Concetti della sfera della necessità
Cominciamo dal concetto di necessario. Con questo termine si è inteso fin da Aristotele "ciò che non può non essere, o che non può essere". Abbagnano dice che la seconda definizione indica l'impossibile che è il contrario opposto di necessario, mentre il possibile è, sempre a suo avviso, il "contradditorio" del necessario, cioè il non necessario. Questa è solo confusione. Proviamo, perciò, a fare un pò di chiarezza.
Le due definizioni di Aristotele mostrano che necessario è sia ciò che non può evitare d'essere, sia ciò che non può essere, cioè l'impossibile. Allora come fa Abbagnano a considerare l'impossibile il "contrario opposto" di necessario, pur essendo a sua volta necessario? Perché Abbagnano ragiona metafisicamente e concepisce degli opposti diametrali, non polari, non dialettici. L'opposto dialettico della necessità è il caso. Se si considera opposto dialettico del necessario il casuale, e opposto dialettico dell'impossibile il possibile, allora si può arrivare a concepire due serie di concetti polari omogenei: l'impossibilità è omogenea alla necessità, come la possibilità è omogenea al caso. Perciò se l'impossibile è tale per necessità, il possibile è tale per caso.
Aristotele ha considerato tutti i significati di necessità: 1° come concausa o condizione, 2° come forza o costrizione, 3° come ciò che non può essere altrimenti. Il terzo significato è senz'altro quello fondamentale: infatti se una cosa non può essere altrimenti per necessità, questa necessità è inevitabilmente anche costrizione: il secondo significato rientra, perciò, nel terzo. Il primo significato rappresenta, invece, qualcosa di fittizio: la concausa è ancora più fittizia della causa prima o seconda, o che dir si voglia (almeno relativamente ai processi naturali) .
L'epoca moderna ha mantenuto l'impostazione aristotelica pur operando dei distinguo. La sola novità è rappresentata dall'introduzione dei concetti di necessità logica e di necessità morale da parte di Leibniz. Questi considera: a) la necessità geometrica, assoluta, che appartiene alle verità eterne, in quanto il loro opposto implica contraddizione; b) la necessità fisica, che costituisce "l'ordine della natura e consiste nelle regole del movimento e in qualche altra legge generale che è piaciuto a Dio dare alle cose creandole"; c) la necessità morale che è "la scelta del saggio, in quanto è degna della sua saggezza", cioè la scelta del meglio.
Dal punto di vista della teoria scientifica, astraendo dalla necessità morale, in quanto non appartiene al campo della conoscenza, e dalla necessità geometrica, in quanto non appartiene alla sfera naturale, non rimane che la necessità fisica da prendere in esame. Per Leibniz la necessità fisica dipende dalla scelta divina, che non è scelta della necessità assoluta, ma è scelta delle leggi della natura, le migliori possibili. La necessità fisica è detta ipotetica: si tratta della necessità per ipotesi, il cui opposto non implica contraddizione, la quale serve a giustificare il libero arbitrio divino nella scelta delle leggi necessarie di natura. Quanto all'infallibità divina, Leibniz se la caverà con un trucco terminologico, quello di sostituire alla "necessità fatale", la "certezza" della realizzazione divina.
In conclusione, si può affermare che il pensiero moderno è stato costretto dalla sua subordinazione al pensiero teologico a considerare la necessità come derivazione da Dio, inteso come causa suprema di tutte le cose.
Alla stessa conclusione si può giungere considerando il concetto di ordine. Abbagnano distingue tre nozioni di ordine: 1) l'ordine seriale, 2) l'ordine totale, 3) il grado o livello. Aristotele privilegia come ordine seriale l'ordine causale, nel quale l'effetto viene dopo la causa. stessa impostazione Sant'Agostino che scrive: "O dimostrate che qualcosa può avvenire senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo ordine di cause". Spinoza fa coincidere l'ordine delle cose con la loro connessione causale e considera sinonime le due espressioni: "l'ordine di tutta la natura" e "il nesso delle cause". Il concetto di ordine, in sostanza, indica il risultato della connessione causale di tutte le cose: c'è ordine nel mondo perché c'è la connessione di causa ed effetto.
Leibniz utilizza per primo la nozione di ordine in opposizione al disordine (che però non nomina). Egli contrappone l'ordine come regola a ciò che appare senza regola, partendo dal presupposto che, riguardo all'ordine universale, tutto è perfettamente armonico, e non c'è nulla che sia assolutamente fuori regola. Però si rende conto che "quando una regola è molto complessa ciò che le appartiene passa per irregolare". Egli vede dunque che la complessità non può facilmente essere ridotta alla connessione diretta di causa ed effetto, ma cerca di aggiustare la faccenda riducendola ad apparenza. Ad esempio, rassicurando che ciò che passa per straordinario sembra non seguire la regola, ossia un ordine particolare, ma quando si tratta di ordine universale, l'armonia è perfetta!
Nel secondo significato, l'ordine totale riguarda la disposizione reciproca delle parti in un tutto. Dice Abbagnano che, se l'ordine seriale è essenzialmente un ordine causale, l'ordine totale è, essenzialmente un ordine finale. San Tommaso lo ha chiamato ordine dei fini; Kant, ordine morale o regno dei fini, e Bergson, ordine vitale.
Naturalmente, questo ordine è stato attribuito alla natura, per tramite di Dio, perché teologicamente è Dio che ha creato la natura; ma scientificamente quest'ordine è attribuibile all'uomo, nel senso che l'uomo, ponendosi dei fini e realizzandoli, realizza un ordine determinato, voluto. C'è da notare, infine, che attraverso la concezione meccanicistica, l'ordine relativo alla produzione umana delle macchine è stato trasferito alla natura concepita come macchina creata da Dio.
Concetto di fatalismo: Wolff ha attribuito a Spinoza il fatalismo o la necessità fatale. Leibniz ha poi distinto il "fato maomettano" o "destino alla turca" dal fato stoico e cristiano. Il cristianesimo ha ereditato la concezione del fato da Plutarco. Se il fato maomettano considera gli eventi futuri indipendenti dalla volontà e dall'azione dell'uomo, il fato cristiano, ovvero la provvidenza, permette secondo Leibniz, almeno in parte all'azione dell'uomo di determinare il futuro.
Il fato, inteso come necessità inevitabile, è stato concepito come cieca necessità, non però in quanto esso derivi da cause o circostanze che non guardano in faccia nessuno, e perciò si comportino con intrinseca inevitabilità, come nel caso della gravitazione, ma come cecità dovuta alla nostra non conoscenza, la quale è stata attribuita principalmente al fatto che solo Dio conosce ciò che accade secondo la sua volontà predeterminata, secondo l'ordine da lui stabilito. La necessità cieca sarebbe così la necessità sconosciuta che, solo in quanto sconosciuta, domina da sempre ogni essere come parte dell'ordine totale.
Ma se l'ordine totale stabilisse, tra le altre infinite cose, che io sia pizzicato da una zanzara in questo esatto momento, con tutta la conoscenza in possesso dell'intera specie umana, non potrei evitare il fatto, non potendolo prevedere. Questa imprevedibilità si identifica con il caso. E' il caso che produce la cieca necessità.
Ogni fatalismo di natura divina rappresenta, invece, il capovolgimento del reale movimento della natura: mentre la natura si muove in maniera ciecamente necessaria, perché la necessità si fonda sul caso imprevedibile, il fatalismo di origine divina presuppone che Dio colpisca sempre nel segno, là dove ha prestabilito.
Se, quindi, l'uomo fosse realmente sottoposto al fato divino, potrebbe restarsene tranquillo, e per due buone ragioni: la prima, perché Dio saprebbe quel che fa e lo farebbe a ragion veduta; la seconda, perché l'uomo dovrebbe per principio rimanere all'oscuro di tutto, non potendo conoscere in anticipo l'imperscrutabile volontà divina. Il fatto è che l'uomo, sottoposto da sempre alla cieca necessità della natura e della società, è sempre stato sotto il dominio della necessità "fatale"; solo che non ha mai potuto stare tranquillo perché, invece d'essere sottoposto alla rassicurante preveggenza divina, è sottoposto alla cieca dialettica di caso e necessità che ha sempre guidato la natura e, fino ad oggi, la storia umana.
Riguardo al concetto di destino (o provvidenza), anche qui possiamo dire che l'equivoco consiste nell'aver concepito la necessità cieca solo in quanto non conosciuta. Il destino, inteso teologicamente come necessità che rappresenta l'ordine del mondo, nel quale ogni singolo essere è predeterminato come parte di un tutto, richiede una visione infinita fin dei minimi dettagli. Dio, quindi, deve essere onniveggente. Non c'è quindi da preoccuparsi dell'umana cecità: Dio vede anche per l'uomo. Se si ammette, come fa ad esempio Leibniz, che è certo che capiterà sempre ciò che Dio ha prestabilito e previsto, sarebbe solo sfiducia e diffidenza nei suoi confronti cercare di conoscere o interpretare le sue intenzioni, la sua volontà, ecc. Eppure è questo che da sempre ha fatto la teologia, ed è su questo che da sempre si sono divisi e hanno litigato i teologi.
Se guardiamo alla teoria della conoscenza, l'aspetto più negativo è che questa concezione teologica, che vuole la necessità della natura cieca solo a motivo della non conoscenza umana, è finita attraverso la filosofia hegeliana nella più avanzata concezione del mondo, quella della dialettica materialistica. Così, non si è compreso che solo concependo la necessità naturale come risultato, ogni volta statisticamente eccezionale, sulla base di un un grande dispendio -risultato inconsapevole e cieco della dialettica caso-necessità-, si è in grado di conoscere la necessità internamente cieca dei processi naturali e sociali.
Si può anche affermare che, se fino al secolo scorso si riconosceva giustamente la cecità della conoscenza umana (che è rimediabile), ma non si riconosceva l'irrimediabile cecità della natura, oggi non si prende in considerazione né la cecità della natura né quella dell'uomo, o in nome della più passiva e rassegnata accettazione di ogni situazione (Heidger), o in nome della previsione di ciò che è solo probabile (Heisenberg, Bohr, Havemann, ecc. e lo stesso Abbagnano), o, infine, in nome della negazione sia di una natura oggettiva sia della possibilità della conoscenza.
Il fato, inteso come necessità inevitabile, è stato concepito come cieca necessità, non però in quanto esso derivi da cause o circostanze che non guardano in faccia nessuno, e perciò si comportino con intrinseca inevitabilità, come nel caso della gravitazione, ma come cecità dovuta alla nostra non conoscenza, la quale è stata attribuita principalmente al fatto che solo Dio conosce ciò che accade secondo la sua volontà predeterminata, secondo l'ordine da lui stabilito. La necessità cieca sarebbe così la necessità sconosciuta che, solo in quanto sconosciuta, domina da sempre ogni essere come parte dell'ordine totale.
Ma se l'ordine totale stabilisse, tra le altre infinite cose, che io sia pizzicato da una zanzara in questo esatto momento, con tutta la conoscenza in possesso dell'intera specie umana, non potrei evitare il fatto, non potendolo prevedere. Questa imprevedibilità si identifica con il caso. E' il caso che produce la cieca necessità.
Ogni fatalismo di natura divina rappresenta, invece, il capovolgimento del reale movimento della natura: mentre la natura si muove in maniera ciecamente necessaria, perché la necessità si fonda sul caso imprevedibile, il fatalismo di origine divina presuppone che Dio colpisca sempre nel segno, là dove ha prestabilito.
Se, quindi, l'uomo fosse realmente sottoposto al fato divino, potrebbe restarsene tranquillo, e per due buone ragioni: la prima, perché Dio saprebbe quel che fa e lo farebbe a ragion veduta; la seconda, perché l'uomo dovrebbe per principio rimanere all'oscuro di tutto, non potendo conoscere in anticipo l'imperscrutabile volontà divina. Il fatto è che l'uomo, sottoposto da sempre alla cieca necessità della natura e della società, è sempre stato sotto il dominio della necessità "fatale"; solo che non ha mai potuto stare tranquillo perché, invece d'essere sottoposto alla rassicurante preveggenza divina, è sottoposto alla cieca dialettica di caso e necessità che ha sempre guidato la natura e, fino ad oggi, la storia umana.
Riguardo al concetto di destino (o provvidenza), anche qui possiamo dire che l'equivoco consiste nell'aver concepito la necessità cieca solo in quanto non conosciuta. Il destino, inteso teologicamente come necessità che rappresenta l'ordine del mondo, nel quale ogni singolo essere è predeterminato come parte di un tutto, richiede una visione infinita fin dei minimi dettagli. Dio, quindi, deve essere onniveggente. Non c'è quindi da preoccuparsi dell'umana cecità: Dio vede anche per l'uomo. Se si ammette, come fa ad esempio Leibniz, che è certo che capiterà sempre ciò che Dio ha prestabilito e previsto, sarebbe solo sfiducia e diffidenza nei suoi confronti cercare di conoscere o interpretare le sue intenzioni, la sua volontà, ecc. Eppure è questo che da sempre ha fatto la teologia, ed è su questo che da sempre si sono divisi e hanno litigato i teologi.
Se guardiamo alla teoria della conoscenza, l'aspetto più negativo è che questa concezione teologica, che vuole la necessità della natura cieca solo a motivo della non conoscenza umana, è finita attraverso la filosofia hegeliana nella più avanzata concezione del mondo, quella della dialettica materialistica. Così, non si è compreso che solo concependo la necessità naturale come risultato, ogni volta statisticamente eccezionale, sulla base di un un grande dispendio -risultato inconsapevole e cieco della dialettica caso-necessità-, si è in grado di conoscere la necessità internamente cieca dei processi naturali e sociali.
Si può anche affermare che, se fino al secolo scorso si riconosceva giustamente la cecità della conoscenza umana (che è rimediabile), ma non si riconosceva l'irrimediabile cecità della natura, oggi non si prende in considerazione né la cecità della natura né quella dell'uomo, o in nome della più passiva e rassegnata accettazione di ogni situazione (Heidger), o in nome della previsione di ciò che è solo probabile (Heisenberg, Bohr, Havemann, ecc. e lo stesso Abbagnano), o, infine, in nome della negazione sia di una natura oggettiva sia della possibilità della conoscenza.
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Tratto da "Caso e necessità - l'enigma svelato - Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito
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