Nella introduzione alla "Dialettica della natura", Engels scrive: "Gli uomini quanto più si allontanano dalla animalità intesa nel senso ristretto della parola, tanto più fanno essi stessi la loro storia consapevolmente, tanto minore diventa l'influenza su tale storia di fatti imprevisti e di forze incontrollate, tanto più esattamente il risultato storico corrisponde allo scopo prestabilito".
Ma, subito dopo, aggiunge: se osserviamo le società umane, anche le più evolute, notiamo "ancora una colossale sproporzione fra le mete prefissate e i risultati raggiunti, che i fatti impreveduti predominano, che le forze incontrollate sono molto più potenti di quelle messe in movimento secondo un piano. E non può essere altrimenti, finché l'attività storica più essenziale degli uomini, quell'attività che ha sollevato l'uomo dall'animalità all'umanità e che costituisce la base materiale di tutte le altre attività: la produzione di ciò che è necessario per vivere (il che significa oggi la produzione sociale), resta soggetta all'alterno gioco di influenze imprevedute e di forze incontrollate e realizza solo eccezionalmente l'obiettivo voluto, molto più spesso invece l'obiettivo opposto".
E' qui espressa chiaramente quella che possiamo chiamare la legge del dispendio operante nell'attività umana. Questo dispendio si manifesta nei troppo frequenti risultati non voluti, mentre quelli voluti sono solo delle rare eccezioni. Anche Hegel, nella "Logica", ha espresso qualcosa di analogo, osservando che il mondo oggettivo "procede per la sua strada" e l'uomo s'imbatte "in ostacoli e persino nella impossibilità". Così il "risultato non voluto" e l'"impossibilità" caratterizzano l'attività umana, distinguendola dall'opera della natura. Infatti, se in riferimento alla natura il concetto di risultato non voluto ha solo il significato di risultato inconsapevole, perché la natura non ha né coscienza né volontà, in relazione all'uomo, il risultato non voluto non significa soltanto, come in natura, un risultato inconsapevole, ma indica che non è stato raggiunto il risultato che si voleva ottenere secondo lo scopo prefissato. Perciò, il concetto di impossibilità qui ha un senso preciso: significa che ciò che è stato pensato e voluto non è stato realizzato, che al suo posto si trova invece un altro risultato, inatteso, non previsto. Possiamo quindi concepire il "risultato non voluto" come espressione della "impossibilità" nel campo delle realizzazioni degli scopi umani.
Ma, subito dopo, aggiunge: se osserviamo le società umane, anche le più evolute, notiamo "ancora una colossale sproporzione fra le mete prefissate e i risultati raggiunti, che i fatti impreveduti predominano, che le forze incontrollate sono molto più potenti di quelle messe in movimento secondo un piano. E non può essere altrimenti, finché l'attività storica più essenziale degli uomini, quell'attività che ha sollevato l'uomo dall'animalità all'umanità e che costituisce la base materiale di tutte le altre attività: la produzione di ciò che è necessario per vivere (il che significa oggi la produzione sociale), resta soggetta all'alterno gioco di influenze imprevedute e di forze incontrollate e realizza solo eccezionalmente l'obiettivo voluto, molto più spesso invece l'obiettivo opposto".
E' qui espressa chiaramente quella che possiamo chiamare la legge del dispendio operante nell'attività umana. Questo dispendio si manifesta nei troppo frequenti risultati non voluti, mentre quelli voluti sono solo delle rare eccezioni. Anche Hegel, nella "Logica", ha espresso qualcosa di analogo, osservando che il mondo oggettivo "procede per la sua strada" e l'uomo s'imbatte "in ostacoli e persino nella impossibilità". Così il "risultato non voluto" e l'"impossibilità" caratterizzano l'attività umana, distinguendola dall'opera della natura. Infatti, se in riferimento alla natura il concetto di risultato non voluto ha solo il significato di risultato inconsapevole, perché la natura non ha né coscienza né volontà, in relazione all'uomo, il risultato non voluto non significa soltanto, come in natura, un risultato inconsapevole, ma indica che non è stato raggiunto il risultato che si voleva ottenere secondo lo scopo prefissato. Perciò, il concetto di impossibilità qui ha un senso preciso: significa che ciò che è stato pensato e voluto non è stato realizzato, che al suo posto si trova invece un altro risultato, inatteso, non previsto. Possiamo quindi concepire il "risultato non voluto" come espressione della "impossibilità" nel campo delle realizzazioni degli scopi umani.
Mentre -in natura, dove non esistono scopi e i risultati sono sempre "non voluti" nel senso della cieca necessità, il concetto di impossibilità non ha senso e il concetto di possibilità può essere limitato alla semplice considerazione positiva che ciò che si realizza deve essere possibile nei termini delle leggi fisiche e chimiche, -nell'attività umana, dove è prevalso fino ad oggi il cieco rapporto naturale caso-necessità, il concetto di impossibilità è fondamentale, in quanto negazione di ciò a cui l'uomo coscientemente aspira: ossia la realizzazione dei suoi scopi prefissati.
C'è, quindi, una differenza sostanziale tra i processi naturali, che sono dominati dal cieco rapporto caso-necessità (del quale, ad esempio, nessuna specie animale può lagnarsi, perché priva di coscienza) e i processi sociali, che rappresentano una contraddizione tra la predeterminazione cosciente diretta allo scopo prefissato, perché voluto, e l'indeterminazione prodotta dal cieco rapporto caso-necessità che sistema le cose in modo tale da dare risultati non voluti dall'uomo. A causa di questa contraddizione, l'uomo (il cui cervello ha permesso una coscienza, una volontà, un finalismo), diversamente dalle altre specie animali, ha potuto vedere ostacoli alla propria volontà e ai propri scopi, e ha potuto concepire non solo l'idea della difficoltà alla loro realizzazione, ma anche l'idea della impossibilità.
Ciononostante, la cieca necessità dei risultati non voluti ha permesso all'uomo rapidi progressi nella sola forma possibile, quella del dispendio, con grande spreco di materia, energia e vita. Si potrebbe dire che l'umanità, fino ad oggi, non ha potuto fare altro che trovare, alla sua contraddizione fondamentale, soluzioni consolatorie nelle forme dell'idealismo e dell'etica. Scrive Engels: "Tutto il merito dei rapidi progressi della civiltà venne attribuito alla mente, allo sviluppo e all'attività del cervello; gli uomini si abituarono a spiegare la loro attività con il loro pensiero invece che con i loro bisogni (che senza dubbio nel cervello si riflettono e giungono alla coscienza). Sorse così, col tempo, quella concezione idealistica della vita, che ha dominato le menti dalla fine della civiltà antica".
L'umanità, dominata dalla cieca necessità dei risultati non voluti, ha creduto di trovare la soluzione nell'idealizzare la sua attività, rimuovendo la casualità che ne costituisce la base e illudendosi sulla necessità dei risultati, attribuiti alla superiorità della mente umana. La necessità ha così spodestato, nell'illusione idealistica, il caso: l'opera dell'uomo è stata concepita idealisticamente soltanto come necessità. Il dominio della cieca necessità dei risultati non voluti ha prodotto, come riflesso capovolto nella coscienza degli uomini, il dominio della concezione idealistica.
Ma, in questo modo, l'umanità si è addossata una responsabilità superiore alle proprie forze. Attribuendosi tutto per necessità, ha finito col giustificare o, al contrario, col condannare ogni "risultato non voluto". Di fronte ad esso, di fronte alla chiara manifestazione dell'impossibilità nel raggiungimento degli scopi, "Il bene -ha scritto Hegel- rimane un dover essere" ("Logica"). L'umanità ha trasformato gli scopi non raggiunti in ideali etici, mentre condannava o assolveva questo o quel "risultato non voluto". Alla cieca necessità che domina da millenni l'intera umanità, l'uomo non ha saputo contrapporre altro che l'illusione idealistica della necessità determinata da lui stesso e il correttivo etico, inteso come un dover essere, apparentemente necessario, ma vano e impotente.
Si è ridotto così il peso del caso, ma solo nell'idea non nella realtà. La realtà ha continuato ad essere il mondo oggettivo che procede indisturbato per la sua strada, e la pratica dell'uomo ha continuato ad imbattersi nell'impossibilità: ossia nei risultati non voluti che rappresentano la regola nella storia umana fino ad oggi. La vera soluzione, come vedremo, può consistere soltanto nella reale riduzione del peso del caso nei processi umani.
C'è, quindi, una differenza sostanziale tra i processi naturali, che sono dominati dal cieco rapporto caso-necessità (del quale, ad esempio, nessuna specie animale può lagnarsi, perché priva di coscienza) e i processi sociali, che rappresentano una contraddizione tra la predeterminazione cosciente diretta allo scopo prefissato, perché voluto, e l'indeterminazione prodotta dal cieco rapporto caso-necessità che sistema le cose in modo tale da dare risultati non voluti dall'uomo. A causa di questa contraddizione, l'uomo (il cui cervello ha permesso una coscienza, una volontà, un finalismo), diversamente dalle altre specie animali, ha potuto vedere ostacoli alla propria volontà e ai propri scopi, e ha potuto concepire non solo l'idea della difficoltà alla loro realizzazione, ma anche l'idea della impossibilità.
Ciononostante, la cieca necessità dei risultati non voluti ha permesso all'uomo rapidi progressi nella sola forma possibile, quella del dispendio, con grande spreco di materia, energia e vita. Si potrebbe dire che l'umanità, fino ad oggi, non ha potuto fare altro che trovare, alla sua contraddizione fondamentale, soluzioni consolatorie nelle forme dell'idealismo e dell'etica. Scrive Engels: "Tutto il merito dei rapidi progressi della civiltà venne attribuito alla mente, allo sviluppo e all'attività del cervello; gli uomini si abituarono a spiegare la loro attività con il loro pensiero invece che con i loro bisogni (che senza dubbio nel cervello si riflettono e giungono alla coscienza). Sorse così, col tempo, quella concezione idealistica della vita, che ha dominato le menti dalla fine della civiltà antica".
L'umanità, dominata dalla cieca necessità dei risultati non voluti, ha creduto di trovare la soluzione nell'idealizzare la sua attività, rimuovendo la casualità che ne costituisce la base e illudendosi sulla necessità dei risultati, attribuiti alla superiorità della mente umana. La necessità ha così spodestato, nell'illusione idealistica, il caso: l'opera dell'uomo è stata concepita idealisticamente soltanto come necessità. Il dominio della cieca necessità dei risultati non voluti ha prodotto, come riflesso capovolto nella coscienza degli uomini, il dominio della concezione idealistica.
Ma, in questo modo, l'umanità si è addossata una responsabilità superiore alle proprie forze. Attribuendosi tutto per necessità, ha finito col giustificare o, al contrario, col condannare ogni "risultato non voluto". Di fronte ad esso, di fronte alla chiara manifestazione dell'impossibilità nel raggiungimento degli scopi, "Il bene -ha scritto Hegel- rimane un dover essere" ("Logica"). L'umanità ha trasformato gli scopi non raggiunti in ideali etici, mentre condannava o assolveva questo o quel "risultato non voluto". Alla cieca necessità che domina da millenni l'intera umanità, l'uomo non ha saputo contrapporre altro che l'illusione idealistica della necessità determinata da lui stesso e il correttivo etico, inteso come un dover essere, apparentemente necessario, ma vano e impotente.
Si è ridotto così il peso del caso, ma solo nell'idea non nella realtà. La realtà ha continuato ad essere il mondo oggettivo che procede indisturbato per la sua strada, e la pratica dell'uomo ha continuato ad imbattersi nell'impossibilità: ossia nei risultati non voluti che rappresentano la regola nella storia umana fino ad oggi. La vera soluzione, come vedremo, può consistere soltanto nella reale riduzione del peso del caso nei processi umani.
Per comprendere, invece, quanto pesi, nella società e nella storia, il caso che si trasforma in cieca necessità, è utile fare un raffronto tra la specie uomo e le specie animali. Dice Engels che anche gli animali modificano, con la loro attività, la natura che li circonda, e, poiché nella natura non esistono avvenimenti isolati, quelle modificazioni reagiscono a loro volta sugli animali. "Ma se gli animali esercitano un'influenza duratura sull'ambiente in cui vivono, la cosa avviene senza alcuna intenzione ed è, per gli animali stessi, qualcosa di casuale". Una casualità che si rovescia, però, nella cieca necessità; come avviene quando, ad esempio, animali erbivori distruggono inconsapevolmente la vegetazione di un territorio, precludendosi in questo modo la possibilità del futuro nutrimento.
Riguardo all'uomo, quanto più esso "si allontana dall'animale -scrive Engels- tanto più la sua influenza sulla natura assume l'aspetto di attività premeditata, svolta secondo un piano, un piano indirizzato a ben determinati scopi, anticipatamente noti. L'animale distrugge la vegetazione di una regione senza sapere quel che fa. L'uomo la distrugge per seminare sul terreno così sgombrato e per piantarvi alberi e viti, e sa che riavrà la sua semente moltiplicata". L'uomo, per la sua azione finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo, sembra dunque poter ridurre il caso e quindi la cieca necessità, che caratterizzano i processi naturali, ma può farlo solo nella misura in cui riesce a ottenere i risultati voluti e previsti.
Diversamente dall'animale, l'uomo rende la natura utilizzabile per i suoi scopi e, modificandola, sembra dominarla. "Questa è -scrive Engels- l'ultima ed essenziale differenza tra l'uomo e gli altri animali ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza". Ma, aggiunge subito dopo: "Non aduliamoci troppo, tuttavia, per la nostra vittoria umana sulla natura. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento, ma in seconda o in terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano, a loro volta, le prime conseguenze".
Se gli animali si limitano a provocare casualmente e senza intenzionalità conseguenze molto contenute, l'uomo, per le conseguenze più remote della sua attività, è ancora e molto più degli animali dominato dal caso e dalla conseguente cieca necessità. Con il progredire della civiltà, l'uomo non solo ha moltiplicato le sementi, i manufatti, ecc., ossia i suoi risultati voluti, ma ha anche moltiplicato i risultati non voluti.
Per comprendere questo apparente paradosso, basta considerare il carattere immediatistico della produzione umana: "Tutti i modi di produzione fino ad oggi esistiti -scrive Engels- si sono sviluppati avendo di mira risultati pratici più vicini, più immediati, del lavoro. Le ultime conseguenze manifestantesi solo in un tempo successivo, operanti solo per graduale accumulazione e ripetizione, rimanevano del tutto trascurate". Questo carattere della produzione umana, come Marx ed Engels avevano già compreso al tempo della "Ideologia tedesca", deriva dal fatto che ogni singolo uomo parte da se stesso, dai suoi bisogni più immediati, e quindi è assimilabile ad una particella casuale nel groviglio della società, come ogni singolo animale lo è nel groviglio della natura.
Così, se consideriamo il modo di produzione capitalistico, l'immediatismo deriva dal fatto che ogni singolo capitalista si muove casualmente alla ricerca del suo profitto immediato. "In una società in cui -scrive Engels- i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono essere presi in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo i primi, più palpabili risultati. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un determinato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto ...".
L'immediatismo dell'operare umano, in quanto operare di molte singole volontà, singoli scopi, singole necessità, si manifesta come casualità: le occasioni, le circostanze possono permettere un primo risultato immediato, voluto dal singolo individuo; ma gli infiniti risultati si intrecciano, le singole operazioni individuali si aggrovigliano e la loro accumulazione determina in tempi successivi risultati complessivi da nessuno voluti. La realtà paradossale dell'opera dell'uomo consiste in ciò: che la necessità della produzione, in quanto è assolta in maniera immediatistica, è realizzata in maniera casuale da singoli uomini che partono da se stessi, dai propri bisogni immediati; che i risultati singoli di queste attività sono solo immediatamente e parzialmente voluti, ma, in quanto imprevedibili, sono a loro volta casuali e non voluti a lunga scadenza; infine, in quanto si fissano complessivamente come pratica comune sociale, diventano a loro volta risultati ciecamente necessari, se pur non voluti.
Questi risultati ciecamente necessari rappresentano la base di partenza di ogni nuova generazione di uomini, e ne costituiscono quelle "forze incontrollate", che sono le reali forze motrici della storia. La vita reale della specie umana, compresa la produzione di ciò che è necessario per vivere, resta soggetta perciò "all'eterno gioco di influenze imprevedute di forze incontrollate e realizza solo eccezionalmente l'obiettivo voluto, molto più spesso invece l'obiettivo opposto". Questa è la forma specifica di dispendio che riguarda la storia umana e che possiamo attribuire, ancora una volta, alla dialettica caso-necessità. Come in natura, anche nella società umana troviamo operante la legge del dispendio e il suo corollario: l'eccezione statistica.
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Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)