! Ma, se è oggettiva "necessità in sé" la "cieca necessità" della "cosa in sé", tale rimane sia che la conosciamo sia che non la conosciamo. Lenin ha confuso due cose distinte: se è vero che lo sviluppo della conoscenza rappresenta il passaggio dalla necessità sconosciuta (ossia cieca per noi) alla necessità conosciuta per noi, ciò non ha nulla a che vedere con la "necessità in sé" o "cieca necessità" della natura.

Per fare un semplice esempio, l'oggettiva necessità della gravitazione non muta il suo essere "necessità in sé" o "necessità cieca", sia che la conosciamo sia che, come accade ancora oggi, la immaginiamo in maniera fittizia come curvatura quadrimensionale immaginaria. Sono due cose distinte la cecità della natura e la cecità dell'uomo: alla prima non c'è rimedio, alla seconda sì; nessuno può cambiare la gravitazione, ma qualcuno, prima o poi, sarà in grado finalmente di comprenderla nella sua cieca "necessità in sé".

Dall'equivoco nel quale è caduto Lenin consegue un errore fondamentale: egli dice che "finché non conosciamo una legge della natura, essa, esistendo e agendo al di là e al di fuori della nostra conoscenza, ci rende schiavi della "necessità cieca". Così, prendendo come esempio i fenomeni atmosferici, egli afferma che, poiché noi non ne conosciamo la necessità, "siamo inevitabilmente schiavi di questi fenomeni". E ciò è giusto, nel senso che, poiché la cieca necessità della natura non vede nessuno, e quindi può collidere con la nostra cecità, noi non abbiamo alcun mezzo per difenderci.

Ma poi afferma: "Dal momento che conosciamo questa legge, la quale agisce (come ha ripetuto spesso Marx migliaia di volte) indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra coscienza, noi siamo i dominatori della natura". E questa è una conclusione contraddittoria: se è vero che Marx ha affermato spesso che la legge naturale agisce indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra coscienza (e cioè anche dalla nostra conoscenza), e quindi per questo motivo è cieca, non è affatto vero, sempre per questo motivo, che se conosciamo questa legge che agisce ciecamente, noi diventiamo sen'altro i dominatori della natura. Anche ammettendo una conoscenza assolutamente certa (e non soltanto approssimativa o, peggio ancora, fittizia e convenzionale come quella attuale) della legge naturale, noi non potremmo fare altro che vedere il comportamento cieco della natura. Ma da qui a dominarlo ce ne corre.

Per dominare la natura e noi stessi, ha detto Engels, ci vuole la capacità di poter decidere con "cognizione di causa", ossia conosciuta la "causa", i giochi non sono ancora fatti. occorre la capacità pratica, il potere pratico, in una parola, i mezzi tecnologici adeguati. Lenin si limita a parlare genericamente di "salto vitale" dalla teoria alla pratica, ma la conoscenza della necessità non permette di per sé il passaggio alla pratica. Per passare alle realizzazioni pratiche occorrono condizioni e circostanze che hanno a che vedere più con il potere dei mezzi che con il potere della conoscenza. Non è un caso, infatti, che la tecnologia in ogni epoca abbia progredito molto più velocemente della teoria.

E qui sorge un problema d'importanza fondamentale: e cioè, se l'uomo può progredire secondo il binomio scopo-necessità, gli ostacoli al suo progresso derivano in primo luogo dal tipo di società e dal suo modo di produzione. Ogni società fino ad oggi è stata fondata su modi di produzione che non potevano permettere l'immediata applicazione pratica di leggi della natura appena conosciute; anzi, paradossalmente, l'applicazione pratica ha spesso preceduto la conoscenza della legge che ne rappresentava il fondamento; in altre parole, l'uomo è progredito più per tentativi ed errori, secondo procedimenti che rientrano nel modo naturale di produzione assoggettato alla cieca dialettica caso-necessità, e quindi con grande dispendio.

Il problema è dunque questo: se l'uomo non può evitare che la natura segua la sua dispendiosa evoluzione, soggetta alla cieca dialettica caso-necessità, può, però, porsi il compito storico di sottrarsi a questa dialettica, sostituendo al "caso" lo "scopo" della sua libera volontà. Si tratta di vedere come possa l'uomo liberare la sua volontà dalla schiavitù del caso individuale e della conseguente cieca necessità complessiva. 

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...