La contraddizione nella quale si dibatterono i principali teorici del liberalismo, Constant, Tocqueville e Stuart Mill, rispecchia la contraddizione esistente tra liberalismo e democrazia: ossia la contrapposizione esistente tra l'individuo singolo, la cui casualità è concepita come libertà individuale, e la necessità collettiva, concepita come volontà generale (della maggioranza) e, in quanto tale, considerata come un limite alla libertà individuale stessa.
Nel liberalismo il caso ha alzato la testa: non si è accontentato di dichiarare che la necessità della comunità politica non teneva conto della casualità degli individui, ma, assumendo il nome di una prematura libertà, ha dichiarato che la necessità della volontà generale rappresentava un limite alla libertà individuale e perciò costituiva una forma di oppressione. Questa contraddizione si evidenziò particolarmente nella democrazia elettorale come contrapposizione tra il primato dell'individuo elettore e il primato della maggioranza elettorale.
Nel liberalismo il caso ha alzato la testa: non si è accontentato di dichiarare che la necessità della comunità politica non teneva conto della casualità degli individui, ma, assumendo il nome di una prematura libertà, ha dichiarato che la necessità della volontà generale rappresentava un limite alla libertà individuale e perciò costituiva una forma di oppressione. Questa contraddizione si evidenziò particolarmente nella democrazia elettorale come contrapposizione tra il primato dell'individuo elettore e il primato della maggioranza elettorale.
Ma c'è un'altra forma di contraddizione che si manifesta nella democrazia liberale: la forma del reale primato di una minoranza dominante, la classe capitalistica, che possiede il potere di creare e manovrare l'opinione pubblica, e quindi di determinare la sua "maggioranza elettorale", così che una classe minoritaria diventa necessariamente maggioritaria in parlamento e può governare legalmente la maggioranza del popolo.
E, tuttavia, persino in questa forma molto limitata e ristretta, ciò che si afferma è pur sempre il primato della collettività sugli individui. Del resto, come abbiamo già visto in altra occasione, questa forma ristretta di primato della comunità politica trova la sua giustificazione storica nella circostanza che, se la democrazia liberale si dovesse manifestare come vera espressione della maggioranza popolare, le decisioni politiche sarebbero affidate ai "nullatenenti", ai non proprietari. Così, non è un caso che il liberalismo europeo dell'Ottocento respingesse il suffragio universale, attribuendo il diritto di voto solo ai proprietari.
[Detto per inciso, questa giustificazione storica "valeva" ieri in una Europa popolata da una maggioranza di salariati poveri dell'agricoltura e dell'industria, quanto vale oggi nella Cina, popolata da una analoga maggioranza. Da qui l'ostilità dei governanti cinesi nei confronti di chi a livello internazionale preme per una rapida introduzione della democrazia liberale in Cina, che ponga fine al suo "totalitarismo"]
Considerando il periodo che precedette la rivoluzione francese, John M. Kelly, in "Storia del pensiero giuridico occidentale" (1996), giunge fino ad affermare che "Non era certamente nelle intenzioni del suo autore, ma la "volontà generale" di Rousseau è uno degli antenati filosofici dei regimi totalitari del XX secolo". Questa assurda affermazione ci fornisce il pretesto per affrontare e risolvere una volta per tutte la falsità speciosa del pseudoconcetto di "totalitarismo", nel quale, di recente, il liberalismo democratico ha accomunato ogni concezione che in forma universale o particolare, giusta o ingiusta, ha posto in primo piano la comunità politica, subordinandole i singoli individui. Diciamo giusta o ingiusta, perché, se è giusto mettere in primo piano la specie umana rispetto al singolo uomo, è ingiusto per la specie umana che venga posta in primo piano, in sua vece, una razza superiore o un popolo superiore o una nazione superiore, ecc.
Ciò che storicamente, comunque, ha rappresentato, sia pure in forme parziali, limitate e anche brutali, la necessità della comunità politica è stata interpretata dai teorici individualisti piccolo-borghesi della democrazia liberale con il termine assolutamente dispregiativo di "totalitarismo", termine con il quale non si sono qualificati soltanto regimi brutali e oppressivi come quello nazista e quello stalinista, ma in generale ogni forma di governo e ogni dottrina che ponesse in primo piano l'interesse della collettività rispetto a quello dell'individuo.
E, tuttavia, persino in questa forma molto limitata e ristretta, ciò che si afferma è pur sempre il primato della collettività sugli individui. Del resto, come abbiamo già visto in altra occasione, questa forma ristretta di primato della comunità politica trova la sua giustificazione storica nella circostanza che, se la democrazia liberale si dovesse manifestare come vera espressione della maggioranza popolare, le decisioni politiche sarebbero affidate ai "nullatenenti", ai non proprietari. Così, non è un caso che il liberalismo europeo dell'Ottocento respingesse il suffragio universale, attribuendo il diritto di voto solo ai proprietari.
[Detto per inciso, questa giustificazione storica "valeva" ieri in una Europa popolata da una maggioranza di salariati poveri dell'agricoltura e dell'industria, quanto vale oggi nella Cina, popolata da una analoga maggioranza. Da qui l'ostilità dei governanti cinesi nei confronti di chi a livello internazionale preme per una rapida introduzione della democrazia liberale in Cina, che ponga fine al suo "totalitarismo"]
Considerando il periodo che precedette la rivoluzione francese, John M. Kelly, in "Storia del pensiero giuridico occidentale" (1996), giunge fino ad affermare che "Non era certamente nelle intenzioni del suo autore, ma la "volontà generale" di Rousseau è uno degli antenati filosofici dei regimi totalitari del XX secolo". Questa assurda affermazione ci fornisce il pretesto per affrontare e risolvere una volta per tutte la falsità speciosa del pseudoconcetto di "totalitarismo", nel quale, di recente, il liberalismo democratico ha accomunato ogni concezione che in forma universale o particolare, giusta o ingiusta, ha posto in primo piano la comunità politica, subordinandole i singoli individui. Diciamo giusta o ingiusta, perché, se è giusto mettere in primo piano la specie umana rispetto al singolo uomo, è ingiusto per la specie umana che venga posta in primo piano, in sua vece, una razza superiore o un popolo superiore o una nazione superiore, ecc.
Ciò che storicamente, comunque, ha rappresentato, sia pure in forme parziali, limitate e anche brutali, la necessità della comunità politica è stata interpretata dai teorici individualisti piccolo-borghesi della democrazia liberale con il termine assolutamente dispregiativo di "totalitarismo", termine con il quale non si sono qualificati soltanto regimi brutali e oppressivi come quello nazista e quello stalinista, ma in generale ogni forma di governo e ogni dottrina che ponesse in primo piano l'interesse della collettività rispetto a quello dell'individuo.
Per comprendere a fondo le contraddizioni nelle quali si aggroviglia questa idea di "totalitarismo", occorre riconsiderare il rapporto caso-necessità in connessione con il rapporto singolo-complesso, che nella storia umana si è concretizzato in diverse forme di società e di governo: dallo stato barbarico allo stato civile della democrazia ateniese, dalla repubblica all'impero romano, dagli Stati feudali agli Stati assolutisti, dalla moderna democrazia liberale al nazifascismo e allo stalinismo o "socialismo reale".
Ciò che dobbiamo comprendere è che ogni forma di società organizzata ha presentato, anche se in modo ristretto, (in modo parziale, limitato e oppressivo, tipico della specie umana divisa in classi, popoli e nazioni, per non parlare di etnie, religioni, ecc.), il prevalere dell'interesse complessivo sull'interesse individuale. E ciò è avvenuto persino nella forma dello Stato democratico liberale, dove l'individuo è stato posto in primo piano.*
Anche quando si cominciò a parlare di diritti naturali dell'uomo, l'errore fu di attribuirli all'individuo, mentre si sarebbe dovuto concepire come legge di natura (come legge anche della natura umana) la prevalenza della specie sull'individuo. E per quanto riguarda la libertà, si sarebbe dovuto concepire innanzitutto la libertà della specie, come fondamento senza il quale non può neppure esistere la libertà dell'individuo.
Quest'ultima concezione, che il liberalismo democratico non ha potuto evitare di concepire come "totalitarismo", rappresenta, al contrario, la vera libera condizione della specie umana, finalmente padrona di sé; e se, fino ad oggi, questa concezione non si è affermata, è solo perché l'umanità ha continuato ad essere divisa e oppressa. Oggi prevale la teoria democratica liberale che stabilisce questa contrapposizione metafisica: da un lato la concezione individualista (il bene), dall'altro la concezione totalitaria (il male). Questa teoria si congratula con la storia che ha posto fine alla concezione malefica. Gustavo Zagrebelsky, ad esempio, scrive: "è cambiata la direzione dell'azione statale", "sono caduti in discredito i miti totalitari come la Nazione e la razza, ai quali si chiedeva il sacrificio dell'individualità umana" ("Il diritto mite" 1992)
Ma se si concepiscono come totalitarie forme di governo (di una specie umana divisa) solo perché obbligano l'individuo a sottostare alla collettività del momento, immaginando che al contrario l'individuo debba essere liberato dalle esigenze di una collettività opprimente, ciò significa non essere più in grado di comprendere la vera realtà dell'oppressione. Il fatto è che la mentalità piccolo borghese si compiace del suo gretto, egoistico interesse individuale e ha in uggia qualsiasi necessità collettiva; così pretende che possa esistere una libertà individuale, un diritto individuale al benessere, alla proprietà, alla felicità personali, persino nelle peggiori condizioni di esistenza della maggioranza della specie umana, e non si rende conto che queste pretese libertà, benessere, felicità, ecc. personali non esistono neppure nella popolazione della potenza più democratica e individualistica del globo: gli USA.
Ma chi può pensare: "Posso essere libero e felice", in un mondo nel quale miliardi di suoi simili sono schiavi del lavoro e della penuria, se non il piccolo borghese benestante, accecato dal proprio gretto egoismo? Questo individuo egoista non sa che la sua condizione di singolo membro della specie umana è sotto il dominio del caso; non sa che la pretesa libertà, il preteso benessere, la pretesa felicità indiduali sono sogni appesi al filo della sorte che un qualsiasi accidente può spezzare. Non si rende conto che, quanto più cieca e distruttiva è la necessità della sua specie, tanto più la sua esistenza di singolo individuo è sottoposta all'imprevedibile caso.
* Per chi avesse dubbi su questa affermazione, basti ricordare le due guerre mondiali combattute e vinte dalla più avanzata democrazia liberale, quella americana, quando necessariamente l'interesse della "collettività", rappresentata dallo Stato e dalle sue forze armate, ha dovuto pretendere dall'individuo la più completa soggezione alla disciplina militare e l'abbandono di ogni pretesa libertà personale, sotto pena di corte marziale.
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Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)